Cinquant’anni dopo Hannah Arendt: pensare contro l’obbedienza
Il 4 dicembre 1975 moriva Hannah Arendt. Cinquant’anni dopo, la sua voce resta una delle più lucide del Novecento, e forse una delle più necessarie per comprendere questo nostro tempo di smarrimento politico e morale. Hannah Arendt non cercava verità eterne, il suo pensiero fu sempre un esercizio di comprensione delle fratture del mondo, dai totalitarismi del secolo scorso alle crisi democratiche che ancora oggi ci attraversano.
La nozione di banalità del male, elaborata nel suo reportage sul processo a Adolf Eichmann, segnò una svolta radicale. Eichmann non appariva come un mostro, ma come un funzionario mediocre, impermeabile al pensiero. Da qui l’intuizione che continua a inquietarci: il male nasce quando smettiamo di pensare, quando obbediamo senza giudicare. Il male non è abissale, ma superficiale, si diffonde nel vuoto della coscienza.
Oggi, questa idea suona drammaticamente attuale. In un mondo governato da algoritmi, piattaforme e catene di comando impersonali, la deresponsabilizzazione assume nuove forme. Il “mi limito a eseguire” di ieri diventa oggi “è la decisione dell’intelligenza artificiale”, “lo dice il sistema”, “lo impone il partito”. L’obbedienza cieca sopravvive, solo più tecnologica e burocratica. La politica contemporanea, dalla gestione delle crisi globali alle derive populiste, mostra ogni giorno quanto sia facile rinunciare al giudizio critico in cambio di sicurezza o appartenenza.
Hannah Arendt ci ricorda che la libertà non è una condizione, ma un atto, la democrazia non è garantita da procedure né da algoritmi trasparenti ma vive solo se i cittadini pensano, se sanno dire no a un ordine ingiusto, se rifiutano di ridursi a ingranaggi in una macchina che decide al posto loro.
Hans Jonas scrisse di lei che ebbe “il coraggio di pensare senza compromessi, e di dire ciò che il mondo non voleva sentire”. Oggi questo coraggio serve più che mai. Non basta indignarsi di fronte al potere, bisogna assumersi la responsabilità delle proprie scelte. È l’unica forma di resistenza che Hannah Arendt ci ha insegnato: pensare come atto politico, come gesto di libertà in un tempo che sembra averne paura.
Stefano Superchi





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