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04 dicembre 2024

Cocco Bill e i salami parlanti

 Cocco Bill

e i salami parlanti

 


Nel marzo del 1957 un nuovo strampalato fumetto debutta sulle pagine de “Il Giorno dei Ragazzi”, il nuovo supplemento per adolescenti del quotidiano “Il Giorno”. È la presa in giro dei fumetti western di successo dell’epoca come “Tex” della Edizioni Audace (oggi Sergio Bonelli Editore) e “Pecos Bill” (all’epoca pubblicate dalla Edizioni Alpe), ispirandosi a quest’ultimo persino per il nome. Trottando tranquillo in una insolita vignetta muta, fa il suo ingresso nella cittadina texana di Bobbe City il pistolero Cocco Bill in sella al suo fido cavallo parlante Trottalemme.

 


Non si tratta della prima opera di Benito Jacovitti (detto Lisca di pesce), il suo tratto di stile comico l’aveva già reso famoso sulle pagine della rivista “Il Vittorioso”, riscuotendo un enorme successo con le storie dei 3P (Pippo, Pertica e Palla) e di Cip l’arcipoliziotto.



Cocco Bill ha un approccio ancora più libero e scanzonato alla narrazione. Le didascalie sono addobbate da calembour disegnati e forniti di una propria descrizione come lo «sceriffo a dondolo», appunto metà sceriffo e metà sedia a dondolo, mentre il protagonista spara con le sue pistole anche per aprire le porte del saloon.

Un’entrata a effetto che tradisce la scioltezza con cui l’eroe pistolero è familiare con le sparatorie, ed essendo consapevole di questa sua natura incline all’aggressività, al bancone non ordina né whisky né rhum bensì una calmante e sana camomilla. Poi il classico balordo da bar ha la brutta idea di sbeffeggiare l’inconsueta bevanda scelta dal nuovo arrivato, che per tutta risposta gli fa letteralmente saltare i denti a revolverate.


Ed è solo la prima pagina del nuovo fumetto di Jacovitti, ma tutti i giovani lettori si sono già innamorati di questo eroe nasuto e caricaturale. Il resto della storia continua sulla linea del parossismo grafico con duelli fittissimi dove le pistole sparano come fossero mitragliatrici, sempre al servizio dell’effetto comico e non di trovate violente o sanguinarie. Un dinamismo che si esprime anche nei dialoghi incalzanti, che si integrano alla perfezione con le trovate grafiche.

La cornice umoristica permette infatti a Jacovitti di rappresentare in maniera molto accentuata le espressioni dei personaggi, così come le pose e i gesti tipici dell’italianità. Così il diniego del cattivo verrà accompagnato da un indice oscillante in segno di “no”, mentre le domande di Cocco Bill saranno rinforzate dalla tipica e italianissima “mano a carciofo”.

 


Alla fine di una storia in cui Cocco Bill spara coi piedi e Trottalemme spara con gli zoccoli facendo esplodere il carro dell’antagonista, lo stesso Cocco Bill dovrà scappare da un matrimonio forzato con l’imponente Osusanna Ailoviù.


Una fuga che proseguirà per decenni, visto che Cocco Bill continuerà a essere pubblicato persino dopo la morte dello stesso Jacovitti nel 1998, ricevendo l’onore di due serie animate nel 2001 e nel 2004. Adattamenti piacevoli, ma che non rendono quello che è la storia disegnata, intraducibile in altri medium.


 

Col tempo le tavole di Cocco Bill diventano sempre più ricche di dettagli comici e surreali, dai salami parlanti alle venditrici di cognati, sfondo dinamico delle avventure del pistolero.
Un’apparente accozzaglia comunicativa che grazie all’intuito grafico di Jacovitti si trasforma in un vorticoso divertimento da parte dei lettori, marcando l’unicità di questo particolarissimo autore nel panorama del fumetto italiano.

Stefano Superchi

02 dicembre 2024

Monica Bonvicini, desacralizzare il potere: l’installazione nella chiesa di San Carlo a Cremona

Monica Bonvicini, desacralizzare il potere: l’installazione nella chiesa di San Carlo a Cremona

  And Rose



Nel contesto della chiesa sconsacrata del Seicento, San Carlo di Cremona
Monica Bonvicini espone tre imponenti sculture performative realizzate ad hoc.

 Il progetto culturale ed espositivo San Carlo Cremona presenta per la prima volta le opere, realizzate specificatamente per i suoi spazi, di un artista italiano. La seicentesca chiesa sconsacrata di San Carlo in via Bissolati 33 a Cremona ospita infatti And Rose, mostra personale di Monica Bonvicini, aperta al pubblico, su appuntamento, fino al 14 dicembre 2024


L’installazione site-specific all’interno della chiesa sconsacrata aggiunge un ulteriore tassello alla pratica dell’artista incentrata sull’interazione tra opera, spettatore e architettura. Con imponenti sculture della serie Chainswings dalle sfumature cromatiche inedite che dominano la navata, l’artista continua la sua incisiva esplorazione delle dinamiche di potere insite negli spazi architettonici, portando la sua indagine a nuove vette di complessità e risonanza.

 


Queste sculture performative, che oscillano tra il gioco e la sottomissione, sono realizzate con catene di acciaio galvanizzato e incarnano una sintesi provocatoria di estetica industriale e allusioni sub-culturali, sfidando le aspettative associate sia all’arte contemporanea che agli spazi sacri.

L’installazione si inserisce in modo critico nel dibattito attuale sul ruolo dell’arte negli spazi pubblici e sulla natura partecipativa dell’esperienza artistica. Invitando i visitatori all’interazione fisica, Bonvicini sovverte la tradizionale dinamica di contemplazione passiva, trasformando il pubblico in co-creatore attivo dell’opera.


La scelta di una chiesa sconsacrata come contesto espositivo amplifica l’importanza dell’opera, creando un dialogo tensivo tra sacro e profano, istituzionale e sovversivo. Questo gesto non solo evidenzia la capacità di Bonvicini di rispondere in modo eloquente allo spazio architettonico, ma solleva anche questioni cruciali sulla riappropriazione degli spazi pubblici e sulla fluidità dei confini tra arte, architettura e critica sociale.

And Rose si immerge nei nodi centrali della pratica di Monica Bonvicini: femminismo, sessualità, potere e critica istituzionale. Tuttavia, in questo contesto, questi temi acquisiscono nuove sfumature, invitando a una riflessione sulla persistenza delle strutture di potere anche in spazi apparentemente desacralizzati.

a cura di Stefano Superchi

 






01 dicembre 2024

Harry Styles, eclettico con stile. A 5 anni da Watermelon Sugar, rilancia.

Harry Styles, eclettico con stile.

A 5 anni da Watermelon Sugar, rilancia.

 


 Eclettico, camaleontico, carismatico, contemporaneo. Harry Styles ha solo 29 anni ma ha vissuto molte vite. È cambiato, è cresciuto, si è trasformato più volte e continua a farlo nella musica, nello stile, nell’attitudine e anche nei messaggi che trasmette. E come tutti gli inglesi quando han talento, sono unici, inimitabili e stupiscono senza sosta.
 

 

Dopo avere portato in giro un tour mondiale durato due anni e terminato alla RFC Arena di Reggio Emilia nel luglio del 2023, al cospetto di oltre centomila persone, Harry Styles pare stia tornando con un nuovo album, mentre in ottobre ha compiuto cinque anni la canzone che lo ha lanciato nel firmamento delle popstar “Watermelon Sugar”
 


La sua è una di quelle storie che sembrano uscite dritte dritte dalla sceneggiatura di un film commedia a lieto fine. Uno di quei film che raccontano la scoperta, il percorso e l’ascesa di una delle popstar oggi più conosciute e acclamate al mondo.



Styles, nasce nel Worcestershire nel 1994, è un ragazzo come tanti che si diletta a strimpellare e a cantare al karaoke. Partecipa giovanissimo alle audizioni del talent show televisivo britannico X Factor. Viene eliminato come solista ma rientra in gara all’interno di una boy band, gli “One Direction” che pur non avendo vinto raggiunge un successo planetario vendendo oltre 50 milioni di dischi e facendo impazzire i teenager di tutto il mondo. La sua prima vita artistica comincia così: dal talent ai grandi palchi e va avanti fino al 2016, quando gli “One Direction” si prendono una non ben definita pausa. Ma Harry in pausa non ci sta, scrive brani per artisti come Ariana Grande e si cimenta come solista.

 


Il primo progetto autonomo nasce però grazie a un contratto con la Columbia Records e cominciano ad essere pubblicate le sue prime canzoni come artista indipendente, come "Sign of the Times” che diventa immediatamente un successo che sale in cima alle classifiche di tutto il mondo. 

 


Il pezzo funge da apripista per l’album "Harry Styles" lanciato nel maggio 2017. Concepito per segnare ufficialmente il distacco dagli One Direction attraverso un avvicinamento alle sonorità del soft rock e del pop psichedelico, il disco è spinto da due nuovi singoli, “Two Ghosts”, dalla “rockissima” “Kiwi”, e da un tour mondiale con più di sessanta concerti.
 


 

Dopo quasi due anni di pausa dalla fine della tournée Harry torna a produrre nuova musica e nell’ottobre 2019 lancia il singolo “Lights Up” che ottiene un’accoglienza un po' più timida ma, mesi più tardi, esce il brano “Watermelon Sugar”, che ha da poco compiuto cinque anni, e che lo consacra non solo ai vertici delle classifiche, ma come la popstar più acclamata del momento.
 


E’ poi la volta di "Fine Line", il secondo disco da solista, che ottiene un riscontro unanimemente positivo da parte della critica, rientrando nella lista dei cinquecento album più belli di sempre, secondo la rivista Rolling Stone, premiato con infiniti riconoscimenti tanto in UK quanto negli Stati Uniti. I brani Falling”, “Golden” e “Treat People with Kindness” sono tutt’ora tra i più ascoltati





Il 2022 è l’anno del terzo album dal titolo "Harry’s House" che ottiene un riscontro senza precedenti. Qui troviamo “As It Was”, una delle canzoni di Styles di maggior successo, conquista il pubblico più diffidente e la critica più puntigliosa, passando dalle sonorità dichiaratamente pop della boyband a tinte più new wave, soft rock e british folk ispirate ai suoi miti. 



Oltre alle opere musicali ci sono l’uomo e l’artista dai mille volti, due facce di Harry che non passano inosservate. Capace di cambiare, di trasformarsi, sul palco canta, balla da solo, corre, parla, suona più strumenti, scherza e intrattiene. Uno showman che regala allegria e buoni sentimenti, mettendo al bando qualsiasi banalità, eccesso o volgarità rimanendo accattivante, ipnotico e terribilmente sensuale.
 


Dalle nuove generazioni è apprezzato anche per il suo attivismo a sostegno dei diritti della comunità LGBTQ+ e delle cause ambientali. Durante i suoi concerti lo si vede spesso sventolare la bandiera arcobaleno e lanciare messaggi di inclusione e auto accettazione. Abile anche nell’ideare i suoi abiti di scena si stacca dai prototipi preconfezionati del pittato/gender fluid, stile omologato per le star, a cui si sono piegati parecchi giovani artisti. Styles no, lui ha una sua anima, è pop, circense, carnevalesco e teatrale sul palcoscenico mentre indossa il meglio della moda “avanti” o di tendenza, nelle serate di gala o sui red carpet portando capi non facili come nemmeno un mannequin saprebbe fare.


 Nel 2020 è il primo uomo a comparire da solo sulla copertina di “Vogue”, scegliendo di indossare un abito di pizzo azzurro sotto lo smoking nero, cosa che fa sul palco, nei videoclip: giocare a travestirsi. Forse è anche per questo che piace, perché trasmette quell’idea che si può essere ciò che si vuole, se lo si vuole.
 


Non dimentichiamo l’innata attrazione per il trasformismo che molti artisti british nei decenni hanno mostrato, affascinanti creature dalla fantasiosa versatilità che li rende icone intramontabili, artisti che sanno indossare ogni sorta di eccentricità portando tutto con stile e naturalezza, David Bowie, Elton John, Boy George, George Michael, Peter Gabriel, Lindsay Kemp, Robbie Williams, Mick Jagger per dirne alcuni. Fenomeni assoluti che spesso sanno performare in più ambiti e lanciano mode e tendenze che rimangono nella storia.
 


Styles vive anche un’altra vita artistica, il cinema, dove ancora una volta dà prova di grande talento. Il suo esordio avviene nel 2017 con “Dunkirk” di Cristopher Nolan, dove interpreta un soldato inglese durante la Seconda Guerra mondiale. Il rischio di una stroncatura è dietro l’angolo, come a volte accade ai musicisti che tentano la strada della recitazione, ma il suo debutto riceve critiche generalmente positive e incoraggianti. 

 


Negli anni riceve poi altri ruoli, da “Eternals” di Chloé Zhao, “Don’t Worry Darling” di Olivia Wilde da cui esce senza infamia e senza lode, mentre in “My Policeman”, di Michael Grandage sfodera una interpretazione pazzesca.
 


Harry Styles è un personaggio che si espone, che non sembra avere limiti e forse per questo ha attraversato così tante fasi e chissà quante ancora lo aspettano. Ogni tanto, qualcuno ce la fa e questo sembra essere proprio il suo caso. Capace non solo di sopravvivere alla sfida del talent, della boy bond, del debutto solista e del debutto cinematografico, ma anche di continuare a brillare.

 


Vedremo ora, dopo tanti scalini fatti, dove il suo volo lo porterà ancora, certo è che non si assisteva a qualcosa di simile dai tempi di Michael Jackson!!

Giovanna Anversa


29 novembre 2024

Le canzoni del mondo perduto di Robert Smith

 Le canzoni del mondo perduto di Robert Smith


 

Abbiamo dovuto attendere 16 anni per uscire dal sogno, peraltro dai contorni piuttosto sfocati, di 4:13 Dream, ultimo album di inediti dei Cure pubblicato nel 2008. Al “risveglio” nell'A.D. 2024 Robert Smith si è trovato catapultato in un mondo di ricordi.

Un mondo sofferto e solenne, dolente e malinconico. Un mondo dissoltosi lentamente. Ciò che è rimasto sono frammenti di vita, what if?, tentativi di riconnettersi ad un passato che si cristallizza nella memoria e che non tornerà.

Resta però la possibilità di volgere lo sguardo indietro, provando “A fare i conti con il tempo che ci è scivolato addosso”. Una frase tratta da “Il lungo addio”, albo capolavoro di Dylan Dog firmato da Tiziano Sclavi, si presta perfettamente – per un'affinità nei temi trattati - all'accostamento con Songs Of A Lost World.

 


Un lungo addio a quel passato declinato in otto splendide canzoni. Senza ombra di dubbio questo è il miglior disco dai tempi di Wish. Era il 1992 e grazie a, tra le altre, Friday I'm In Love, High, A Letter To Elise e From The Edge Of The Deep Green Sea, Smith & soci chiudevano un (altro) periodo straordinario, inaugurato da The Head On Door del 1985 e che si è concluso, appunto, con Wish e la successiva disgregazione di quella line-up.



Sarebbero seguite pubblicazioni interlocutorie (l'omonimo Lp mortificato dalla produzione totalmente off topic di Ross Robinson del 2004), lavori quasi “bipolari” (Wild Mood Swings, dato alle stampe nel 1996) e il colpo di coda di Bloodflowers del 2000. Robert Smith si è fatto aspettare, ma ne è valsa la pena. Nel 2019 i primi annunci di un Lp che iniziava, lentamente, ad entrare nella casistica di altri lost album dei tempi che furono, come Chinese Democracy dei Guns N' Roses o Smile dei Beach Boys.

 


Tornando al caso dei Cure, il pericolo è stato fortunatamente scongiurato. Gli “spoiler” non erano fini a se stessi: il gruppo stava testando i novi pezzi in un tour mondiale, lavorando sui dettagli per migliorare gli inediti. “This is the end of every songs we sing”. La fine di tutte le canzoni che cantiamo. Inizia così - dopo un'intro lunghissima e ipnotica – Alone, traccia d'apertura di Songs Of A Lost World.




Canzoni di un mondo perduto. Passato, senso di perdita, smarrimento e nostalgia i pilastri dell'oscura architrave che sorregge questo disco. Un lavoro epico, magnifico, struggente. Ai vertici delle classifiche internazionali, Songs Of a Lost World riporta non solo ai fasti di Wish, ma soprattuto alle atmosfere di Disintegration, capolavoro di fine anni Ottanta.

 


Brani lunghissimi, intro infinite (quasi un atto sovversivo negli anni dell'ascolto “mordi e fuggi” di Spotify), arrangiamenti perfetti, una scrittura nitida. Non si ravvedono punti deboli in questa raccolta di inediti acclamata dalla critica di mezzo mondo. And Nothing Is Forever - con le tastiere di Roger O'Donnell che aprono per le chitarre di Smith e di Reeves Gabrels (in passato al fianco di David Bowie) - così imponente e solenne nella sua drammaticità, condensa le perdite e il vissuto di Smith quando alcuni dei legami più importanti della sua vita si sono dissolti. Per allontanare uno spettro (“I know that my world is grown old”) la promessa di esserci comunque, fino alla fine. “But it really doesn't matter, If you say we'll be together, If you promise you'll be with me in the end". Ad una A Fragile Thing così vicina al sound di Wish, seguono Warsong e Drone:No Drone.




In quest'ultimo episodio gli intrecci nervosi tra la sei corde di Gabrels e quella di Smith sono al centro della scena. I Can Never Say Goodbye, aperta dal rumore di un tuono, rasenta la perfezione, così come All I Ever Am che scioglie, provvidenzialmente, la tensione accumulata appena prima dell'inizio di Endsong, degno atto conclusivo di un disco definitivo, ambizioso, potente nel raccontare i sentimenti e le emozioni del suo autore. Un lungo e meraviglioso addio. Un commiato ad un mondo perduto.


Lorenzo Costa 

 




 

 


 



Jimi Hendrix: “Una volta morto, sei pronto per la vita”.

Jimi Hendrix 

“Una volta morto, sei pronto per la vita”



James Marshall Hendrix, detto “Jimi” nasce il 27 novembre 1942 a Seattle, da Al Hendrix e Lucille Jeter; scrivere qualcosa di originale su di lui è impresa pressoché impossibile. Di sicuro è considerato all’unanimità il più grande chitarrista elettrico di tutti tempi e il suo strumento lo ha suonato in tutti modi, anche i meno convenzionali, con i denti, con il gomito o con l’asta del microfono.



Origini che intrecciano geni Cherooke e messicani, i suoi primi anni di vita sono non stati dei più felici. Prima che Jimi nascesse, il padre fu arruolato dall’esercito per andare a combattere nel Pacifico e tornò tre anni dopo. La vita inizia subito tra mille difficoltà dovute alle scarse cure della madre, diciasettenne, che non era in grado di accudirlo e lo abbandonò.

 


Finita la guerra, il padre va in California per riprendersi il figlio che era stato dato in affido. Tornato a Seattle, i due furono raggiunti dalla madre Lucille e per qualche anno Jimi visse con la sua famiglia. Nascono altri fratelli, ma solo Leon viene riconosciuto dal padre. I frequenti litigi tra Al e Lucille, dovuti all’eccesso di alcool, costringevano spesso Jimi e suo fratello Leon ad essere ospitati da parenti. Dopo qualche anno Al e Lucille divorziano, Jimi e Leon rimangono col padre.

 


Al era sempre al lavoro oppure al bar a bere e a scommettere, e i due fratelli crescono per strada. Una giovinezza divisa tra problemi scolastici e rapporti difficili con le donne, eredità dalle brutte esperienze dei genitori. Nel 1958 Lucille morì e Al non volle portare i figli al funerale della madre; versò loro un bicchiere di whisky in cucina e disse: «Così fanno i veri uomini!».
Per Jimi, la scomparsa della madre e il non poter partecipare al funerale fu un trauma vero e proprio. La sua àncora di salvezza diventerà la musica, una chitarra di seconda mano con la quale Jimi si esercita ispirandosi ai grandi del blues, imitando e rubando quanto più poteva.




La musica diventa un “rifugio” e la chitarra una confidente, un’amica, un’estensione del suo corpo. A 17 anni il suo rendimento scolastico è talmente sconfortante da spingerlo ad abbandonare gli studi. Una sera insieme ad altri amici viene fermato dalla polizia su un’auto rubata e davanti al giudice deve scegliere: o si arruola nell’esercito oppure sconta la pena in riformatorio. Il giovane Jimi entra così a far parte del corpo dei paracadutisti e viene mandato nel Kentucky, dove incontra Billy Cox, un giovane soldato con la passione per il basso che nel tempo diventerà un punto di riferimento nella sua vita. Ma Hendrix è insofferente alle regole della caserma e abbandona la carriera militare, sempre più deciso a inseguire il suo sogno di diventare un musicista professionista.
 


Inizia un viaggio che durerà più di tre anni attraverso gli Stati Uniti, suonando in locali scalcinati come session man in band di Rhythm & Blues tra cui Solomon Burke e Little Richard, ma ben presto capisce che non è roba per lui. Lui ha dentro il sacro fuoco, vuole scrivere la sua storia e la sua musica in modo personale, come mai nessuno aveva fatto prima.



 

Nel 1966 mentre suona a New York nel Cafè Wah come frontman del suo gruppo “Jimmy James and the Blue Flames”, incontra Chas Chandler, bassista degli Animals, il quale intravede in Jimi la scintilla giusta, quella che può trasformare un giovane girovago sregolato in un asso del blues. Chas convince Hendrix a seguirlo in Inghilterra per inseguire in modo più concreto il successo tanto desiderato, e Jimi non si fa pregare. I primi tempi sono irrequieti e stimolanti allo stesso tempo: Chandler si impegna a insegnargli l’arte di essere un vero frontman affiancandogli due musicisti di livello, Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria. Nasce così un power trio che farà la storia: The Jimi Hendrix Experience. Con il disco d’esordio Hey Joe e con l’album Are You Experienced, polverizzano ogni record ed arrivano dritti nel cuore della scena musicale inglese.

 



Dopo la straordinaria esibizione di Monterey del 1967, la band gira senza sosta per gli States e per l’Europa raccogliendo consensi ovunque, e Jimi vive il suo periodo di massima creatività, che sfocia nella produzione dei due album Axis: Bold as Love e Electric Ladyland. Jimi è ufficialmente una star.



Il 1968 è l’anno più intenso della sua carriera, tour interminabili e produzione ininterrotta di nuovi pezzi da dare in pasto al pubblico affamato di novità. L’anno successivo i componenti del trio, sfiniti dai tour e dagli impegni, decidono che è arrivata l’ora di sciogliersi e ad agosto Hendrix partecipa al festival di Woodstock con una nuova formazione, un esperimento di breve durata. Durante il concerto Hendrix mette in scena un pezzo che resterà nella storia del rock e nella memoria collettiva, la versione distorta dell’inno nazionale americano, accolta con clamore dall’opinione pubblica americana, sempre restia ad accettare riletture di un simbolo culturale sacro e intoccabile.
 

Dopo il Festival di Woodstock, Jimi farà una breve esperienza con la “Band of Gypsys”, e nella primavera del 1970 uscirà l’omonimo disco con la registrazione del memorabile concerto di Capodanno al Fillmore East di New York, mentre è impegnato a lavorare nei suoi nuovi innovativi studios, gli Electric Lady. A fine agosto partirà di malavoglia per il suo ultimo tour europeo, dove suonerà anche all’Isola di Wight. Poche settimane dopo, il 18 settembre, Jimi interromperà improvvisamente la sua vita terrena nel Pronto Soccorso del Saint Mary Abbot’s Hospital di Londra, per intossicazione da barbiturici.
 


Proprio la mattina di quel 18 settembre era atterrato a Londra il famoso compositore e direttore d’orchestra Gil Evans, che doveva incontrarsi con Hendrix per prendere accordi per alcune registrazioni con la sua Orchestra e per quell’inverno erano previste le session con Miles Davis.
Come scrive il critico Paolo Galori, l’ultimo Hendrix fu “un musicista solo e visionario, pronto a volare ancora più in alto, fino a bruciarsi le ali, distrutto dagli eccessi nel disperato tentativo di non replicare se stesso di fronte a chi gli chiede prove della sua divinità“.

 



Occorre però fare un passo indietro per ampliare lo sguardo oltre il dettaglio dei giorni che hanno preceduto il decesso, come hanno ben fatto Enzo Gentile e Roberto Crema nel libro “The story of life. Gli ultimi giorni di Jimi Hendrix”, con la prefazione del fratello, Leon Hendrix.



Nel libro si cerca di raccontare un Jimi meno conosciuto, meno star da spolpare da parte dei media. Il racconto mainstream di Hendrix è stato troppo spesso condito da disinformazione, pregiudizi, speculazioni tese a demonizzare un fronte artistico e culturale che, di lì a poco, avrebbe contagiato ampissime fasce di pubblico.
 


 

Si racconta di un Jimi che parla a cuore aperto, dove emerge l’aspetto umano di un giovane uomo che si vede proiettato verso un futuro imminente che non avrà tempo di vivere. Sono le affermazioni di un ragazzo di ventisette anni che confessa candidamente di volersi fermare, per ripensare e rifondare completamente la sua architettura sonora, troppo legata alla dimensione iconica che le cronache hanno puntualmente inviato da ogni latitudine, e che Jimi sente ormai come una gabbia: Hey Joe, Purple Haze, Voodoo Chile dovranno essere messi alle spalle per procedere verso territori nuovi, liberi, impronosticabili.


    «È strano il modo in cui la gente dimostra il proprio amore per chi muore. Devi morire prima che ti riconoscano qualcosa. Una volta morto sei pronto per la vita.»


Un Jimi Hendrix desideroso di cambiare pelle, di evolversi, di studiare musica, di dedicarsi alla composizione in una tranquillità che lui, sistematicamente assediato dal mondo, mai era riuscito ad avere.
Una prospettiva che urta pesantemente con la routine della rockstar maledetta a cui ci ha abituato una certa letteratura di maniera. Hendrix voleva espandere le sue conoscenze e la sua tecnica, amplificare una spiritualità capace di dialogare, attraverso la chitarra e un’intera orchestra, con chi voleva seguirlo.

 


Tutt’altro che lo schiavo del demone della droga dipinto dai media, un clichè in cui lo stesso ambiente musicale avrebbe voluto vederlo e conservarlo all’infinito. Lo spiega anche il fratello Leon che accusa il girone infernale che si era impossessato della quotidianità di suo fratello: «Jimi è stato ucciso» dice, mettendo nel mirino i manager, le agenzie, i discografici, i giornalisti, le groupies, che avevano sempre qualcosa da chiedere, pretendere, guadagnare dal lavoro e dalla musica di Hendrix.


 

La narrazione postuma di Jimi Hendrix sarà fittissima, ricca di dischi, filmati, testi, contributi, tutti tesi a dipingere un fenomeno che in realtà era capace di sfuggire ogni spiegazione logica, perché Jimi era un alieno della musica.
Jimi era un alieno del Novecento e non ci resta che prendere atto del suo avvento e del suo passaggio su questa terra, godendo delle sue opere immortali e della sua anima pura e variopinta.


Stefano Superchi


 



25 novembre 2024

Celebration: Auguri, Bernardo!

Celebration: Auguri, Bernardo!


foto: Alberto Terrile

Un’estate di circa vent’anni fa, nel periodo delle scuole medie, ricordo una serata della Fiera di Piazza Spagna nella nostra Casalma City. Tanta gente in piazza, praticamente piena. Musica, un gelato e un caldo non ancora atroce, insomma una di quelle serate estive dove si può respirare il meglio della stagione senza prendere fuoco.
Suonava un compaesano, come mi ha spiegato mio papà in quel momento e per quanto il genere mi suonasse già gradito non avevo ancora messo a fuoco granché personaggi e nomi (a parte i Pink Floyd, quelli ormai li avevo già ben chiari, e come potrebbe essere altrimenti).
Ricordo che alcune cose su tutte mi svegliano dal torpore estivo di quel momento e che mi si stampano in testa in quel complessivo gradevole sottofondo musicale: “È festa” (“Celebration”), “Impressioni di Settembre” e un curioso strumento che si suona appoggiato alla gola.

 


L’artista è il nostro Bernardo Lanzetti e il compleanno che celebriamo è il suo. Il 21 novembre per la precisione.

Se è vero che “còi ad Casalmagiùr is vànta da par lùr” (ed è vero), questo nome lo conoscono anche le pietre del listone e certamente rientra nel calderone di motivi per vantarsi. Possiamo tentare, in occasione del suo compleanno, di scovare qualche interessante curiosità nascosta, almeno per i più pischelli.

 


Il nostro ha militato nella PFM alla voce dal 1975 al 1979 sostenendo anche i tour giapponesi, ha fondato e militato negli Acqua Fragile dal 1971 al 1975, per poi ritornare nella band sui nuovi progetti a partire dal 2013.
 


Forse gli Acqua Fragile possono suonare meno impattanti della più celebre PFM. A questo proposito è interessante scoprire che dal 2012 ad oggi è intercorsa una battaglia legale (vinta finalmente) per l’utilizzo di un campionamento di traccia degli AF (per la precisione “Cosmic Mind Affair” del 1973) non accreditata nel brano “Genesis” di Busta Rhymes che dà il nome all’album omonimo del 2001. Vista l’età del rapper, classe 1972, potremmo fantasticare sul vinile degli Acqua Fragile sullo scaffale di casa del rapper, che passa alla radio dal barbiere come si vede nei film o (certamente  più realistico) che in un modo o nell’altro faccia parte del background musicale del rapper americano.

 


Questo potrebbe stupire, per quanto ami il genere ha stupito anche me sul momento. In realtà scavando un po’ non era inusuale per l’epoca. Gli Acqua Fragile d’altronde per chi non lo sapesse cantano in inglese, scelta coraggiosa che creò non pochi problemi nella distribuzione sul mercato italiano, come si apprende dallo stesso Bernardo (LINK). Si apprende anche che all’epoca di “Jet Lag” nel periodo PFM la registrazione avviene in America e l’album viene pubblicato dall’Elektra (l’etichetta che pubblicò i Doors, la butto lì).

Meraviglioso il titolo dell’articolo che trovate al link sopra ("A lezione di storia del prog con Bernardo Lanzetti"): ad ascoltare le storie che Bernardo ci potrebbe raccontare si navigherebbe nel prog italiano e si incontrerebbero anche lidi e ultra personaggi stranieri che hanno fatto la storia, credo ci si potrebbe trovare tutta una serie di Easter Eggs musicali sull’epoca. Insomma, noi di Officina Coolturale non ci tireremo certo indietro!



Parentesi autoreferenziali a parte, resta l’importanza e il vanto di un talento di questo calibro per chiunque e soprattutto per i maggiorini e casalaschi di ogni età. Citiamo infine, sempre per continuare su questo filone, la recente partecipazione di Bernardo a The Voice Senior. Ancor meglio, la partecipazione a X Factor 2024 di una concorrente con il Glovox inventato dal maestro, giustamente citato dalla stessa (LINK) (stavo seguendo e lì, giustamente, son saltata dalla sedia!).

 

Per concludere, possiamo solo rinnovare gli auguri al maestro Lanzetti, augurandoci di sentire prima o poi molte altre lezioni di prog da chi il prog lo ha fatto. E molto bene.

Gaia Beranti








Cocco Bill e i salami parlanti

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