La 127, Giovanni Chiaramonte e la Madeleine
La Madeleine de Proust (o sindrome di Proust) è un termine francese che può designare nella vita quotidiana un oggetto, un gesto, un colore e in particolare un sapore o un profumo, che evocano in noi ricordi del passato. No, non stiamo parlando della Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, ma di una utilitaria che nel 1971 segnò il passaggio dall’epoca del boom economico degli anni ’60 alla “modernità” degli anni ’70, la successione naturale della “vecchia” 850, ormai obsoleta. Molti di noi hanno fatto i primi viaggi sui sedili posteriori della 127 dei nostri genitori, vedendo il mondo scorrere dal finestrino. La vedremo poi sul grande schermo, sfrecciare nei polizieschi o guidata da Alberto Sordi. È stata l’auto di una generazione e a pensarci oggi, in questa epoca dove le auto hanno assunto dimensioni mastodontiche, fa quasi sorridere. Ma a noi, i figli della 127, basta una immagine per scatenare quel misto tra nostalgia e orgoglio delle nostre radici che è difficile spiegare.
Stefano Superchi
Nella mostra fotografica di Giovanni Chiaramonte, le immagini sono circa 400 e coprono un arco temporale di circa 50 anni, partendo dai primi anni '70. Mi accorgo che, davanti alla visione di un numero così elevato di immagini, si attiva un meccanismo che porta a soffermarsi per un tempo maggiore su alcune opere, guidati dal filtro della propria esperienza e sensibilità.
Veniamo cioè "catturati" da fotografie che ci appaiono in qualche modo "familiari", che si ricollegano in qualche modo a momenti del nostro vissuto. È un processo di riconoscimento che può avvenire anche a posteriori, dopo aver lasciato il tempo alle sensazioni visive di sedimentare.
Ed ecco che emerge quella che per me è l'immagine "iconica", quella che rimane impressa nella memoria e che racchiude in uno scatto la totalità delle immagini. Mi riferisco alla foto della Fiat 127, che ruba, in qualche modo, la scena agli altri soggetti inquadrati. O almeno questa è l'intenzione che io voglio attribuirle.
E' un flash "affettuoso", che mi riporta all'infanzia, a quell' auto così profumata di nuovo, e della quale mio padre era così orgoglioso. La fotografia non è mai una forma di comunicazione statica, ma tende a creare una sorta di dialogo immaginario con l'autore, in cui si cercano punti in comune.
È probabilmente questa sensazione, alla fine, che desidero provare visitando una mostra e che definisce la mia esperienza.
Elisa Riva
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