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05 aprile 2025

Enzo Jannacci, il genio della tradizione popolare

 Enzo Jannacci

il genio della tradizione popolare

 


Il 29 di Marzo era l’anniversario della scomparsa di Enzo Jannacci e mi sembrava doveroso ricordarlo.

Scrivere qualcosa di originale o che non sia stato già scritto su di lui è pressochè impossibile, ragion per cui ho provato a ragionare sul suo uso del linguaggio, in particolare del dialetto milanese.

Faccio parte di una generazione che ha usato il dialetto come lingua principale, in casa e fuori, e personalmente lo prediligo ancora, per abitudine, per ricchezza di sfumature intraducibili in italiano, per estrazione sociale.

 

Ma torniamo a Jannacci.

 


 

Il suo disco d’esordio, La Milano di Enzo Jannacci, con la sua copertina rosso-nera, girava in continuazione sui giradischi dei milanesi, canzoni così lontane dalla moda corrente (Beatles, Rolling Stones), così fuori tempo e così vive, da mandare a memoria, come preghiere. A Milano, in quegli anni, il dialetto circolava ancora: lo si parlava dal prestinè (il panettiere), alla posta e persino a scuola; anche i neo-milanesi immigrati lo masticavano abbastanza per apprezzare Tì te sé no, Sun chì sensa de tì o M’han ciamà, nella cui lancinante malinconia naufragavano quasi con compiacimento.

 


 

Nella sua prima apparizione in televisione, con El purtava i scarp del ténis sembrava un marziano dall’aria spaventata, con quegli occhiali dalla montatura così marcata e la voce metallica, quasi sgraziata. Una bomba. Spigoloso, gesticolante, sembrava piovere da un altro pianeta. Canzoni così diverse dai classici meneghini ma nelle quali si riconosceva la Milano di ogni giorno, la città delle fabbriche e delle periferie, del Duomo e dell’Idroscalo.

 

 


Le radici dell’arte di Jannacci andavano a pescare nella grande tradizione comica della canzone italiana, che dalla “macchietta” di Petrolini e Rascel, approda negli anni ‘50 a Carosone e Buscaglione; ma in questo filone, Jannacci è il primo a fondere organicamente nella sua poetica comico e patetico, umorismo e critica sociale.


 


 

Andava a Rogoredo è una canzone d’amore stralunata, ma è soprattutto un ritratto “dal basso” della Milano del boom economico. 



Quel che sun dré a cuntav l’è üna storia vera

de vün che l’è mai stà bun de dì de no.

E s’eren cunussü visin a la Breda:

lè l’era de Rugured, e lü el sù no.

Un dì lü l’avea menada a vedé la fera,

la g’aveva un vestitin culur de trasü.

Disse: “Vorrei un krapfen, non ho moneta…”

“Pronti!”-el g’ha dà dés chili, e l’ha vista pü.


Andava a Rogoredo a cercare i sò dané.

Girava per Rogoredo e el vusava ‘me ‘n strascé:

“No no no no, non mi lasciar!

No no no no, non mi lasciare mai, mai, mai!”

 

Già nelle canzoni di Umberto Simonetta e Giorgio Gaber, qualche anno prima, si affacciava una Milano marginale, in Jannacci spuntano le fabbriche (qui, la Breda), le catene di montaggio e le lamiere (Prendeva il treno), le modeste botteghe del centro (Tì te sé no), le case di ringhiera, i commissariati e addirittura gli obitori (M’han ciamà).

 

 


I suoi personaggi sono dei poveretti le cui disgrazie non riescono a elevarsi fino al tragico. L’innamorato derubato di Andava a Rogoredo arriva a considerare il suicidio, ma alla fine conclude che per ammazzarsi c’è sempre tempo, e che è meglio cercare intanto di recuperare i soldi. Una risoluzione molto pragmatica, se non fosse che il metodo per riottenerli è quello di urlare per le strade “come uno straccivendolo”, in italiano.





L’oscillazione fra comico e sublime è puntualmente sottolineata dall’alternarsi di lingua e dialetto; l’italiano, in Jannacci, suona come una lingua straniera, ha qualcosa di antiquato (“Triste è un mattin d’aprile sensa l’amore”); il dialetto è la lingua della realtà, della vita vera. 

La lingua parlata, in Jannacci, non è un semplice strumento di comunicazione: è la materia di cui sono fatti i suoi personaggi, come in Prendeva il treno:

 

S’en conossuti alla catena di montaggio,

lei tutta bianca, che spiccava pel candor.

Gigi Lamera, ed abitava dietro a Baggio,

era il suo nome, ma non era un tipo snob.


“Scusi signore, per andare alla toletta?”

“Scusi signora, ma rispondere non so”

“Lei al lavoro come viene?” “In bicicletta”

“Ma non è fine, la credevo un gran signore…”


Prendeva il treno per non essere da meno,

prendeva il treno per sembrare un gran signor.


Il dialetto resta sullo sfondo, ma è su quello sfondo rimosso che l’italiano affettato e traballante dei due protagonisti acquista il suo senso. La voce narrante sembra contagiata dalle smanie dell’operaia “chic”: dal mezzo milanese iniziale (“S’en conossuti”) passa a un italiano scolastico, da canzonetta (“pel candor”). Gli operai si danno del lei, si chiamano signore e  signora, i servizi igienici della fabbrica diventano un’improbabile tolètta (ma con la e larga, alla milanese, in rima con biciclètta); Gigi parla per inversioni canzonettistiche (“rispondere non so”), dichiara con l’aria di uomo di mondo di vivere “a Baggio” (quartiere della periferia milanese) come dicesse “vivo a Montecarlo”.


 


Anche qui abbiamo a che fare con un fallimento: nonostante gli sforzi per adeguarsi alle pretese della sua signora (il treno, l’italiano forbito, la cravatta dell’Upìm), Gigi non riuscirà a coronare il suo sogno d’amore, anzi verrà licenziato perché sorpreso in fabbrica a ritagliare lamiere per confezionare un mazzo di fiori futuristico.

Il fallimento è sottolineato con una repentina ricaduta nel dialetto, nella realtà evidente della sua condizione: quando offre il metallico bouquet alla sua dama (“Voglia gradire questi fiori come omaggio…”) e lei chiede “Che fiori sono?”, lui si lascia scappare un “Signurina, i u fà mì!” (Signorina, li ho fatti io!). E dopo il licenziamento il dialetto torna a gravare come una cappa di piombo sul povero Gigi, incapace di confessare la sua disgrazia e di spiegarne i veri motivi (“adesso è ottobre, fa già freddo, ma il coraggio/ di dirlo in casa, quel perchè, lü ‘l ghe l’ha nò”).  


 


Gigi Lamera è un personaggio tragicomico, ma Jannacci non si limita a ridere (e a farci ridere) della sua inadeguatezza: tutti, chi canta e chi ascolta, riescono ad identificarsi in maniera corale alla sua situazione, al suo goffo tentativo di riscattarsi, di conquistare la sua bella, fino alla rovina. 


Il comico, in special modo se è legato all’uso del dialetto, genera spesso disapprovazione sociale, biasimo se non addirittura disprezzo, nei confronti di chi è oggetto del riso: i personaggi di Jannacci, invece, suscitano simpatia, emozionano, fanno commuovore. Canzoni come M’han ciamà, Tì te sé no o Senza de tì,  terribilmente struggenti, potrebbero apparire incompatibili con la vena comica che domina il disco; invece, tra il loro patetismo e l’umorismo di Andava a Rogoredo o Per un basin, non c’è contrasto: è la stessa città che ora ride ora piange, ora grida ora sussurra.



 

L’opera di Jannacci è tra le più vive e originali nella storia della canzone italiana. Definirla poetica potrebbe risultare fuorviante. La sua scrittura non cerca di fare il verso ai modelli della “vera” poesia, e proprio da qui scaturiscono la sua forza e la sua originalità.


La qualifica di genio, che nel mondo dello spettacolo viene spesso abusata, nel caso di Jannacci è quasi obbligatoria. Se la genialità è la capacità essere schiettamente ciò che si è, di assecondare senza compromessi ed esitazioni la singolarità del proprio modo di sentire e di esprimere emozioni, allora Enzo Jannacci è uno dei pochi geni autentici della nostra tradizione popolare.

 

Stefano Superchi 

 

 

 

 

 


 

 

29 marzo 2025

Ryūichi Sakamoto, il pioniere dei suoni dell'anima

 Ryūichi Sakamoto,

il pioniere dei suoni dell'anima

 


Il 28 Marzo 2023 muore Ryūichi Sakamoto, che da decenni mi sorprende e mi affascina. Mi perdo nelle parole di Massimo Rizzuto che lo racconta dandogli ancora vita e nella sua musica che mi porta in un altrove fluttuante. Cos’altro chiedere all’arte? Sakamoto è stato un compositore di musica colta (Glass con Alva Noto), di celebri colonne sonore a fianco di grandi registi (Bertolucci, Almodovar, De Palma, Schlöndorff, Iñárritu), uomini di teatro (Robert Wilson), è stato musicista, produttore, attore (in Furyo, accanto a David Bowie), ma anche promotore di diversi progetti pedagogici, penso a Schola, e attività contro la proliferazione dell’energia nucleare come No nukes e per la salvaguardia dell’ambiente come Zero Landmines Project, more Trees.


 

Nel 2006, tra l’altro, ha creato un’etichetta discografica, Commons, che cerca nuovi artisti nel panorama internazionale e il cui motto è: “Dall’ego all’eco”. A questo proposito diceva di essere un musicista, certo, ma che nessuno lo è sette giorni su sette per tutto l’anno. Voleva dire che tutti noi, musicisti, pescivendoli, carpentieri, scrittori, calzolai, siamo anche “genitori, mariti, mogli, figli, figlie, e l’importanza dei nostri doveri e delle nostre responsabilità non cambia a seconda del mestiere che facciamo”.

 

Kenzaburō Ōe

Da cittadino e da uomo che proteggeva la sua famiglia si preoccupava dell’ambiente ed era in prima fila contro il nucleare (come uno dei suoi scrittori preferiti, Kenzaburō Ōe). Tutto ciò non aveva nulla a che vedere con il suo lavoro. “Se avessi scelto di fare l’archeologo, sono certo che mi sarei sentito in dovere di agire allo stesso modo”. Avvertendo che i problemi dell’ambiente portano con sé molti altri problemi, affermava che ogni singolo individuo deve porsi un limite. Limite che, naturalmente, da compositore, cercava di superare ogni volta.
 
 


Nel corso della sua lunga carriera Sakamoto ha aspirato a essere un artista totale, un po’ come quelli del nostro Rinascimento italiano. Del resto, il suo aver vissuto tra New York e Tokyo, il suo continuo alimentarsi e rigenerarsi attraverso tradizioni, forme, stili e ritmi musicali diversi, da Bach alla bossa nova, dall’impressionismo francese alla musica elettronica, dal folklore di Okinawa al minimalismo anglosassone, lo testimonia.  La sua principale “aspirazione” era quella di inseguire con l’ascolto “le tracce dei canti, delle parole e delle voci dei primi antenati della nostra specie, non più di cinquanta individui che si aggiravano per l’Africa”.

 


Questo suo interesse antropologico è stato inesauribile. Tuttavia, aggiunse che la sua grande “ispirazione” era sempre stata l’arte, in particolare l’arte del XX secolo, “poiché è lei che mi ha insegnato a mettere in discussione e a distruggere i preconcetti da cui siamo sistematicamente afflitti”. Per Sakamoto l’arte del XX secolo ha messo definitivamente in crisi l’idea che la percezione estetica si riduca all’osservazione di “una figura disegnata su una parete bianca”.

 


E la letteratura? Sakamoto era nato e cresciuto in una casa piena di libri. Il padre era un redattore letterario e molti scrittori vi andavano e venivano fino “alle prime luci dell’alba”, tanto che il piccolo Ryuichi era solito addormentarsi cullato da una “ninna nanna di parole”. Il romanzo e la poesia, ma anche la filosofia e l’antropologia hanno avuto una grande influenza su di lui. Citava, ricordo, autori come Kenzaburō Ōe, Yutaka Haniya, Takaaki Yoshimoto, Baudelaire, Rimbaud, Deleuze, Le Clézio, Lévi-Strauss.
 


La sua musica, a causa delle sue frontiere erranti, è stata definita una volta duty free music, libera da ogni dovere.  Gli dava più gioia immaginare che “in un lontano paese che non conosco, che ne so, in Bulgaria o in Perù, un’anziana signora, una nonna, ha sospirato ascoltando per caso la mia musica”.

 



Da adolescente, nel Giappone dei primi anni Sessanta del secolo scorso, Sakamoto si imbatte nel rock e Tell me dei Rolling Stones è il primo disco che che compra. Il rock influenza così la prima parte della sua carriera: quello inglese, poi il rock tedesco, negli anni Ottanta il punk e, infine, la new wave. Allora faceva parte della Yellow Magic Orchestra, un gruppo fortemente influenzato dalla musica che arrivava dall’Inghilterra e dall’Europa. Tuttavia, quasi all’unisono, nacque la sua passione per Debussy, un compositore sempre presente nella sua musica, data la volontà artistica di Sakamoto di far entrare nel suo cerchio magico la musica occidentale e quella orientale.

 



Sperimentatore di ogni tipo di tecnologia non mollerà mai il pianoforte che non ha mai perso centralità nel suo lavoro da solista. In una delle sue ultime opere, Playing the piano/out of noise, il titolo è significativo: via dal rumore. Ma da quale? Non da quello prodotto dalla natura, visto che, ad esempio, il rumore dell’acqua è spesso presente. Forse da quello prodotto dall’uomo? Sakamoto era stato in due luoghi particolarmente silenziosi: l’Africa e la Groenlandia. Con sua grande sorpresa aveva scoperto che nella savana “il suono più intenso era quello degli scarabei che mi volavano intorno” e in quei luoghi riusciva “a immaginare una musica in cui le nuvole scorrono quiete, o una in cui enormi montagne di ghiaccio avanzano lente e maestose sulla linea dell’orizzonte. In fondo non è vero che siamo così diversi dai nostri progenitori”. 


 


Sakamoto, che dire di più? talento e conoscenza universale della musica sperimentata in ogni sua forma ma sempre condita dalle sonorità del mondo fluttuante; classicità, modernità ed evoluzione sempre servite su un vassoio luccicante di fattezza nipponica. Pochi i nomi che rendono più intense le immagini cinematografiche: Morricone e Sakamoto.
Vi lasciamo con "Merry Christmas, Mr. Lawrence"... perdetevi e fate bei sogni.

Giovanna Anversa 

 





26 marzo 2025

Stefano Savazzi, "In ogni battito". Live per MIA il 6 Aprile al Teatro Comunale di Casalmaggiore

 Stefano Savazzi, "In ogni battito"

Live per MIA il 6 Aprile al Teatro Comunale di Casalmaggiore

 


 Domenica 6 aprile, alle 17:30, Stefano Savazzi suonerà al Teatro Comunale di Casalmaggiore in un concerto (“In ogni battito – Live”) a supporto del Centro Antiviolenza MIA (Movimento Incontro Ascolto), al quale andrà il ricavato dalla vendita dei biglietti dell’esibizione. Savazzi si esibirà a titolo gratuito, mentre le spese organizzative saranno sostenute da diversi sponsor locali (presenti sulla locandina ufficiale dell’evento). Il Comune di Casalmaggiore ha dato il patrocinio allo spettacolo.



Abbiamo fatto una chiacchierata con lui.

Prima di tutto, perché hai scelto MIA?
Perché MIA è una associazione che svolge sul territorio un lavoro encomiabile, per le donne e non solo. E poi perché mi piace che la mia musica non sia fine a se stessa ma possa veicolare un messaggio sociale. (Stefano aveva già fatto nel 2018 uno spettacolo analogo a sostegno di “Progetto 22” di Andrea Devicenzi con la collaborazione dell’AVIS, n.d.r.).

 


Come è nato il progetto, e come si è sviluppato?
Il concerto è la trasposizione del disco, un disco che è nato in maniera anomala, ai tempi del lockdown. Ognuno dei musicisti ha composto le proprie parti da casa, poi assemblate spedendole via dropbox o whatsapp, le mie tracce, la batteria, il basso, poi “KaloSiracusa ha arrangiato le parti. Quando poi è stato possibile il disco è stato messo “in bella” e registrato al Sonic Temple Studio di Parma con alcune guest star come Andrea Innesto (storico sassofonista di Vasco Rossi) al sax soprano e Anchise Bolchi (uno dei più richiesti violinisti country italiani) al violino. Per alcuni brani ci siamo avvalsi della produzione artistica di Alessandro Fava.
Tornando al concerto che andremo a fare il 6 aprile, le prove per questo spettacolo sono state molto impegnative, c’è dietro quasi un anno di lavoro. Quando suono con gli Acrimonìa andiamo con il pilota automatico, praticamente non c’è bisogno di provare, tanti sono gli anni che suoniamo assieme e l’affiatamento.
 

con gli Acrimonia alla Terrazza Martini di Milano

Per questo progetto è diverso, abbiamo lavorato sodo in particolare per gli arrangiamenti, inciso strumenti reali riducendo praticamente a zero gli “aiutini” elettronici e privilegiato il suono caldo degli archi. Certo, dal vivo per riprodurre strumenti e suoni del disco, bisognerebbe avere un’ orchestra sinfonica, improponibile per le ragioni che potete immaginare. Allora suppliremo con le tastiere per riprodurre il suono che sul disco è stato fatto sovrapponendo varie tracce contemporanee di violini e violoncelli.
 


Come sarà lo spettacolo?
Inanzitutto non sarà solo musica, MIA ci presenterà l’attività che svolge sul campo, cercando di sensibilizzare gli spettatori sulle tematiche che tratta da anni.
Il concerto vero e proprio sarà all’incirca di un ora e mezza, i 10 brani del disco più 10 brani di repertorio riarrangiati sullo stile del disco. Con me sul palco ci saranno Giovanni Tumino alla batteria, Dario Cavalli al basso, Calogero Siracusa alla chitarra, Stefano Goi alle tastiere e Alevtina Matveeva al violoncello, ma anche un ospite a sorpresa che per ora lasciamo dietro ad un velo di mistero.

 


Tra l’altro suonare nel Teatro Comunale di Casalmaggiore è una cosa che mi stimola, perché la dimensione teatrale implica un certo tipo di attenzione da parte di tutto il pubblico, cosa difficile da trovare nei locali, per tanti motivi di “distrazione” di qualche avventore.
 



 

A proposito del disco, parlaci di “In ogni battito”.
Sulla sua “gestazione” anomala abbiamo già detto prima. È un disco intimista, che ovviamente ha molto di autobiografico, quando parlo di mio figlio Leon, della mia Itaca (la verde isola d’Irlanda, n.d.r.). È un disco che parla anche di figure “altre”, che ho conosciuto solo di fama come la madre di Peppino Impastato (Felicia) ma anche di persone della nostra terra, persone che ho, che abbiamo incrociato in carne ed ossa nelle nostre scorribande padane, magari casualmente, che mi sono rimaste addosso, come “Il Gigante”, un personaggio quasi mitologico che si chiamava come me e come te che mi stai intervistando.
 


 


Parliamo un po di te.
Mi sono diplomato ragioniere, non ero uno studente brillantissimo ma ho messo in piedi una attività che, modestamente, sono riuscito a fare camminare abbastanza bene. La mia formazione musicale è prevalentemente da autodidatta anche se ho avuto delle basi dalle quali partire, il CPM (Centro Professione Musica) di Franco Mussida (chitarrista storico della PFM) e l’Estudiantina, per citarne alcune. Suono la chitarra ovviamente, ma me la cavo anche con altri strumenti. Nel disco ho suonato, l’armonica a bocca, l’irish whistle (il flauto irlandese), il marranzano (meglio conosciuto come scacciapensieri) e uno strumento particolare che ho aggiunto al mio corredo più recentemente, la lap steel, una chitarra che si suona da seduti tenendola sulle gambe e percuotendo le corde con un martelletto metallico per produrre un suono particolare, adatto per il blues e per il country, chi conosce Ben Harper sa di cosa stiamo parlando.
 


Non ti sarebbe piaciuto fare della musica la tua professione?
Ammetto di averci pensato più di una volta, ma alla fine è andata così, ormai è tardi per avere rimpianti.
 

Il tuo lavoro, completamente al di fuori dell’ambiente dello spettacolo, ti ha aiutato nella scrittura dei testi, a trovare degli spunti?
Se devo essere onesto no. Certo, avere contatto quotidiano con altre persone fuori dalla cerchia musicale ti mantiene in contatto con il “mondo reale”, non meno nobile, ma sono due linee parallele che non si incontrano. Dal punto di vista creativo ti toglie molto. Ti toglie tempo, attenzione che devi riversare sui problemi di lavoro, sul far tornare i conti. Non sono un dipendente che finite le sue 8 ore può staccare completamente. Avendo una attività mia, la testa è inevitabilmente spesso su quella. Infatti il mio periodo di gran lunga più creativo è stato quello del lockdown, quando per forza di cose il lavoro era fermo ed ho potuto dedicarmi molto di più alla musica.




L’intervista sta per finire, quando passa Leon, che sta per uscire, e Stefano ritorna alla canzone che gli ha dedicato.
 
Vasco Rossi in “Una canzone per te” dice “come mi è venuta, e chi lo sa? Le mie canzoni nascono da sole, vengono fuori già con le parole”. Ecco, a me è successo con “A Leon”. L’ho scritta di getto, come se le parole mi fossero arrivate da un’altra dimensione, da un’altra vita. Bisogna solo ricordarsele. Poi, rileggendole, stentavo quasi a riconoscere di averle scritte io.

"Si ci sarò, ovunque andrai, nei tuoi sbagli io ci sarò
E mi sentirai, si mi sentirai, sarò quel brivido vedrai
Mi riconoscerai, vedrai vedrai, vedrai"

 

Stefano Superchi

 

 


25 marzo 2025

I Sentieri del 900. Secondo ciclo di incontri al Polo Romani

I Sentieri del 900 

Secondo ciclo di incontri al "Romani"

Marzo - Maggio 2025

 


Prosegue il percorso I Sentieri del 900 con la seconda parte degli incontri previsti, da Mercoledì 26 marzo 2025, cinque incontri con altrettanti Autori per entrare nella complessità dei percorsi del 900 storico e letterario, per imparare un alfabeto indispensabile alla lettura del presente.

Tutti gli incontri si terranno alle ore 17:00 nell'Aula Magna dell'Istituto di Istruzione Superiore "Romani" di Casalmaggiore.

Il primo incontro, condotto dal Prof. Giancarlo Roseghini, si terrà il 26 marzo ed avrà il titolo "Controcanto, Luciano Bianciardi e Lucio Mastronardi"
 




Il secondo incontro, tenuto il 2 aprile dal Prof. Tommaso Favagrossa, nuova figura dell'Istituto casalasco parlerà di Pier Vittorio Tondelli prendendo le mosse da un passo del romanzo "Altri Libertini": "Notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d'Emilia".

 



Il 9 aprile, la Prof.ssa Rita Pezzani parlerà di Natalia Ginzburg, "Una corsara tra famiglia e memoria".

 



Gli incontri proseguiranno il 16 aprile con il Prof. Davide Gonzaga che tratterà di Tommaso Landolfi con "Il racconto e il fantastico".

 




Il ciclo si chiuderà il 21 maggio con la Prof.ssa Monica Bovis che svilupperà "L'immaginario e la Lingua" di J.R.R. Tolkien

 



 

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