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24 dicembre 2025

Il Natale di Pablo

 Il Natale di Pablo

 


Pablo Salvador Antonini arrivò a Casalmaggiore nella notte, sotto una fitta nevicata, con uno stato d’animo che si dibatteva tra la nostalgia della terra natìa e l’apprensione per il motivo che lo spingeva qui.
 

Ma questa neve non era come quella che ricordava sull’argine, da bambino: fiocchi luminescenti cadevano lenti sul Po e tutto intorno, e chiunque li toccasse ne rimaneva come ustionato, proprio come era già accaduto a Buenos Aires. Una sensazione di disagio fisico e di paura, quella neve tossica di origine misteriosa da dove veniva? Era solo inquinamento o era una strategia controllata dagli oligarchi che stavano prendendo in mano il potere in tutto il mondo?
 


Vagando nel suo eterno salto nel tempo, Pablo aveva seguito il filo di un segnale radio gracchiante, una debole richiesta di soccorso in lingua italiana che parlava di una città di confine, stretta tra la nebbia del fiume e la tenacia della sua gente. Si ritrovò così al centro della piazza, davanti al palazzo comunale rischiarato da luci violacee intermittenti, mentre la neve velenosa imbiancava le strade e divorava il silenzio.



Camminando sulla piazza deserta notò le automobili parcheggiate disordinatamente ai lati del listone e resti di pezzi meccanici, finestre sbarrate, negozi con le vetrine spente e qualche sagoma sofferente, cristallizzata nel gesto di chiedere aiuto: a Casalmaggiore stava andando in scena la rovina che lui aveva già visto altrove. Da un portone socchiuso uscì un odore di minestra e di umanità, una mano lo invitò a entrare: era un vecchio volontario dell’Auser, con il giubbotto rifrangente e gli occhi di chi ha passato una vita a contare gli esclusi.

Nell’ex cinema Zenith, ormai abbandonato e trasformato in rifugio, Pablo trovò una quarantina di persone: senzatetto, migranti, operai licenziati, bambini con lo sguardo spento, badanti rimaste senza famiglia, tutti stretti in coperte recuperate dalle case svuotate in fretta.
Non ci fu nemmeno il tempo di saluti e formalità, Pablo cercò di spiegare loro cos’era quella neve, disegnando sul muro con un carboncino una città lontana e una guerra che non era solo contro i nuovi padroni del mondo, ma contro ogni potere che decide chi è sacrificabile e chi no.

 


 

Tutti lo ascoltavano in silenzio, riconoscendo nelle sue parole qualcosa della propria storia, ricordando i secoli in cui la città era passata di mano tra Venezia, Milano e Mantova, sempre contesa, mai del tutto padrona di sé, e si accorsero che l’invasione, per loro, non era mai finita davvero. Una ragazza che prima distribuiva volantini per il centro commerciale prese la parola al megafono e propose di fare della piazza il cuore di una resistenza diversa, non armata, ma ostinatamente solidale.
 


Decisero che quella notte sarebbe stato il loro “Natale dei diseredati”, non quello dei centri commerciali, delle luminarie e dei negozi aperti fino a tardi, ma quello di chi non ha più nulla da perdere se non la dignità. Alcuni uscirono con tute improvvisate, sacchi della spazzatura e vetri di plastica davanti al volto, per recuperare cibo e coperte dalle case abbandonate, mentre altri preparavano tavoli improvvisati nella sala, apparecchiando con piatti spaiati e bicchieri scheggiati. Pablo guardava quella processione disordinata e riconosceva lo stesso coraggio che aveva visto nei suoi compagni di Buenos Aires, uomini e donne comuni che trasformavano un rifugio in una piccola città libera.


 

 

Quando la mezzanotte arrivò, la radio trasmise un messaggio inatteso: altri rifugi di “scartati” si stavano organizzando nelle periferie delle grandi città, decidendo di condividere risorse invece di contendersi le briciole.

La neve continuava a cadere, ma la piazza di Casalmaggiore era ormai un’isola di luce che si irradiava dalle vetrate del vecchio cinema abbandonato.
Sulle assi usate come tavoli i bambini ridevano per un mandarino e un giocattolo recuperato, gli adulti si scambiavano storie e promesse di aiuto reciproco, nessuno si sentiva solo.




 

Pablo Salvador Antonini capì allora che forse non avrebbe mai smesso di viaggiare nel tempo, ma in quella notte di Natale, tra gli ultimi della riva sinistra del Po, aveva trovato ciò che cercava da sempre: un luogo in cui la resistenza non era solo combattere un impalpabile invasore, ma rifiutare l’idea che qualcuno valga meno di qualcun altro.

Stefano Superchi

 


21 dicembre 2025

"MAH"… La New Wave di Viadana (e dintorni)

 "MAH"… La New Wave di Viadana (e dintorni)

 



C’è stato un tempo, verso la fine degli anni ’80, nel quale si levò una nuova onda a scuotere la pigra pianura avvolta nella nebbia, negli anni dell’edonismo. L’epicentro di questa nuova onda era Viadana, da dove si irradiava la luce cupa che, per qualche anno, diventò un punto di riferimento per gli adepti della scena new wave locale.
 


Il mentore di questa svolta dark fu Roberto Dresda, poliedrico divulgatore di una cultura a torto considerata di nicchia, che, partendo dalle frequenze della radio locale Radio Circuito 29 cominciò ad introdurre piccole dosi di wave/dark nell’etere, fino a ritagliarsi ed a consolidare spazi e forme di comunicazione sempre più ampi.
 


È lui stesso a raccontarsi nel blog “capitmundi?” di Paolo Palmacci

“Ho iniziato a 16 anni a trasmettere in radio nel 1980, a Radio Circuito 29, classica radio locale commerciale, ma con un segnale molto potente. Trasmetteva da Viadana e copriva le province di Mantova, Cremona, Brescia, Parma, Reggio e Modena. Passavo di tutto, da Pupo ai Kiss, ma mi stava bene così, per amore del “fare radio”. Ma tra il 1986 e il 1987, dopo sei anni così, non riuscivo più a trovare una motivazione, anche l’amore per la radio non riusciva ad essere superiore “all’ultimo successo di Den Harrow”. Incominciai così, timidamente, ad inserire nei programmi un brano dei Cure, poi dopo una mezz’oretta un po’ di Smiths, sino a quando arrivai ad avere, qualche mese dopo, due programmi interamente dedicati alla new wave ed alla musica indipendente italiana.”

 

Ma Roberto Dresda oltre ai programmi radiofonici si occupava di altre attività parallele: era DJ al Blackout di Carpenedolo (discoteca new wave/dark che diventerà poi Onyria), fu l’ideatore dei dark raduno nel 1988/89 e dell’etichetta indipendente “Silenzio Statico” per cui sono stati prodotti libretti di poesie e compilation di musica sperimentale su cassetta.
 


Ma soprattuto è stato, insieme a cinque collaboratori organizzati per le diverse competenze, ideatore della fanzine “MAH…”, una rivista autoprodotta che tra il 1987 e il 1989 fotografava in presa diretta la scena post-punk/new wave di fine anni ’80.


 

Roberto Dresda descrive così la redazione di “MAH…”: 

“sotto la mia supervisione, eravamo in sei, ognuno con un suo compito. Io mi occupavo prevalentemente delle interviste ai gruppi italiani, di scrivere qualche articolo e mi occupavo della grafica. Luca Vaghi era il mio più stretto collaboratore con compiti simili ai miei. Lino Rosi si occupava di tutto ciò che rientrava nell’universo dark. Andrea Vaghi scriveva di punk e dintorni. Giovanni Ferrari parlava di futurismo e jazz. Emanuela Palvarini si occupava dei disegni, sue erano le copertine e i disegni all’interno. Ogni tanto si aggiungeva qualche collaboratore esterno con articoli su gruppi italiani, proveniente da amicizie locali e non, che già scrivevano su altre fanzines o si interessavano di gruppi italiani.

MAH… arrivò ventesima nella classifica di Rockerilla, grazie al voto di preferenza dei lettori relativamente alle pubblicazioni indipendenti nazionali e non solo.”


 

Tra gli aneddoti da ricordare ci sono alcune interviste “storiche”, quella a Piero Pelù dopo un concerto dei Litfiba a Scandiano (aprile 1987), completamente ubriaco, con risposte insopportabili; lo stesso Pelù cambiò improvvisamente atteggiamento quando, successivamente, lo intervistò il giornalista del Mucchio Selvaggio. Un'altra intervista particolarmente turbolenta fu quella a Federico Fiumani, leader dei Diaframma, in piena crisi, mentre in camerino, con gli intervistatori presenti, urlava che dopo quel concerto si sarebbero definitivamente sciolti.
 


Da citare, parallelamente alla fanzine viadanese, il progetto di una fanzine casalasca (S/CONTRO), messa in piedi da Luca Vaghi, bassista della scena locale e il più stretto collaboratore di Dresda a conferma che il campanilismo Viadana-Casalmaggiore era (ed è) solo un luogo comune; le due esperienze infatti pescavano nello stesso humus ed erano prevalentemente legate allo stesso collettivo e agli stessi circuiti di distribuzione.
 


S/CONTRO uscì con un numero unico nel 1988 a Casalmaggiore come fanzine post punk, collegata a un centro di distribuzione chiamato “Laida Padania”, attivo fino al 1990.
 


Dettagli che restituiscono l’idea di una provincia non “periferia”, ma snodo di contatti, nuovi orizzonti e scambi culturali. Di ragazzi vestiti di nero che si scambiavano cassette che venivano da chissà dove, che si davano appuntamento nei bar delle piazze che diventavano rampe di lancio per partire e dividere in due la nebbia densa e lattiginosa, solcando la pianura per riunirsi in qualche locale di cui ci rimane solo la memoria.
 


Canto di nostalgia per la diversità”, cantava qualcuno...
 

Stefano Superchi
























15 dicembre 2025

Il futuro è stasera. "La febbre del sabato sera".

 Il futuro è stasera.

 "La febbre del sabato sera"

 



Il 16 Dicembre 1977 usciva il film “La febbre del sabato sera”, destinato a diventare icona per più di una generazione e la cui colonna sonora ancora oggi, a distanza di 48 anni, è ascoltata e ballata con estremo piacere.
 


La febbre del sabato sera”, regia di John Badham, racconta di un gruppo di ragazzi italo americani di Brooklyn, non propriamente delinquenti, ma cinici e duri in modo piuttosto inquietante, che conducono una vita faticosa e insoddisfacente senza trovare il piglio per reagire e cambiare la loro condizione. Passano la settimana a svolgere lavori che non amano e ad attendere il sabato per andare in discoteca, unico momento in cui riescono a farsi notare e a sentirsi qualcuno.

 


Quando il sabato arriva, messe al collo le loro catene d’oro e indossate le camicie nuove comprate con la busta paga del venerdì, si recano all’ Odyssey 2001, buttano giù pillole e alcol e consumano la notte ballando o nel parcheggio, sul sedile posteriore della macchina con una ragazza.

 


Il leader del gruppo, interpretato da un giovanissimo John Travolta, è Tony Manero: bello, alla moda e dalla fisicità potente, infuoca sia la pista da ballo che le ragazze. La sua vita è incasinata come quella di tutti gli altri, che però non lo sanno e pensano che Tony abbia tutto sotto controllo, ammirandolo e cercando di emularlo. Lavora tutto il giorno in un negozio di vernici e a sera torna a casa da una famiglia brava ma bigotta e ignorante che adora il fratello maggiore prete. Finita la rivoluzione culturale degli anni ’60, il grande collante sociale diventa la discoteca. Il sogno di una società differente è terminato e si è infranto contro il muro eretto dall’America conservatrice.

 


La generazione successiva, quella di Tony, non ha più un fine collettivo a cui ambire. Tony rappresenta perfettamente questa nuova generazione insoddisfatta e amorfa che ha come unica forma di evasione il ballo il sabato sera in discoteca, dove finalmente può liberarsi. La Brooklyn che vediamo in Saturday Night Fever ricorda la Little Italy di Scorsese in Mean Streets. poche ambizioni e poche speranze di farcela nel mondo di quelli che hanno successo e di cui Manhattan è il simbolo, mentre il ponte di Brooklyn è una lingua che si slancia verso Manhattan collegando due mondi agli antipodi. Per i ragazzi di Bay Bridge passare il ponte significherebbe sfondare, avere successo, cambiare vita.

 


Ma se Scorsese è serio e greve, La febbre del sabato sera trova leggerezza nella musica dei Bee Gees, nella danza, nelle atmosfere tragicomiche che smorzano la tensione. Sono molte, infatti, le scene leggere e divertenti che vanno a controbilanciare quelle tragiche. Solo con la morte di uno del gruppo, che nel tentativo di attirare l’attenzione almeno degli amici e di Tony in particolare, cade dal ponte, si torna violentemente a guardare in faccia una società in cui chi è semplice e non ha successo è praticamente un invisibile.

Lo sgomento di Tony, unico eroe positivo di quella periferia italiana newyorkese, è tale che alla fine, mentre passeggia all’alba per le strade della città che non dorme mai, sulle note di How deep is your love, si ha la sensazione che da quel giorno il suo obiettivo sarà passare quel ponte e non solo di sognare di farlo.

 


 

Non si può dire che John Travolta abbia la stoffa di cui sono fatti i divi ma non c’è dubbio che quando scende sulla pista da ballo, solo o in coppia, rapisca: ha l'energia, la fierezza e l’eleganza di un torero e possiede la dote di attori del calibro di Al Pacino, De Niro e pochi altri, di rendere espressivo un personaggio inarticolato. Se uno splendido Tony Manero meritò il prezzo del biglietto non da meno fu la colonna sonora composta in gran parte da brani dei Bee Gees e da musica dance, divenuta il simbolo di quell’epoca. Quindici dischi di platino è ancora oggi uno degli album più venduti. La scena iniziale, con Travolta che cammina al ritmo di Stayn’ Alive, è entrata di diritto nella storia del cinema.

 




La Febbre del Sabato Sera resta un film memorabile, che coglie perfettamente nel segno, un film di culto eretto a manifesto di un’ intera generazione e che ancora emoziona. Travolta si ritrovò lanciato nella rosa dei grandi attori e Badham ottenne un successo che non riuscì più a replicare. Se da una parte ci si perde nei balli di Tony, dietro alla brillantina, ai pantaloni a zampa e alle camicie dalle bigie lunghe c’è un’attenta analisi dei costumi di una società ormai alle porte degli anni ’80, che fatica a trovare un’identità comune.

Giovanna Anversa

 

11 dicembre 2025

"Viva Tondelli", il documentario dedicato allo scrittore Pier Vittorio Tondelli

 "Viva Tondelli"

Il documentario dedicato allo scrittore Pier Vittorio Tondelli

 



"Viva Tondelli" è un documentario che celebra la vita e l'opera di Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore emiliano nato il 14 settembre 1955 a Correggio.

 


Laureato al DAMS di Bologna, esordisce nel 1980 con "Altri libertini", romanzo cult degli anni '80 che affronta temi come omosessualità, gioventù e marginalità, scatenando polemiche e sequestri. Autore di opere come "Pao Pao" e curatore di antologie per giovani scrittori, muore prematuramente di AIDS nel 1991, a 36 anni, lasciando una immensa eredità nella letteratura postmoderna italiana.



Prodotto dalla Regione Emilia-Romagna per i 70 anni dalla sua nascita, il documentario intreccia testimonianze inedite, letture e immagini d'archivio per ritrarre un autore senza tempo.

 

 

Il film, diretto da Michael Petrolini e ideato dal giornalista Stefano Asprea, dura 60 minuti e vede la produzione esecutiva di D.E-R Documentaristi Emilia-Romagna, in collaborazione con il Comune di Correggio e il Centro documentazione Tondelli. L'assessora regionale Gessica Allegni lo definisce un omaggio alla capacità tondelliana di narrare l'Emilia-Romagna con respiro internazionale.
Presentato in conferenza stampa l'8 dicembre 2025 a Bologna, il documentario debutterà il 13 dicembre alle 20:30 al Cinepiù di Correggio, con eventi correlati tra Correggio, Bologna e Rimini; a gennaio raggiungerà Reggio Emilia al cinema Rosebud.

L'iniziativa promuove la riscoperta di Tondelli tra nuove generazioni, valorizzando il suo legame con la terra emiliana.
 


 

"Viva Tondelli" enfatizza la relazione indissolubile di Pier Vittorio Tondelli con la terra emiliana, ritraendolo come uno scrittore che racconta i volti e i mutamenti dell'Emilia-Romagna senza stereotipi, mantenendo radici salde nella bassa reggiana e nella sua Correggio.

 


Il documentario raccoglie testimonianze inedite di familiari come Giulio Tondelli, artisti come Luciano Ligabue, Vinicio Capossela e Massimo Zamboni, e studiosi che evocano i ricordi dell'autore legati alla nebbia padana, ai campi e alla vita contadina.

 



Immagini di repertorio e letture illustrano come Tondelli descrivesse la sua "consapevolezza di essere impastato di quella nebbia e di quei vapori che la campagna emana", unendone l'opera internazionale al tessuto locale.


Stefano Superchi

 

 MadrEmilia – Sulla via di Tondelli

 


L’Emilia-Romagna, sospesa tra il sapore della sua florida terra e la capacità di rielaborazione mitica dei suoi abitanti, che ne fanno un luogo al tempo stesso concreto e immaginario. Luogo di transito e terra di confine, con i suoi assi di percorrenza tra est e ovest e tra nord e sud, il paesaggio a grandi spazi aperti, l’intraprendenza e la curiosità dei suoi abitanti. All’Emilia-Romagna, territorio unico in Europa e allo stesso tempo spaccato della provincia italiana, è dedicato il documentario MadrEmilia – Sulla via di Tondelli, che narra la provincia reggiana e la regione attraverso le suggestioni dello scrittore di Correggio, che nella sua produzione di romanziere ne aveva prefigurato e interpretato i cambiamenti recenti.

Personaggi emiliani più o meno noti, tra cui i cantanti Vinicio Capossela e Francesco Guccini, raccontano dal proprio punto di vista il mutare dell’Emilia moderna, definendone le caratteristiche e collocandole nella storia e nell’evoluzione di questa regione. La narrazione affida alle parole di Tondelli e a quelle degli intervistati una lettura complessa e a più voci del territorio nella contemporaneità, con riferimenti ai processi storici che l’hanno caratterizzato nel tempo.

Prodotto da Fscire e Unimore
ideato e curato da Alberto Melloni e Stefano Calabrese
diretto da Christian Tasso
montato da Fabio Nardelli
narrato da Max Collini
musicato da Fabio Iaci
con Vinicio Capossela, Francesco Guccini, Beppe Maniglia, Sergio Porta (urbanista), Denis Santachiara (designer), Rodhri Jones (fotografo), Antonella Bianchi (giornalista), Enrico Palandri (scrittore).

Il documentario è andato in onda su RaiStoria il 2 maggio 2016.

 

08 dicembre 2025

COSI' CONOBBI E MI INNAMORAI DI FABER

COSI' CONOBBI E MI INNAMORAI DI FABER

 



“Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio speciale di speciale disperazione”. (Smisurata preghiera)

 



Di Faber tutto è già stato detto e scritto, della sua poetica, della sua musica, della sua personalità, di Faber 9,9 persone su 10 si sono innamorate, tutti lo cantano, tutti lo ascoltano, tutti lo leggono perché lui è l’artista, è il poeta, è “l’amico fragile” di ogni età, di ogni decennio, di ognuno di noi.


 

Ebbi tre//quattro incontri chiave con la musica e la poesia di Fabrizio De André, il primo a nove anni, quando mi iscrissi a un corso di chitarra all’Estudiantina e i primi accordi imparati accompagnavano la Canzone di Marinella; non sapevo di chi fosse questa canzone, che mi parve subito bellissima, né tanto meno conoscevo Faber.


 

Lo incontrai nuovamente in seconda media, quando, un allora professore di musica, ben più giovane e più moderno della secolare Signora Forte, al posto della Montanara, ci fece cantare e suonare La Ballata del Miché, Geordie e La Canzone dell’Amore Perduto. Fu in quel momento che mi incuriosii e volli sapere chi fosse questo De André, che cantava canzoni così tristi e intense, che attraverso una voce calda e unica, una melodia inebriante e a volte simile alle ballate dei chançonniers francesi, che mio padre e mia zia sovente ascoltavano, ti entrava nella pelle e ti bruciava come fuoco.

 


Piccola com’ero non ero in grado di capire cosa mi rapisse tanto di lui, e nemmeno me lo chiedevo, a quell’età ascolti una canzone perché ti piace e basta. L’adolescenza, si sa, ha il potere di amplificare le emozioni ma in questo caso di amplificato non c’era nulla, oggi al sentirlo provo ancora le stesse cose. Se ci penso ora, credo sia stato il suo saper coniugare così bene la semplicità della musica popolare, della ballata con la raffinatezza dei testi, elementi che abbinati a quella voce tanto bella mi portarono a consumare le cassette. Posso dire quindi che Faber mi rapi’ così, senza un perché, mi prese proprio attraverso le reazioni a catena che mi suscitava: piacere, brivido, estasi, malinconia.

 


Il terzo incontro avvenne in seconda superiore e fu determinante: estate, Marina di Massa con una amica di classe, una compagnia numerosa in spiaggia, come normalmente accadeva allora, e tra questi un ragazzo, la sua chitarra, il suo amore per De André, la sua bravura, la sua voce, ovviamente non uguale ma simile. Fu lui a raccontarmelo, fu lui a dirmi chi era, fu lui a cantarmi tutte le altre canzoni che ancora non conoscevo e fu lui a spiegarmele, a dirmi quanto a Fabrizio piacevano Brassens e Brel, ma anche Cohen e Dylan, quanto amava la sua Genova, quanto era intelligente, geniale, ribelle, un po' vanitoso, fu lui a dirmi che la lettura del libro “L’Unico e la sua proprietà”, scritto dal filosofo tedesco Stirner, fu probabilmente l’imput che lo avvicinò all’ideologia anarchica.

 



Il quarto incontro avvenne grazie ai fratelli e alle sorelle degli amici e amiche che frequentavo, i quali, più grandi di noi, avevano tutti i dischi, in particolare quello del live con la PFM che ascoltammo fino alla nausea e che mi diede il colpo di grazia. Da quel momento non smisi più di interessarmi al suo pensiero, volli capire meglio i suoi testi, comprai ogni suo album fino ad Anime Salve, l’ultimo suo grande capolavoro, l’ultimo suo grande inno agli ultimi, agli emarginati, ai diversi, ai bistrattati, agli abusati, agli offesi.

 



Faber, soprannominato così dall’amico Paolo Villaggio, per la sua passione per i pastelli e le matite della Faber-Castell e per l’assonanza col suo nome, piace a tutti: a tutte le generazioni, ai musici, ai poeti e ai profani, a chi sta a destra, a sinistra o in centro, allo snob e all’umile, al borghese, al nobile e al semplice, al credente e al miscredente.

 


A ventisei anni dalla sua scomparsa il suo genio è ancora qui a scaldare il cuore delle generazioni che verranno perché Faber…. non è morto.

Giovanna Anversa






06 dicembre 2025

Gian Maria Volonté: un artista che visse senza compromessi

 Gian Maria Volonté: un artista che visse senza compromessi

 


Gian Maria Volonté ci ha lasciati il 6 dicembre 1994, colpito da un infarto in Grecia, durante le riprese de Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos, all'età di 61 anni. Figura iconica del cinema italiano, eccelse nel coniugare talento attoriale e impegno civile, diventando simbolo di un'arte ribelle.


 


L’impegno civile e politico
 

Volonté militò nel P.C.I. fino al 1977, eletto consigliere regionale nel Lazio nel 1975, si dimise sei mesi dopo per preservare la sua indipendenza critica contro la "partitocrazia". Partecipò a battaglie operaie, scioperi e manifestazioni per i diritti dei lavoratori, producendo documentari come Documenti su Giuseppe Pinelli (1970) con Elio Petri.

 


Aiutò clandestinamente l'amico Oreste Scalzone a fuggire in Corsica nel 1981, sfidando le autorità durante il “Processo 7 Aprile” (serie di processi penali contro membri e presunti simpatizzanti di Autonomia Operaia). Il suo attivismo lo portò a rifiutare ruoli commerciali, come in Metti una sera a cena, per non tradire i suoi principi.

 



L’approccio intellettuale 


Contro i costumi conformisti degli anni '60 e '70, Volonté abbracciò un approccio eretico: studiava i personaggi in profondità, rifiutando il mero virtuosismo per un' "esperienza sulla pelle" che comunicava verità scomode. Influenzato da Camus e Sartre, contestò la censura Rai su Caravaggio (1967) e tentò di mettere in scena Il Vicario di Hochhuth contro Pio XII, proponendolo poi come lettura drammatica.

 


Nei western di Leone e nei film di Rosi e Petri, incarnò figure di potere corrotto, dal magistrato de Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto all'operaio de La classe operaia va in paradiso, criticando la società italiana con uno sguardo lucido e non allineato.

 





L’eredità nel cinema civile
 

Attraverso ruoli in Uomini contro, Sacco e Vanzetti e Cristo si è fermato a Eboli, elevò il cinema d'impegno a forma di resistenza culturale, vincendo diversi premi (i più significativi a Berlino e Cannes). La sua presenza magnetica, come disse il regista Francesco Rosi, "rubava l'anima ai personaggi", rendendolo attore-uomo in prima linea contro i pregiudizi.


 




Oggi ricordiamo Gian Maria Volonté, un artista che visse senza compromessi.



Stefano Superchi

 

04 dicembre 2025

Cinquant’anni dopo Hannah Arendt: pensare contro l’obbedienza

 Cinquant’anni dopo Hannah Arendt: pensare contro l’obbedienza

 


Il 4 dicembre 1975 moriva Hannah Arendt. Cinquant’anni dopo, la sua voce resta una delle più lucide del Novecento, e forse una delle più necessarie per comprendere questo nostro tempo di smarrimento politico e morale. Hannah Arendt non cercava verità eterne, il suo pensiero fu sempre un esercizio di comprensione delle fratture del mondo, dai totalitarismi del secolo scorso alle crisi democratiche che ancora oggi ci attraversano.
 


La nozione di banalità del male, elaborata nel suo reportage sul processo a Adolf Eichmann, segnò una svolta radicale. Eichmann non appariva come un mostro, ma come un funzionario mediocre, impermeabile al pensiero. Da qui l’intuizione che continua a inquietarci: il male nasce quando smettiamo di pensare, quando obbediamo senza giudicare. Il male non è abissale, ma superficiale, si diffonde nel vuoto della coscienza.
 


Oggi, questa idea suona drammaticamente attuale. In un mondo governato da algoritmi, piattaforme e catene di comando impersonali, la deresponsabilizzazione assume nuove forme. Il “mi limito a eseguire” di ieri diventa oggi “è la decisione dell’intelligenza artificiale”, “lo dice il sistema”, “lo impone il partito”. L’obbedienza cieca sopravvive, solo più tecnologica e burocratica. La politica contemporanea, dalla gestione delle crisi globali alle derive populiste, mostra ogni giorno quanto sia facile rinunciare al giudizio critico in cambio di sicurezza o appartenenza.
 


Hannah Arendt ci ricorda che la libertà non è una condizione, ma un atto, la democrazia non è garantita da procedure né da algoritmi trasparenti ma vive solo se i cittadini pensano, se sanno dire no a un ordine ingiusto, se rifiutano di ridursi a ingranaggi in una macchina che decide al posto loro.
Hans Jonas scrisse di lei che ebbe “il coraggio di pensare senza compromessi, e di dire ciò che il mondo non voleva sentire”. Oggi questo coraggio serve più che mai. Non basta indignarsi di fronte al potere, bisogna assumersi la responsabilità delle proprie scelte. È l’unica forma di resistenza che 
Hannah Arendt ci ha insegnato: pensare come atto politico, come gesto di libertà in un tempo che sembra averne paura.

Stefano Superchi 

 

Il Natale di Pablo

 Il Natale di Pablo   Pablo Salvador Antonini arrivò a Casalmaggiore nella notte, sotto una fitta nevicata, con uno stato d’animo che si d...