La ribellione gentile, più potente della censura
Esce nelle sale “Il mio giardino persiano” dei registi iraniani Moghaddam e Sanaeeha
“Il mio giardino persiano”, opera delicata e potente dei registi iraniani Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, mette in scena un angolo appartato di Teheran dove la quotidianità diventa atto politico e terreno su cui fiorisce la ribellione, tra tenerezza, sofferenza e tentativi disperati di libertà.
Un film che svela con profondità la forza dei gesti semplici. La trama segue la vita di Mahin (interpretata da Lili Farhadpour), vedova e madre di una figlia che vive ormai in Svizzera. Stanca della solita routine di insonnie e solitudini, decide di riprendersi i suoi desideri.
Complice un divertente pranzo con le amiche, con le quali una volta si vedeva spesso, poi sempre meno, fino a pranzare insieme una volta l’anno, riprende in mano la sua vita. Incontra casualmente un tassista in una tavola calda. Coglie in lui qualcosa, quindi decide di forzare il destino ed incontrarlo di nuovo la sera stessa.
L’uomo si chiama Faramarz (l’attore Esmail Mehrabi) ed è un ex soldato. Mahin lo invita a casa sua. La serata passa tra racconti e silenzi illuminando le loro solitudini, desiderio e complicità sfidano la monotonia della vita e le rigide leggi del regime.
In ogni sequenza si rivela con poetico realismo la quotidianità iraniana fatta di libertà negate: lo smalto rosso sulle unghie, invitare un uomo in casa, bere un bicchiere di vino. Tutte cose vietate, che quindi si trasformano in atto politico contro il dogma.
È qui che l’opera si carica di un significato universale: l’intimità, la scelta personale e la ricerca della felicità possono diventare reali strumenti di rivolta.
Nella prima parte della pellicola, minimalista, le immagini fisse riflettono la monotonia della vita di Mahin, con un ritmo che lascia allo spettatore il tempo di immergersi nella sua solitudine. Col progredire della relazione fra la donna e Faramarz, con l’aprirsi delle emozioni e la riscoperta della vitalità, il film diventa più scorrevole. La fotografia rimanda a una Teheran intima e non stereotipata. Anche la colonna sonora di Henrik Nagy, alternando silenzi tesi a melodie dolenti che sottolineano i momenti più intensi, si rivela un elemento emotivo importante.
Il film appartiene al filone del cinema sociale iraniano, ricordando a tratti quello di Asghar Farhadi. Non è apertamente militante, ma ogni sequenza narrativamente e visivamente è un affilato atto d’accusa, una testimonianza del proprio tempo.
Ai registi Moghaddam e Sanaeeha è stato impedito di lasciare l’Iran per presentare il film al Festival di Berlino 2024 (dove ha vinto il premio della giuria ecumenica) e sono stati accusati di propaganda contro il regime. La loro opera è diventata un inno di libertà e la semplicità della messa in scena lascia allo spettatore la possibilità di osservare, più che giudicare.
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Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha |
“Il mio giardino persiano”, pur nella sua semplicità, mantiene la sua catarsi emotiva e la sua urgenza sociale. L’opera ricorda come la bellezza risieda nei piccoli gesti come cucinare una torta per qualcuno con cui poter ridere e ballare, anche solo per una sera. L’importanza della condivisione e la forza di semplici momenti di felicità come forma di rivoluzione, silenziosa e potentissima allo stesso tempo.
Stefano Superchi
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