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05 gennaio 2025

10 anni senza Pino Daniele, che fece di Napoli il Mondo intero

 10 anni senza Pino Daniele, che fece di Napoli il Mondo intero

 


Pino Daniele tenne un concerto a Casalmaggiore il 15 settembre del 1981, nell'ambito del celeberrimo festival "Recitarcantando". Come ci ricorda Giovanni Gardani in un articolo di Oglio Po news di 10 anni fa esatti (lo trovate qui) "Il casalese Annibale Boni, che in quegli anni si occupava di organizzare questi eventi nella parte tecnica (con lui anche l’allora assessore alla Cultura Dina Federici e l’attuale direttore artistico del Teatro Comunale Giuseppe Romanetti), ricorda che si fece di tutto, riuscendo nell’intento, per mantenere il biglietto a 4mila lire, anziché a 5mila lire come chiedevano gli agenti, proprio per la natura popolare del Recitarcantando. Il cavo trifase necessario per la sonorizzazione arrivava alla Tabaccheria Anversa."
(n.d.r.)


 


 Il mio vero incontro con Pino Daniele fu nel 1981 quando in Piazza Garibaldi insieme a Tullio De Piscopo e Tony Esposito tenne un concerto. Erano anni d'oro per Casalmaggiore e per le generazioni giovani di allora e Pino entrò nei nostri cuori così, dalla nostra piazza.

Pino non è solo napoletano, Pino è Mediterraneo, mediorientale, è un ricercatore musicale. Tutte le influenze che ha assorbito nel suo essere un musicista appassionato hanno sortito qualcosa di unico e di grande. Le sonorità di Pino hanno dentro più generi: il rock, il blues, il pop il melodico, il napoletano, il medio orientale, l'arabo, il Mediterraneo, la sua musica è una fusione di tutto questo.

La sua grandezza sta nel non avere mai perduto le sue origini, il suo essere partenopeo. E si distingue anche nei testi che narrano sicuramente di Napoli ma che accusano anche le ingiustizie sociali ed esaltano l'amore e l'importanza dell'unione di un popolo e del senso di appartenenza.

Pino ci ha regalato pezzi che non hanno nulla da invidiare a nessuna delle tendenze musicali né italiane né internazionali, ha conquistato cuori di sensibilità e provenienza diverse, ha composto canzoni che ancora oggi fanno abbandonare in una dimensione tutta da godere.

Giovanna Anversa

 


Pensate di mettere insieme il blues del Delta, il mare del Golfo di Napoli, un vulcano borbottante, le lotte degli emarginati dei bassi con i loro colori, gli odori e i profumi ed avrete la musica di Pino Daniele.
Ma non è tutto quà, c’è anche una personalità forte e gentile, una sensibilità artistica senza pari, un unicum che è rimasto senza eredi, un’eredità non raccolta, se non da pochi invisibili, niente a che vedere con gli odierni (t)rapper o neomelodici in odore di malavita, niente a che vedere con la Napoli folcloristica da cartolina.



Giuseppe Daniele, detto Pino, raccontava di amori e disagi, lotte e orgoglio identitario con una voce su un filo teso altissimo, supportata da melodie che echeggiano blues e jazz mediterraneo. Ha raccontato la sua città e le sue storie, una città con la sua identità piena di contraddizioni, contaminata da altri mondi e da altri suoni che convergono dall’Africa, dall’America e dal Mediterraneo.

 

 

Un racconto poco incline a compromessi e stereotipi, vissuto dal di dentro, con i piedi nelle viscere urbane e gli occhi che guardano l’orizzonte, dove il mare e il cielo si toccano.


In questa città Pino ci nasce il 19 marzo del ’55, quartiere del Porto, una famiglia con forti difficoltà economiche, tanto che viene spedito dalle zie per permettergli di completare il ciclo di studi e diplomarsi ragioniere all’Istituto Diaz. In quegli anni l’attrazione per la musica è fortissima, Pino impara a suonare la chitarra da autodidatta e nel contempo respira il clima della contestazione, assorbendo i temi dell’emancipazione e del riscatto sociale.
 


Comincia a frequentare Corrado Rustici, Enzo Avitabile e Rino Zurzolo, con Enzo Gragnaniello già si conoscono perché erano compagni di scuola; sono i prodromi di quella che chiamerà Tarumbò, una sintesi tra blues e tarantella. Si fa le ossa come sessionman, richiestissimo, con Jenny Sorrenti e Gianni Nazzaro, accompagna in tour Bobby Solo.

 


Nel 1976 la svolta arriva con le sembianze di James Senese, che lo invita a suonare il basso nella formazione più ricca di talento della scena napoletana contemporanea, Napoli Centrale.
Lo stesso anno esce il suo primo 45 giri che contiene Che Calore e Fortunato, che poi andranno a comporre, insieme a pezzi come Napule è, ‘Na tazzulella ‘e cafè e Libertà, il suo primo album, Terra mia.

 

Napoli nella sua musica è sempre presente, ma non viene solo descritta, viene esplorata nel profondo, mettendoci le mani e tirando fuori le contraddizioni, una sorta di cartografia dell’intimità. Talvolta con atmosfere struggenti, altre volte con il blues più asciutto, o con ironia tagliente.
Poi arriva il suo album più rappresentativo, una specie di manifesto programmatico della sua opera, Nero a metà, essenziale, nient’affatto melodia da cartolina.

 


Il resto è storia della musica, Pino non si è mai risparmiato e non si è mai rinchiuso in un ghetto, ma ha collaborato con il mondo: Battiato, De Gregori, Dalla, Gato Barbieri, Danilo Rea, Pat Metheny, Eric Clapton, Chick Corea, Joe Bonamassa, Richie Havens, Wayne Shorter, Naná Vasconcelos e tanti altri che non starò ad elencare.

 


La sua energia, il Neapolitan Power, crea una alchimia tra i suoni di Napoli, il jazz, il blues, il funk, il rock, ritmi africani. I suoi lavori successivi hanno un andamento ondivago, alcuni più facili da ascoltare hanno un gran successo, altri (più inclini alla ricerca musicale che probabilmente sente di più), arrivano meno al grande pubblico, cosa che comunque gli interessava relativamente, come ebbe a dichiarare: «Vivo fregandomene delle classifiche, del marketing e della discografia. Tanto i risultati arrivano quando non ci pensi proprio. La paranoia della classifica o del disco suonato in radio, la rincorsa agli umori e ai gusti di direttori artistici dei network… Basta! Ho vissuto in questo lavoro momenti belli e voglio continuare a viverli. Non sapendo che cosa vuole la gente io faccio quello che mi sento. Le nuove stagioni non mi fanno paura. Cerco di invecchiare con dignità, senza smettere di combattere, tirando fuori la grinta quando la sento».

 


Durante una puntata di Alta classe, la trasmissione condotta da Gianni Minà, Pino Daniele, in una delle sue rarissime apparizioni televisive, è accanto al suo grande amico Massimo Troisi. Quest’ultimo, tra una battuta e l’altra scherza sul brano Quando, che insieme a O ssaje comme fa ‘o core fa parte della colonna sonora del suo film Pensavo fosse amore… invece era un calesse: «Massimo – avrebbe detto Pino Daniele – ho scritto una canzone, mi fai un film?».

 

 
 

Intorno al 1990 si deve fermare per i suoi acciacchi al cuore, ma quando riprende un discreto stato di salute ritorna a far musica con una direzione che guarda ad Oriente e al continente africano. Incontra artisti come il maliano Salif Keïta, il franco-algerino Faudel, il turco Omar Farouk Tekbilek, il tunisino Lotfi Bushnaq, ma trova contaminazioni simili nelle note dei 99 Posse, con cui incide Evviva o rre. E poi ancora torna al jazz, riscrive madrigali e rielabora atmosfere barocche. 

 



È così sino al 4 gennaio del 2015, quando ci lascia per le definitive complicazioni dei suoi problemi cardiaci. A Napoli, in piazza per salutarlo sono in centomila, i funerali devono essere organizzati in due tappe.

 


Ma la Napoli di Pino Daniele è il mondo intero, una rete tessuta negli anni con pazienza, che rappresenta umanità complesse, la sua è una musica che gira intorno, in un viaggio di ricerca che alla fine torna a Napoli, dove tutto ebbe inizio.


Stefano Superchi


 

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