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31 gennaio 2025

“Ehi!”, sono cinquant’anni di Happy Days!

 “Ehi!”, sono cinquant’anni

di Happy Days!

 

 

Era l'appuntamento dell'ora di cena, iniziava la sigla e ci si incollava alla TV.

Happy Days ha accompagnato momenti adolescenziali, quando l'America era un sogno da sognare.

Giovanna Anversa



Cinquant'anni fa andava in onda negli Stati Uniti la prima puntata di "Happy Days". In Italia arrivò alla fine del 1977 e fu subito "fonziemania".




È difficile trovare un programma televisivo che sia entrato nell’immaginario collettivo più del telefilm Happy Days. Apparso per la prima volta negli States sulla rete Abc cinquant’anni fa, impiegò qualche tempo ad ingranare, ma poi cominciò a conquistare spettatore su spettatore, inanellando ascolti stellari.

 


L’ideatore di Happy Days, il produttore Garry Marshall, dopo il successo del film American Graffiti, volle raccontare le vicende di una famiglia americana caratteristica degli anni Cinquanta, un’epoca in un certo senso ideale, ancora al riparo del dramma del dilagare della droga, che proprio negli anni Settanta segnò la parte più giovane della società americana.

 


La famiglia Cunningham incarnava valori cristiani, era rassicurante e trasmetteva un senso di serenità che metteva a proprio agio gli spettatori. Anche il personaggio che doveva sembrare più trasgressivo, il “ribelle” Fonzie, alla lunga si rivelò probabilmente il più amato, un buono, con i modi da duro ma dal cuore tenero.


Il ricordo affettuoso e un po’ nostalgico dei Cunningham, di Richie e dei suoi amici Ralph, Potsie e Fonzie, non è solo degli spettatori che erano adolescenti tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, ma si è esteso a più generazioni. A guardare le puntate di Happy Days prima del Tg delle 20 era tutta la famiglia e, dopo la fine dell’undicesima e ultima stagione andata in onda sulla Rai, sono state rimandate in onda sui canali Mediaset  e diffuse in Dvd. Ora si possono vedere su www.justwatch.com».

 


L’Italia è stato uno dei Paesi nei quali Happy Days ha avuto maggior successo, punte di 13 milioni di spettatori e un gradimento del 75%. Oltre alla fascinazione di tutto quello che proveniva da oltreoceano, probabilmente c’era  anche l’immedesimazione nei personaggi italoamericani: Fonzie è l’abbreviazione di Arthur Fonzarelli; suo cugino Chachi Arcola (che poi diverrà il fidanzato di Joanie), è interpretato da Scott Baio, la cui famiglia è originaria di Palermo; il proprietario del locale Arnold’s dove si ritrovano Richie e i suoi amici si chiama Al Delvecchio (interpretato da Al Molinaro); lo stesso Garry Marshall, produttore di Happy Days, all’anagrafe faceva Masciarelli ed era nipote di emigrati abruzzesi.

 


Al successo della serie contribuiva sicuramente la grande sintonia che c’era sul set tra gli attori, quell’aria di grande famiglia che in un certo qual modo si percepiva anche al di quà dello schermo. E molti di loro hanno poi avuto una brillante carriera senza rimanere intrappolati nei ruoli che avevano nella serie.

 


Su Happy Days uscirono fumetti, giocattoli e ogni tipo di gadget; proprio in Italia, a Codogno, è stato fondato l’Happy Days International Fans Club, dove si possono trovare centinaia di oggetti (1.439 per la precisione) tra cui la tuta da meccanico di Fonzie, uno dei flipper di scena, la divisa da softball di Erin Moran con il suo autografo, il cappellino da baseball di Henry Winkler, giochi da tavola e action figures.

 


Nella prefazione di un libro dedicato alla serie, Henry Winkler dice: «Happy days è stata una delle esperienze più importanti di tutta la mia vita, al di fuori della mia famiglia. Anche quella è stata una famiglia, una squadra che ha lavorato duramente insieme, ha giocato insieme, è cresciuta insieme. Io e Fonzie siamo molto diversi. Non sono mai stato un figo. Non ho mai avuto la sua disinvoltura con le ragazze, non sono mai riuscito a far partire il juke box con un colpo della mano».

 


Ma per i “ragazzi” della nostra generazione, quel “duro dal cuore tenero” con il giubbotto di pelle alla James Dean, il pettine sempre in tasca e il suo gesto con i pollici “Ehi!”, è diventato un’icona che resiste al passare del tempo.


Stefano Superchi

 

 

 


 

29 gennaio 2025

Eleonora Duse - The Greatest, ritratto di una Diva

Eleonora Duse - The Greatest, ritratto di una Diva



Qual è il significato del termine diva? Esistono ancora oggi le dive? Per quale motivo sentiamo la necessità di scavare nel trascorso di donne vissute in epoche così distanti dalla nostra? Una risposta potremo averla il 3 febbraio, all’uscita nelle sale del documentario “Duse - The Greatest” diretto da Sonia Bergamasco (a sua volta attrice e interprete di cinema e teatro), che va sulle tracce della diva che ha stravolto irreversibilmente il mestiere dell’attrice: Eleonora Duse.
 


Helen Mirren, intervistata nel documentario, dice che il segreto della Duse era la grande naturalezza: lei non recitava. La voce di Lee Strasberg interviene incisiva: «Non faceva nulla di recitato, quella era la sua grandiosità». In questi anni vanno molto i reality, con le persone che mettono in piazza la loro vita privata e i loro disastri affettivi spiattellati ovunque, che fatalmente si rivelano fallimentari e patetici. Le donne si svestono sulle piattaforme in cambio di soldi, eppure, nella stessa epoca, sentiamo la necessità di tornare sulle orme di una donna che di sé ha lasciato una sola (!) pellicola cinematografica – “Cenere”, un film muto del 1916 – qualche rarissima fotografia e alcune lettere.
 


La Duse ancora oggi è un mistero. Se torniamo indietro nel tempo a cercare “le dive” è forse perché nessuna è più capace di segretezza e discrezione, le molle della curiosità. Nell’era dei social nessuno è più predisposto alla privacy, si pensa che l’unico modo di farsi notare sia mostrarsi senza lasciare nulla d’intentato. Così, dopo picchi di attenzione smisurata ma brevissima, su certe star crolla tragicamente il sipario lasciando solo buio e rovine. Il lavoro della Bergamasco ci fa riflettere sul fatto che no, oggi non ci sono più le dive (forse l’ultimo “esemplare” rimasto è Mina). L’era delle dive è finita.

 


Eleonora Duse invece, in scena, era in grado di trasmettere il dolore della morte con la vibrazione di una mano, era capace di generare intensità senza drammatizzare, semplicemente vivendo. «Io non ero preparato a un tipo di recitazione come quello della Duse, si aveva l’impressione di una verità sconcertante» confessa Luchino Visconti nel documentario.
 


E la gente percepiva questa “verità”. Ecco, la Duse era incapace di essere finta. Le donne volevano essere lei, anche Anna Magnani e Marilyn Monroe tenevano una sua immagine nel camerino. E lei andava in scena con coraggio, libera, spettinata, senza trucco, orgogliosa delle sue rughe, con i capelli bianchi. Tutto il contrario di quello che fanno molte attrici oggi, per non parlare delle influencer, incapaci di sottrarsi all’ostentazione sui media.

 


Il fatto che della Duse non ci siano testimonianze (non rilasciava interviste) rende questo personaggio carismatico ancora più intrigante anche a cent’anni dalla sua morte. C’è ancora voglia di andare in cerca dei segreti che la riguardano ed è proprio questo a renderla immortale. La capacità di non rivelarsi che l’ha resa un personaggio attraente. È stata la Duse a cambiare per sempre il rapporto fra attrice e spettatore. La diva che amava le statue, che possedeva 2mila libri e usava i fiori come segnalibro, la donna nata a Vigevano che conquistò l’America e che non volle lasciare traccia del suo privato.
 


Amministrando la sua immagine con religioso mistero ha fatto di sé un mito. Un modello di cui ancora abbiamo bisogno, oggi che la comunicazione della propria immagine, sfruttata fino all’esaurimento e spogliata di ogni riservatezza, genera frane e l’ineluttabile oblio.
 

Stefano Superchi

 

27 gennaio 2025

Mozart, la vita vorticosa di un bambino prodigio

 Mozart, la vita vorticosa di un bambino prodigio

 


 Nel giorno della nascita voglio ricordare Wolfang Amadeus Mozart, per gli innamorati del genio semplicemente Wolfi, ma non è facile spiegare una personalità come la sua. Lo faccio quindi con l’aiuto di un’opera cinematografica che gli rende giustizia, Amadeus del regista ceco Jan Tomáš Forman che dopo l'incredibile successo di Qualcuno volò sul nido del cuculo, realizza la sua opera più ambiziosa e difficile.

 


Basandosi sulla omonima opera di teatro del 1979 narra di Mozart (Tom Hulce) attraverso Salieri (Murray Abraham) anziano e ricoverato in un manicomio. Da subito regista e sceneggiatore hanno chiarito di non avere alcuna intenzione di fare una versione aderente in maniera strict alla realtà. Non sono però stati loro ad inventarsi una rivalità così forte tra Mozart e Salieri, o, per meglio dire, un unilaterale odio misto ad ammirazione del secondo nei confronti del primo.



Fu l’autore russo Alexander Pushkin a inventarsela nella sua opera di teatro del 1830 intitolata Mozart e Salieri, poi messa in scena da Nikolai Rimsky-Korsakov nel 1897. Sorvolando quindi sull’accuratezza storica, che dire di Amadeus? Regia, fotografia, costumi, scenografia, tutto è curato fin nel minimo dettaglio, con risultati che lasciano a bocca aperta. Sono moltissime le trovate che portano alla costruzione di scene spettacolari, che aiutate da una colonna sonora ovviamente inarrivabile, stiamo parlando di Mozart, rendono ogni scena ipnotica.

 


Fantastico quando il compositore scrive e lo spettatore sente il risultato che lui si sta figurando mentre le note sul pentagramma diventano musica, e che musica!! Qualcuno lo ha ritenuto un film eccessivo, troppo barocco, che parla di invidia, di sete di gloria e di fama, di un talento geniale che non viene riconosciuto da nessuno dei suoi contemporanei, e quindi alla fine la storia è permeata di una tristezza assoluta.



Ma seppur romanzato, non del tutto fedele alla realtà soprattutto nella figura di Salieri, il genio pazzo di Mozart è assolutamente visibile e respirabile così come la fotografia del periodo alla corte degli Asburgo. In prima battuta può sembrare la semplice o solita biografia narrata in terza persona ma il film smentisce presto questa linea e ci si accorge che il fulcro della narrazione sta nella vita di un uomo ormai anziano e prigioniero della sua malattia mentale, il cui passato riaffiora sempre più angosciante, ricordandogli l'eterno senso di frustrazione causatogli da Mozart, un giovane di cui era profondamente invidioso ma al contempo incredibilmente affascinato dal suo straordinario genio artistico.

 


Il film si snoda attorno ai sentimenti, ai tormenti e alle emozioni di un musicista umiliato nel suo orgoglio di artista dal talento quasi divino di un ragazzetto petulante ed antipatico, lontanissimo dalle buone maniere, dedito alla dissolutezza col dono di saper comporre opere celestiali. Nel film Salieri fa di tutto per distruggere la carriera di Wolfi grazie alla sua influenza alla corte imperiale austriaca, dedica la vita alla castità e alla ricerca di un significato religioso nel talento di Wolfi che viene dipinto come un disadattato incapace di guadagnare un soldo perché nessun nobile aveva il coraggio di affidargli l’educazione musicale dei propri figli a causa del suo strano carattere.

 


Che Mozart avesse uno strano carattere si dice sia vero, del resto quale genio ha un carattere facile, mentre non è vero che Salieri fu casto, ebbe mogli amanti e figli, questa finzione serve a rendere ancora più d’effetto la personalità e la grandezza di Mozart. E’ un film che si guarda tutto d’un fiato e che riempie il cuore di passione per un uomo immenso morto troppo giovane. Ci si innamora di Wolfi senza accorgersene e si piange per la sua fine.

 



Antonio Salieri si arrenderà al genio, provando pure vergogna per i suoi cattivi sentimenti, quando Wolfi, sul letto di morte gli detterà una parte del Requiem: sconvolto entra a fatica nelle mente di Mozart e sempre a fatica trascrive le note di qualcosa di straordinario che prende forma in maniera incalzante in una sorte di delirium ante mortem; Wolfi ha già nelle orecchie ogni nota, ogni strumento, ogni entrata mentre Salieri che stenta a capire, cerca di trascrivere tutto correttamente.

 


E’ forse la scena più appassionata e intensa del film che in un crescendo esplosivo della personalità di entrambi i personaggi, racconta con delicata sensibilità cosa significhi avere nella propria vita, perché si è amici, consorti o rivali, un genio di tale portata. Spettacolare il primo piano a uno strepitoso Murray Abraham quando Mozart ormai stremato dice:
“Lei resta qui mentre io dormo un pochino? Mi vergogno talmente, che stupido che ero, credevo che non le interessasse il mio lavoro e nemmeno io”.
 


Quando uscì nelle sale, nel 1984, fu immediatamente salutato per ciò che era, per ciò che è ancora oggi agli occhi di tutti: un capolavoro e quarant'anni dopo è ancora perfetto nel mostrare la verità più intima di un personaggio pur con voli pindarici di fantasia del tutto perdonati. Ancora oggi è un’opera insuperata nel parlarci non solo di un giovane prodigio e nel farci comprendere quanto amaro sia precorrere i tempi per un'artista, ma nel rendere chiaro il suo rapporto con la musica che gli nasceva dentro e lo invadeva talmente da doverla vomitare in una sorta di trance.

No, non somiglia a un biopic, men che meno a quelli di ultima generazione, Amadeus è un piccolo miracolo.
 

Giovanna Anversa

 

 

 




26 gennaio 2025

La Musica come nutrimento della Memoria

 La Musica come nutrimento della Memoria

 


 L’arte, tra i tanti suoi scopi “terapeutici”, può darci una mano a tenere vivo il nostro legame con il passato e può aiutarci ad imparare dagli errori. La letteratura, il Teatro, il Cinema, ma non meno importante, la Musica, negli anni, hanno fissato dei punti, che possiamo tornare a guardare ogni tanto, per ricordarci chi siamo e quali errori abbiamo fatto. Ci sono opere, che è riduttivo chiamare solo canzoni, che hanno fotografato le cicatrici della storia, in questo caso della Shoah, che possono servirci come bussola per orientare il nostro senso critico.


Una delle canzoni più belle mai scritte sul tema della Shoah è “Il carmelo di Echt” di Franco Battiato (1991). Racconta di Edith Stein, docente universitaria ebrea convertitasi al cattolicesimo e divenuta suora carmelitana nel convento di Echt, in Olanda. Trovata dai nazisti, fu deportata ad Auschwitz e quindi uccisa. Edith è un simbolo di forza e di capacità di resistere. Il suo “desiderio di cielo”, a dispetto dell’odio e dell’orrore, si mantiene puro. Battiato canta la forza, gentile ma invincibile, della pace interiore, e questa vicenda diventa meditazione universale sull’essere umano, un vero e proprio manifesto contro ogni nazismo, in ogni luogo e tempo.
  

  I mattini di maggio riempivano l’aria/I profumi nei chiostri del carmelo di Echt/Dentro la clausura qualcuno che passava/Selezionava gli angeli/E nel tuo desiderio di cielo, una voce nell’aria si udì/”Gli ebrei non sono uomini”/E sopra un camion o una motocicletta che sia/Ti portarono ad Auschwitz

 

 

Nel 1978, i Warsaw di Ian Curtis scrivono “No Love Lost”, un pezzo ispirato ad una vicenda realmente accaduta, dove Yahiel De Nur, con lo pseudonimo di Ka-Tzetnik 135633, racconta (nel romanzo “The House of the Dolls” - La casa delle bambole) la sua esperienza del campo di concentramento, più esplicitamente delle Freudenabteilung, i bordelli all’interno dei campi di concentramento. Freudenabteilung è traducibile in inglese come Joy Division, il nome che assumeranno in seguito i Warsaw e che li ha fatti conoscere anche oltre al recinto della new wave. Il pezzo va oltre il misto di attrazione e repulsione che i giovani musicisti dei primi anni Ottanta provavano nei confronti dell’estetica totalitarista. È oscuro ed essenziale, assolutamente new wave, ma capace di raggiungere anche accenti di reale empatia.

Through the wire screen/The eyes of those standing outside looked in at her/As into the cage of some rare creature in a zoo/In the hand of one of the assistants she saw the same instrument/Which they had that morning inserted deep into her body

(Attraverso il filo spinato/gli occhi di quelli che stavano dall’altra parte la guardavano/Come se fosse una qualche creatura in uno zoo/Nella mano di uno degli assistenti lei vide lo stesso strumento/Che le avevano inserito in profondità nel suo corpo)

 

 

Pochi, probabilmente, sanno che il vero nome di Lou Reed era Lewis Allan Rabinowitz e che la sua famiglia era di origine ebreo-russe. Il suo rapporto con le proprie radici ebraiche fu controverso e tenuto in secondo piano, ma furono proprio queste radici l’elemento comune con una delle figure di spicco del ‘900, lo scrittore e poeta Delmore Schwartz, suo professore universitario. La canzone “Good Evening Mr Waldheim” è una violenta invettiva contro Kurt Waldheim, nominato segretario dell’Onu, nonostante i sospetti trascorsi nazisti. Il testo è però soprattutto da intendersi come una reazione indignata ad ogni forma contemporanea di antisemitismo.

 


“Story Of Isaac” di  Leonard Cohen si può considerare come la Shoah resa canzone, con la potenza espressiva di un sentimento provato nell’intimità. Le radici ebraiche di Cohen abitano una stanza remota, da qualche parte, vicino al cuore, e proprio come in un libro della memoria, il sacrificio di Isacco viene raccontato come esperienza vissuta. Leonard è insieme Isacco e i bambini sacrificati dalle SS e da quella posizione coglie la differenza fra Abramo e i nazisti. Leonard Cohen fa un parallelismo tra l’episodio biblico in cui Abramo quasi sacrifica il figlio Isacco e il modo in cui i governi sacrificano i propri cittadini quando li mandano in guerra. Le parole, profonde e dirette, sono di quelle che lasciano il segno:

You who build these altars now/to sacrifice these children,/you must not do it anymore./A scheme is not a vision/and you never have been tempted/by a demon or a god.

(Voi che costruite ora altri altari/per sacrificare i vostri figli/Non dovete più farlo/Uno schema non è una visione [divina]/E non siete mai stati tentati/Da un demone o da un dio)
Ovvero La banalità del male.

 

Sempre Leonard Cohen, nel 1984, scrive “Dance Me To The End Of Love”,  la storia di un quartetto d’archi costretto a suonare in prossimità dei forni crematori e a fare da colonna sonora alla morte dei loro stessi compagni. La musica nel campo di concentramento viene degradata al rango di espediente per ritardare il giorno della fine e di strumento di crudeltà. Anche in queste condizioni di dolore e abiezione i componenti del quartetto riescono a tenere per sé l’ultima parola. Quella della dignità. Cohen descrisse così la canzone: “Suonavano musica classica mentre i loro compagni di prigionia venivano uccisi e bruciati. Così quella musica, "Fammi danzare verso la tua bellezza con un violino in fiamme", significa la bellezza della conclusione dalla vita, la fine dell'esistenza e dell'elemento ardente in quella conclusione. Ma è lo stesso linguaggio che usiamo per arrenderci al nostro amore”.




Tra i pezzi che riguardano la Shoah è da annoverare “With God On Our Side” di  Bob Dylan, nella quale il menestrello di Duluth ironizza amaramente sulla capacità dell’uomo di dimenticare, rimuovere il dolore, minimizzare gli sbagli, sentirsi sempre nel giusto e benedetto da Dio, perché Dio è onnipotente e può tutto, quindi gli si può giustificare ogni cosa, anche le atrocità delle guerre. Tra l’altro il titolo riecheggia in maniera sinistra il motto “Gott mit uns (Dio è con noi)”, utilizzato, tra gli altri, dal Terzo Reich.
Tutto accade troppo velocemente e la mancanza di consapevolezza mette a dura prova il concetto stesso di Giorno della Memoria, su questo Bob Dylan è tagliente:

“La Seconda guerra mondiale finì, perdonammo i tedeschi e ormai siamo amici. Hanno bruciato sei milioni di persone nei forni, ma anche loro ormai hanno Dio dalla loro parte”.

Mr. Zimmerman, alias Bob Dylan, non vuole aizzare il mondo a serbare risentimento nei confronti di un popolo, ma dare un messaggio ben preciso a non dimenticare ciò che è stato, in nome di una ipocrita idea di pace.


 

 

Nel primo album di Francesco Guccini, Folk beat n.1, figura “Auschwitz”, canzone  originariamente scritta per l’Equipe 84. Il titolo da “Auschwitz” diventerà “La canzone del bambino nel vento”. È un dialogo con un bambino prigioniero del campo, e il vento non è solo quello del freddo inverno polacco, ma anche quello della guerra, del volgere dei tempi, di una realtà così grande e tempestosa, da non risparmiare nemmeno la fragilità dell’infanzia.
Si sente l’imprinting di Dylan, l’ingenuità e l’impegno sociale degli anni del beat italiano e del Folk Studio. Si sente già il segno con cui Guccini marchierà la storia della canzone italiana.



Anche il gruppo dei Baustelle si è misurato con questi temi mettendo in musica una ampia stratificazione di suggestioni e riferimenti. “Il Finale” è una canzone ispirata dalla storia accaduta ad Olivier Messiaen, nel campo di lavoro nazista di Görlitz. Nel  gennaio 1941, il compositore francese suonò la sua composizione "Quatuor pour la fin du temps" davanti a un pubblico di guardie e prigionieri per ordine dei nazisti. Il testo risuona di parole d’amore intensissime. Per una donna, per la musica, per la vita.

 


Tra i brani per non dimenticare la Shoah anche “Numeri da scaricare” di Francesco De Gregori, un messaggio contro l’indifferenza, la forma di violenza peggiore, perché dimenticare equivale a non vedere. Non vedere la violenza che ritorna di attualità.

“C’è odore di bruciato E bambini soldato sepolti in piedi C’è odore di bruciato E bambini soldato sepolti in piedi Puoi pure non guardare. Ma non è possibile che non vedi”

 

 

Merita una citazione la canzone “Khorakhané (A forza di essere vento)” di Fabrizio De André, che pur non essendo una canzone sulla Shoah, riguarda comunque un olocausto, con le stesse circostanze storiche.

I nazisti dichiararono i Rom “razza inferiore” e li inglobarono nello stesso universo concentrazionista cui erano destinati gli ebrei.
Khorakhané significa “lettori del Corano” ed è il nome di una tribù rom di fede musulmana, proveniente da Serbia e Montenegro. Anche qui, come nel pezzo di Guccini, il vento è una metafora, ma questa volta positiva. Simboleggia l’indomabile desiderio di libertà e di sentirsi senza confini da parte di un popolo. Anche nei giorni del suo genocidio.

 


 

Vogliamo infine ricordare alcuni brani meno conosciuti, non per questo da considerarsi “minori”, perché un brano che tratta questo tema non può essere minore.

“Angel of Death” degli Slayer, dove il protagonista è il chirurgo Josef Mengele, soprannominato appunto l’Angelo della Morte. Un racconto crudele degli atroci delitti commessi durante l’Olocausto.

 


“Il diario di Anna Frank”, testo breve scritto da Mino Reitano e cantato da Livio Macchia dei Camaleonti, era la b-side di due 45 giri "Io per lei" e "Applausi" del 1968, che sarà poi incluso nell'album "Io per lei", realizzato con i violinisti dell'orchestra del Teatro "La Scala" di Milano.




 
“Giorni senza memoria”, dei Radiodervish, ci invita a riflettere su crimini e genocidi contro l’umanità, troppo spesso dimenticati.



La costruzione attiva e la “manutenzione” di una memoria viva dovranno essere sempre in dialogo con l’attualità, per prepararsi al meglio. Sperando che non serva.

Stefano Superchi




25 gennaio 2025

La Memoria permanente di AriAnne

 La Memoria permanente

di AriAnne

 



A volte viene da pensare che il Giorno della Memoria vada a finire nel calderone indistinto delle "giornate internazionali di..." . Ma la Giornata Internazionale della Memoria che riguarda l'Olocausto, non è una delle ormai innumerevoli giornate sacrosante: la giornata dell'abbraccio, della gentilezza, del cane, del gatto, del gatto nero o rosso, del bacio e chi più ne ha più ne metta. Quella della memoria è dedicata al ricordo di una tragedia. Quindi crediamo che rinchiudere l'oscenità che fu l'Olocausto in una giornata, sia offensivo, riduttivo e scandaloso.

 


Fortunatamente qualcuno che crede nell'importanza di continuare a parlarne, indipendentemente dalla data dedicata, ancora c'è. E a volte accade che la data diventi un'occasione per rendere ancora più visibile un momento tragico della storia affinché questa non si ripeta. E dove trovare la sensibilità giusta se non nei bambini e negli adolescenti?

Giovani apparentemente disinteressati a tutto ma fortemente sofferenti, quasi fantasmi, di cui spesso non ci si accorge.

 


Arianna Novelli madre, moglie, donna, italiana, più cristiana dei cristiani, sì , lei si accorge del loro disagio, lo sente e ne soffre. Da dieci anni porta nelle scuole elementari, medie e superiori una lettura interpretata divinamente del Diario di Anna Frank. Arianna, membro e colonna portante della compagnia teatrale dei Casalmattori, ogni anno riprende in mano il diario, lo rispulcia e per un mese intero diventa ANNE, per un mese intero racconta alle nuove generazioni cosa ha vissuto una loro coetanea solo sette decenni prima, le sue emozioni scritte su un diario.

 


 

Spesso questo spettacolo, che è un vero spettacolo con tutti i significati che questo termine racchiude, è stato ritenuto opera dei Casalmattori ma non è così. E non è nemmeno opera dei più anziani del gruppo che parecchi anni or sono rappresentarono Il Diario di Anna Frank. Questa recitazione-racconto è opera della sensibilità, del talento, dell'idea, dell'impegno sociale e, perché no, della passione per il teatro di Arianna Novelli.

Ovviamente i Casalmattori sono con lei e per lei, nell'accompagnarla nei tour, primi fra tutti Sergio Bini, che affianca Arianna nei panni di Otto Frank e Luciano Ongari, il fonico che ha dato un tocco di grande qualità a questa rappresentazione e senza il quale oggi non sarebbe facile da realizzare.

 


Officina Coolturale accoglie la richiesta dei Casalmattori di ringraziare pubblicamente la loro amica e regista Arianna Novelli, la coperta più calda è più larga di un gruppo che prova a fare teatro per stare bene, per fare stare bene, per divertire, per divertirsi e per sforzarsi di raccontare il vero.
Il ricordo è nel racconto e nel racconto sarà il ricordo.

I Casalmattori



Video della rappresentazione che si è svolta a Gussola (CR) il 6 febbraio 2019 per le classi dell'Istituto Comprensivo Dedalo 2000 di Gussola.

Compagnia dei Casalmattori. Adattamento del testo e regia a cura di Arianna Novelli, interprete principale, con la partecipazione di Marzio Sergio Bini. Musiche a cura di Giovanna Anversa, tecnico del suono Luciano Ongari realizzazione video di Pierluigi Bonfatti Sabbioni.

Il video è tratto dal canale YouTube ARVITER Oglio-Po, Archivio Video Territoriale dell'area Oglio Po, fondato dal filmaker Pierluigi Bonfatti Sabbioni nel 2006.

 

 


24 gennaio 2025

Mio padre sanguina storia.Il racconto di un sopravvissuto. Maus di Art Spiegelman.

Mio padre sanguina storia.

Il racconto di un sopravvissuto.

Maus di Art Spiegelman

 


 Anno 1978, Art Spiegelman riesce finalmente a vincere la riluttanza del padre Vladek convincendolo a raccontare come, da polacco ebreo, fosse sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale e basandosi su questi racconti realizza un fumetto a puntate su una vita distrutta dall’Olocausto. Ancora oggi Maus di Art Spiegelman resta un’accurata analisi post-moderna della Seconda Guerra Mondiale.

 


Pantheon Books pubblicò Maus in diversi volumi, per poi realizzare un’edizione in volume unico; la prima apparizione del fumetto è del dicembre 1980. Era un inserto in Raw, una rivista fondata dallo stesso Spiegelman con la moglie Françoise Mouly lo stesso anno, una rivista influente nell'ambito del racconto illustrato, che non considerava i fumetti come mero intrattenimento, ma oggetti di cultura, che meritavano diffusione e analisi.

Maus di Spiegelman è stato il primo e unico graphic novel a vincere il Premio Pulitzer, nel 1992. Nel 2011 l’autore realizzò MetaMaus, una guida completa degli studi dettagliati serviti per realizzare il romanzo illustrato. L’opera include un’intervista a Spiegelman, schizzi, foto e le registrazioni originali del padre Vladek.

 



Nelle prime vignette Art fa visita al padre a New York rendendo una visione concreta della famiglia Spiegelman. Il racconto del passato raffigura per l’autore una scoperta della propria storia, ma gli consente nel contempo di sviluppare la relazione col padre. La storia di Vladek come sopravvissuto si mescola con quella di Art come figlio, che scopre le proprie origini.




Nella prima parte del libro, Vladek parla del matrimonio con Anja, la madre di Art, avvenuto nel 1937. I Nazisti invasero la Polonia poco dopo e Vladek venne mandato in un campo di lavoro forzato. Nel 1943, i Nazisti arrestarono Vladek e Anja e li deportarono ad Auschwitz




La seconda parte inizia con un salto temporale nel 1986. Art sta attraversando un periodo di blocco creativo, blocco che supera solo quando il padre va a fargli visita e lui lo deve ospitare a casa. Scopre così i fatti che suo padre gli aveva sempre taciuto, in particolare sui mesi trascorsi fra Auschwitz e Dachau. Vladek racconta in modo distaccato ciò che ha sofferto fino alla fine della guerra, quando ha ritrovato la moglie e iniziato con lei una nuova vita. L’ultima vignetta mostra le lapidi di Vladek e Anja: lui morì nel 1982, prima che il finale del fumetto venisse pubblicato.

 

L’autore evita racconti iperbolici, giudizi o commenti personali, ritenendo sufficiente la descrizione di quanto accaduto. Ogni scelta grafica e narrativa è orientata a rendere Maus un’analisi della guerra, un periodo complesso e oscuro in cui nulla era sicuro.



Il linguaggio di Vladek è scorrevole nei flashback e incerto nel presente, rivelando la distanza dal suo paese d’origine. Costretto ad andarsene, si sente come se la sua nazione l’avesse tradito. Sente di non appartenere più alla Polonia, né agli Stati Uniti, dove vive da straniero. La lingua riflette quindi l’alienazione del suo presente, metafora del viaggio in cerca di un luogo sicuro, senza dimenticare le proprie origini. Il titolo stesso è un gioco di parole: “maus” vuol dire “topo” in tedesco, ma richiama anche il verbo “mauscheln” che significa “parlare come un ebreo“.

L’uso della lingua parlata non è l’unica caratteristica dell’arte post-moderna presente nel fumetto. Spiegelman sfuma il confine fra presente e passato. Le interruzioni dei dialoghi e i salti fra le diverse linee temporali rendono evidente il caos nella sua mente mentre ascolta la storia del padre. 
 
 

In Maus, Spiegelman utilizza gli animali come metafora della nazionalità. Gli ebrei diventano topi, i tedeschi gatti, gli americani cani, i polacchi maiali e i francesi rane. I personaggi che fingono di appartenere a un altro Paese indossano una maschera. Gli animali antropomorfi nei fumetti non sono una novità, erano già apparsi in Topolino di Walt Disney, ma anche in fumetti per adulti del circuito underground, come Fritz the Cat di Robert Crumb. Si trattava però appunto di animali antropomorfi, legati a una lunga tradizione di bestie che si comportano da umani. Spiegelman si spinge più avanti, è il primo illustratore a usare gli animali per mettere in luce differenze culturali. Un mezzo che usa per ottenere un distacco emotivo, rendendo problematica l’immedesimazione.

Maus di Spiegelman è inoltre il primo fumetto a parlare di Olocausto. Avendo a che fare con un tema come il genocidio, Spiegelman sceglie di lasciar parlare la storia, con una narrazione asciutta e distaccata, semplificando al massimo sia lo stile narrativo che quello grafico, distaccandosi dagli eventi. Pagina dopo pagina, le vignette sono sempre più neutrali e stilizzate. La narrazione discontinua, gli schizzi scuri e lo sguardo freddo sugli eventi creano un reportage storico, che non vuole trovare un senso o una spiegazione, ma si limita a esporre i fatti, unisce la storia alle sue conseguenze.

 


Maus è uno dei primi libri che siano stati classificati come graphic novel, sulle orme di Will Eisner (The Spirit, Contratto con Dio). Ha rafforzato l’idea del fumetto come genere letterario trasversale, in grado di trattare temi adulti e rilevanti, con uno stile più maturo, legato alla cultura underground. Ispirandosi a Harold Grey (Little Orphan Annie) e Frans Masereel (The City), in opposizione ai fumetti sui supereroi, ha contribuito a far riconoscere il fumetto come forma d’arte e non mero intrattenimento. 




Insieme a opere come Watchmen e Il Ritorno del Cavaliere Oscuro della DC Comics, Maus ha cambiato la percezione generale del fumetto, che, grazie anche a editori indipendenti e al mercato in crescita, non fu più il dominio incontrastato di Marvel e DC Comics.
Il racconto illustrato si è così affermato come prodotto non indirizzato solo a bambini, ma anche a un vasto pubblico adulto.

Stefano Superchi



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