Il Natale di Pablo
Pablo Salvador Antonini arrivò a Casalmaggiore nella notte, sotto una fitta nevicata, con uno stato d’animo che si dibatteva tra la nostalgia della terra natìa e l’apprensione per il motivo che lo spingeva qui.
Ma questa neve non era come quella che ricordava sull’argine, da bambino: fiocchi luminescenti cadevano lenti sul Po e tutto intorno, e chiunque li toccasse ne rimaneva come ustionato, proprio come era già accaduto a Buenos Aires. Una sensazione di disagio fisico e di paura, quella neve tossica di origine misteriosa da dove veniva? Era solo inquinamento o era una strategia controllata dagli oligarchi che stavano prendendo in mano il potere in tutto il mondo?
Vagando nel suo eterno salto nel tempo, Pablo aveva seguito il filo di un segnale radio gracchiante, una debole richiesta di soccorso in lingua italiana che parlava di una città di confine, stretta tra la nebbia del fiume e la tenacia della sua gente. Si ritrovò così al centro della piazza, davanti al palazzo comunale rischiarato da luci violacee intermittenti, mentre la neve velenosa imbiancava le strade e divorava il silenzio.
Camminando sulla piazza deserta notò le automobili parcheggiate disordinatamente ai lati del listone e resti di pezzi meccanici, finestre sbarrate, negozi con le vetrine spente e qualche sagoma sofferente, cristallizzata nel gesto di chiedere aiuto: a Casalmaggiore stava andando in scena la rovina che lui aveva già visto altrove. Da un portone socchiuso uscì un odore di minestra e di umanità, una mano lo invitò a entrare: era un vecchio volontario dell’Auser, con il giubbotto rifrangente e gli occhi di chi ha passato una vita a contare gli esclusi.
Nell’ex cinema Zenith, ormai abbandonato e trasformato in rifugio, Pablo trovò una quarantina di persone: senzatetto, migranti, operai licenziati, bambini con lo sguardo spento, badanti rimaste senza famiglia, tutti stretti in coperte recuperate dalle case svuotate in fretta.
Non ci fu nemmeno il tempo di saluti e formalità, Pablo cercò di spiegare loro cos’era quella neve, disegnando sul muro con un carboncino una città lontana e una guerra che non era solo contro i nuovi padroni del mondo, ma contro ogni potere che decide chi è sacrificabile e chi no.
Tutti lo ascoltavano in silenzio, riconoscendo nelle sue parole qualcosa della propria storia, ricordando i secoli in cui la città era passata di mano tra Venezia, Milano e Mantova, sempre contesa, mai del tutto padrona di sé, e si accorsero che l’invasione, per loro, non era mai finita davvero. Una ragazza che prima distribuiva volantini per il centro commerciale prese la parola al megafono e propose di fare della piazza il cuore di una resistenza diversa, non armata, ma ostinatamente solidale.
Decisero che quella notte sarebbe stato il loro “Natale dei diseredati”, non quello dei centri commerciali, delle luminarie e dei negozi aperti fino a tardi, ma quello di chi non ha più nulla da perdere se non la dignità. Alcuni uscirono con tute improvvisate, sacchi della spazzatura e vetri di plastica davanti al volto, per recuperare cibo e coperte dalle case abbandonate, mentre altri preparavano tavoli improvvisati nella sala, apparecchiando con piatti spaiati e bicchieri scheggiati. Pablo guardava quella processione disordinata e riconosceva lo stesso coraggio che aveva visto nei suoi compagni di Buenos Aires, uomini e donne comuni che trasformavano un rifugio in una piccola città libera.
Quando la mezzanotte arrivò, la radio trasmise un messaggio inatteso: altri rifugi di “scartati” si stavano organizzando nelle periferie delle grandi città, decidendo di condividere risorse invece di contendersi le briciole.
La neve continuava a cadere, ma la piazza di Casalmaggiore era ormai un’isola di luce che si irradiava dalle vetrate del vecchio cinema abbandonato.
Sulle assi usate come tavoli i bambini ridevano per un mandarino e un giocattolo recuperato, gli adulti si scambiavano storie e promesse di aiuto reciproco, nessuno si sentiva solo.
Pablo Salvador Antonini capì allora che forse non avrebbe mai smesso di viaggiare nel tempo, ma in quella notte di Natale, tra gli ultimi della riva sinistra del Po, aveva trovato ciò che cercava da sempre: un luogo in cui la resistenza non era solo combattere un impalpabile invasore, ma rifiutare l’idea che qualcuno valga meno di qualcun altro.
Stefano Superchi








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