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28 settembre 2025

GAIA'S CORNER #15 - Breakfast in America (1979) - Supertramp

 

Breakfast in America (1979)

Di dolcezza sospesa e assonnate colazioni sbrodagliose

 


 Il 6 settembre un mieloma di lunga data si porta via Rick Davies. Così, 'de bòtto, breaking news gioiose in questo settembre (che siamo quasi a ottobre in verità, la puntualità creativa non è il mio forte lo sapete).

 

Rick Davies

 

Il nome potrebbe dire poco, a meno che non siate cultori dei Supertramp, la band che fondò nel 1970 e del quale è stato tastierista, cantante e compositore.

È l’ora di riaprire le porte del Gaia’s Corner dopo il torpore estivo per celebrarne il genio creativo con il disco principe del gruppo, “Breakfast in America” e la sua cameriera in carne, emblema col suo sorriso plastico di un’America a fine anni 70 sovraccarica di stordimenti chimici e contraddizioni economiche (qualcuno ricorderà il “Sorry no gas” delle stazioni di servizio figlio di un mondo in esplosione).

 


Cosa piace di “Breakfast in America”?

Perché le prime battute di “The Logical Song”, con quel piano elettrico antologico, fanno trasalire i giovanissimi di allora che sono i sessantenni di adesso ma anche i cultori trentenni di adesso? E cosa potrebbe colpire per esempio mia figlia al primo risuonare di questo vinile sul mio giradischi e al suo primo ascolto del medesimo?

 


Tralasciando i miei trip mentali, dico la mia.

Io credo sia la sensazione di leggerezza, di “sospensione”, ma non troppo in alto, quel metro da terra. Un soft rock delicato, in tutti i suoi elementi. Se ritornassimo sulla copertina, è come immaginerei l’atto di aspettare un (imbevibile) caffè americano in un’alba di ottobre in una stazione di servizio di non so che highway, di non so che film, ad aspettare non so cosa di altro se non la sopra citata sbrodaglia.

 


Non è una narrazione tragica: non c’è climax, non c’è una nascente tensione che culmina e poi scoppia purificando chicchessia. Il ritmo corre, a volte più veloce, a volte meno, ma a condurre è il piano (nelle varie tipologie utilizzate) che “percussiona” (perdonatemi la licenza) dall’inizio alla fine di un brano. Basso sommesso che più sommesso non si può, nessun virtuosismo, qualche assolo di chitarra piccino picciò. 

Le percussioni entrano in un secondo momento e non sovrastano mai il piano, anzi rimangono delicate, rinforzano il ritmo. Se uno suonasse solo piano in una stanza potrebbe tranquillamente farle tutte così e forse nessuno si accorgerebbe della mancanza di altri strumenti. E anche lì, niente virtuosismi, linee semplici, non hanno la forma dell’assolo.

 


Molti pezzi di questo disco si prestano bene per una playlist da avviare in macchina, una su tutte “Take a long way home” (eh beh!). Perfetta per riassumere quanto raccontato finora. E i testi?

Nessun messaggio nascosto, niente cose oniriche o in codice. Il prog è lontanissimo non poi tanto nel tempo, ma negli anni 70 il ritmo è folle, tre anni valgono trenta, su tutti i fronti. Anche lì, riflessioni da alba lenta, che non sono certo sul senso della vita, ma sul rimpianto di qualche ca**ata di gioventù, che comunque non ritorna e che “si stava meglio prima”. Nessuna tensione, niente ansia, quel “eh nànu, a sèri giùvna/giùan me l’acqua”.

 


Le tracce fondamentali le conoscete: “The Logical Song” e “Breakfast in America”, “Goodbye Stranger” spesso riproposta in film di ambientazione Amarcord.

 


Interessante chiusura con “Child of Vision”, consapevole riassunto di una nostalgica amarezza che però lascia spazio alla speranza. Guarda verso il futuro con speranza, come una lezione non meglio definita da imparare, che non è più personale quanto generazionale.

 


 

“I said, Child of Vision

Won’t you listen?

Find yourself a new ambition”

 

Gaia Beranti

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