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26 agosto 2025

Centro sociale Leoncavallo. Dal rancore nascono i fiori.

Centro sociale Leoncavallo

Dal rancore nascono i fiori


 

Ad un paio di mesi da quello che sarebbe stato il cinquantesimo anniversario del Leoncavallo di Milano, il più conosciuto centro sociale d’Italia, è arrivato lo sgombero, più o meno a sorpresa. Era programmato per settembre, ma si è voluto mettere in moto una operazione muscolare di facciata da dare in pasto ad una parte di opinione pubblica che lo aspettava “con rancore”, dopo centotrentatré tentativi andati a vuoto e una lunga trattativa col Comune, che sostanzialmente è stato scavalcato dal ministero dell’Interno. Ma passiamo oltre.

 

La storia del Leoncavallo passa attraverso cinquant’anni, tre sedi, vari sgomberi e generazioni di milanesi (e non), una storia fatta di militanza politica, arte e aggregazione sociale che lo ha reso un posto frequentato e amato trasversalmente.
Nei locali della sede di via Watteau, non lontano dalla Stazione Centrale, migliaia di persone negli ultimi trent’anni hanno partecipato a feste, corsi popolari, incontri, assemblee, concerti e iniziative culturali di ogni genere, hanno fatto politica nell’accezione più ampia del termine, hanno conosciuto altre persone. Nei vent’anni precedenti le stesse cose succedevano a pochi chilometri di distanza, nella sede storica nella via che diede il nome al centro sociale.

 


Lo spazio di via Watteau, unico a Milano per dimensioni e relativa centralità, era rimasto tra i luoghi di aggregazione popolare più attivi e partecipati della città, specialmente da quando nel 2021 aveva chiuso Macao, un altro grande centro sociale nella zona est. Non si sa se e come proseguirà la storia del Leoncavallo, da tempo si parla di un possibile trasferimento in un edificio a Milano sud, quartiere Corvetto.

Il Leoncavallo nasce nell’ottobre del 1975 da alcuni collettivi provenienti da differenti esperienze politiche legate a gruppi della sinistra extraparlamentare. Viene occupata una fabbrica dismessa di prodotti farmaceutici di 3600 metri quadrati in via Leoncavallo 22, in un quartiere di storiche tradizioni operaie, un prolungamento cittadino di Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”, chiamata così per la presenza delle più importanti fabbriche del milanese e di un tessuto sociale operaio.

 


A Milano, e non solo, in quegli anni, soprattutto nelle periferie, mancavano asili, mense, consultori e altri servizi pubblici di base che questi nuovi spazi sociali (Leoncavallo ed altri centri sociali) volevano organizzare dal basso, radicandosi nei quartieri. Le prime attività che nacquero dopo la pulizia e il restauro della struttura di via Leoncavallo furono una tipografia, l’allestimento di uno spazio teatrale per alcune compagnie, una radio (attiva fino ai primi anni Ottanta), la Casa delle Donne organizzata da gruppi femministi, una scuola di falegnameria e una scuola popolare per permettere ai lavoratori delle fabbriche di conseguire la licenza media.

 



Roberto Cimino, che faceva parte del comitato che nel 1975 decise di occupare gli spazi di via Leoncavallo 22, ricorda i primi anni pionieristici: «vennero spesso a suonare Nanni Svampa, Lino Patruno, la PFM e gli Area (…), addirittura venne a suonare Franco Battiato, al tempo sconosciuto, e la serata fu un vero fiasco».

Nel 1978 purtroppo il Leoncavallo irrompe nelle cronache nazionali per l’assassinio con otto colpi di pistola, vicino al centro sociale, di due studenti, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, conosciuti come Fausto e Iaio. Anni di inchieste giudiziarie ed altre indipendenti non portarono a nessuna condanna per la loro morte, ma la pista più concreta conduceva alla destra eversiva attiva a Roma e con forti legami a Cremona, e ad alcuni nomi di esponenti neofascisti.
 



 

Due giorni prima dell’assassinio le Brigate Rosse avevano rapito Aldo Moro. Erano gli “anni di piombo”, delle bombe, dei sequestri, dei ferimenti, degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine e tra estremisti di destra e di sinistra. Anni di violenze politiche di strada e di diffusione a macchia d’olio dell’eroina, diventata un’emergenza sociale sempre più grave nelle periferie milanesi. Anni di disagio e crescente repressione che portano allo sgombero di tante realtà antagoniste, e anche il Leoncavallo, nato da un’occupazione unitaria di varie realtà, viene decimato dalle divisioni interne perdendo, tra il 1978 e il 1980, quasi tutto il vecchio gruppo di occupazione.
 


In quei primi anni Ottanta a Milano la chiusura di diversi centri sociali porta molte realtà a trovare nel Leoncavallo un luogo dove proseguire le proprie esperienze, un rimescolamento che trasforma la comunità che frequenta il Leoncavallo che diviene da lì in poi sempre più eterogenea: “vecchi” militanti, collettivi delle  “controculture giovanili”, collettivi autonomi e movimenti studenteschi.


Oltre alle attività esistenti nascono corsi di fotografia, gruppi musicali e teatrali, laboratori di pittura, un’officina, una palestra, la sala video, un centro di documentazione, e l’Helter Skelter, che per anni organizzerà concerti e altre proposte culturali ospitando gruppi, performer e artisti di livello internazionale, trasformando il centro sociale in un punto di riferimento della musica indipendente. Tra gli ’80 e i ‘90 suonano al Leoncavallo alcune band alternative di livello mondiale come Fugazi, Sonic Youth e Public Enemy, oltre ai più importanti gruppi italiani del periodo.

 



Tra questi, e qui faccio una digressione personale, i Casino Royale, un gruppo da me molto amato, che al Leoncavallo ci è nato oltre ad averci registrato un disco live il 30 novembre 2012, nel 25° anniversario della band. Un disco che ho letteralmente consumato, che non brilla certo tecnicamente per l'acustica del centro sociale, ma che è pregno di significato e di pathos. 

 


Alioscia Bisceglia, leader della band fondata a fine anni ‘80, parla del Leoncavallo: «Da adolescente era un rifugio che mi metteva al riparo da una città già molto fredda, ma cerchiamo di vivere lo sgombero come un nuovo inizio e non come una fine».

Il tuo primo ricordo?

«Avrò avuto 14 anni: i punk orfani del Virus, un altro storico centro sociale, organizzavano concerti lì, in uno scantinato denominato Helter Skelter, dove anche noi suonammo per la prima volta».

Negli anni vi siete esibiti spesso su quel palco.

«Nel nostro primo concerto sul palco principale per la scenografia dipingemmo un fondale e la scritta Casino Royale rimase stampata sul pavimento. Pensai: adesso si incazzano… Ma la pratica del fare da sé è una cosa molto milanese».

Gli spazi occupati sono stati una fucina musicale per la città.

«Era un circuito alternativo, davano una possibilità a band che non avrebbero trovato spazio».

È ancora così per i giovanissimi di oggi?

«Ho visto tanti ragazzi, magari figli dei veterani, sia ai presìdi di solidarietà che alle serate. L’interazione con le nuove generazioni è fondamentale. Non voglio vivere di ricordi, dobbiamo andare avanti. Servono spazi di aggregazione e confronto: se li lasci per la strada o alla deriva davanti a uno schermo non costruisci nulla di buono, anche se c’è a chi fa comodo che la gente sia soggiogata da bisogni indotti».

A molti i centri sociali fanno paura.

«In una società che invecchia velocemente ed è sempre più chiusa in casa, la paura è l’arma più comoda per fomentare gli animi e prendere consensi. Ogni volta che hanno attaccato il Leoncavallo c’è stata una reazione che ha ricompattato una fetta di società; noi, da esterni, possiamo contribuire in base alle nostre esperienze. Ma sono stati forniti spazi a soggetti che hanno fatto e rappresentato un centesimo, rispetto al Leoncavallo: questa è un’evidenza. Già 40 anni fa Daniele Farina, attuale portavoce del Leo, parlava di come il futuro di Milano si giocasse proprio sulle aree dismesse. È un bene riflettere anche su temi che vadano oltre la musica e l’intrattenimento».

 



E torniamo a raccontare la storia, ricollegandoci proprio al tema delle aree dismesse. Dal 1980 il gruppo immobiliare proprietario dello stabile dove si trova il Leoncavallo cerca di riottenerne l’utilizzo, vince un ricorso al TAR e al Consiglio di Stato per poi vendere l’area alla famiglia Cabassi (storici immobiliaristi milanesi) nel 1989. Cabassi ottiene dal Sindaco socialista Pillitteri la decisione dello sgombero, a cui gli occupanti oppongono una dura resistenza seguita da violenti scontri, l’inizio della demolizione del centro, la rioccupazione e la ricostruzione. Nel 1994 il Sindaco leghista Formentini riesce ad ottenere lo sgombero e al centro sociale viene assegnata provvisoriamente la sede di via Salomone, periferia sudest, sgomberata improvvisamente il 9 agosto dello stesso anno. Un mese dopo viene occupata l’ex cartiera di via Watteau, zona Greco, sempre di proprietà della famiglia Cabassi, che è rimasta la sede del centro sociale fino a qualche giorno fa.

 


Nella nuova sede si prosegue con le attività che già esistevano, aggiungendo un laboratorio di serigrafia, una ciclofficina, uno spazio per sviluppatori indipendenti di videogiochi, una scuola popolare di italiano, un laboratorio teatrale, fiere gastronomiche, le feste della semina e del raccolto, dedicate alla sensibilizzazione per la legalizzazione della marijuana. Mensilmente si organizzano serate di techno, dub, reggae, concerti jazz, presentazioni di libri e proiezioni di film.

 


I sotterranei sono occupati da DaunTaun, dove nel 2003 si è tenuto il primo evento pubblico di street art in Italia, con contributi che si sono poi susseguiti negli anni e sono sottoposti a tutela della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per la Città Metropolitana di Milano.

 


Nel 2006 Vittorio Sgarbi, storico dell'arte e all'epoca assessore alla cultura del Comune di Milano, non sospettabile di certo di avere simpatie politiche per il Leoncavallo, definì questi sotterranei "La Cappella Sistina contemporanea", annunciando il desiderio di farne un museo.


 

Ma perché allora il Leoncavallo dà così fastidio? Forse perché, a prescindere dall’estrazione politica dei suoi attivisti, è un posto in cui si può passare la serata anche senza spendere nulla, un concetto che stride con il contesto della Milano instagrammabile, dove la maggior parte delle forme di intrattenimento sono sempre più costose ed escludono le fasce più povere della cittadinanza.

Stefano Superchi

 







Tanto per capire cosa sperano di eliminare:

 
Il Leoncavallo è un famoso locale storico di Milano, noto per essere uno dei più importanti centri culturali e sociali della città. Situato nel quartiere di Porta Venezia, nasce negli anni '70 ad opera di un gruppo di giovani che la trasformano in un centro sociale, spazio autonomo e autogestito per la cultura e la socialità.
Il Leoncavallo negli anni ha ospitato concerti, spettacoli teatrali, mostre d'arte e tante altre attività e in quegli anni fu un importante punto di riferimento per il movimento alternativo e controculturale milanese degli anni '70 e '80 per divenire la sede di iniziative culturali di alto livello.

 


Il Leoncavallo ospita regolarmente concerti di musica dal vivo, con artisti di vari generi musicali, spettacoli teatrali, performance artistiche, mostre d'arte e esposizioni di artisti locali e internazionali.
Da non dimenticare che il Leonka è anche un importante punto di riferimento per le attività sociali e di solidarietà, come ad esempio la distribuzione di cibo e abbigliamento per le persone in difficoltà.

 



Questo meraviglioso simbolo della cultura alternativa milanese continuerà ad essere un punto di riferimento per la città.

La cultura nasce dove ci sono scambio, movimento di idee, confronto e dialogo. Può nascere in un circolo letterario, in un parco, in una biblioteca, in un cinema, in un bar, in un museo o per la strada.

A Milano, tanta cultura è nata e passata anche dal Leoncavallo. Il tipo di luogo conta poco: quello che conta è che, sgomberandolo, si è tentato di spegnere lo scambio, le idee in movimento, il confronto e il dialogo.

 


 

Proteggere questi spazi significa difendere la possibilità stessa di far nascere cultura. Ma coloro che sperano di avere ucciso tutto questo forse non sanno che a fare il Leoncavallo e simili sono le persone non un immobile.

La sede rimarrà vuota e forse verrà lasciata andare al degrado, oppure verrà trasformata in un anonimo blocco di cemento intriso di falsa modernità, ma il fermento e le idee che lo hanno animato continueranno a correre per Milano e non solo.

 


 Claudio Bisio, in una intervista rilasciata in questi giorni, spiega il suo legame con il Leoncavallo:

 “Ci sono cresciuto dentro e ricordo tutto benissimo fin dal 1975, la prima sede che era in via Leoncavallo, al Casoretto, che era il mio quartiere“. Bisio commenta lo sgombero del centro sociale avvenuto lo scorso 21 agosto “una prova di forza, con tutti quei poliziotti, e nessuno dentro. Fa ridere e fa piangere“.
Bisio auspica che il Comune di Milano, di cui il sindaco Beppe Sala a stretto giro dall’operazione ha riferito di non essere mai stato avvisato, “si stia attivando per non far morire il Leoncavallo. La cultura è un investimento, ci sono altre esperienze in Italia che dimostrano l’impegno delle amministrazioni in questo senso“.

Il suo ricordo va indietro nel tempo fino alla sua prima visita nella sede iniziale in via Leoncavallo, dove è il centro sociale è stato fondato nel 1975. “C’era la musica, c’era il teatro, le manifestazioni".
 


 

Ricorda anche che al Leoncavallo ha scoperto la sua passione per la recitazione, “ma non il teatro classico, alla Gassman. Quel teatro nuovo… e parlo degli anni in cui Dario Fo era ancora in via Colletta“. Racconta che al centro sociale ha imparato che “la creatività e l’arte non vengono sempre dall’alto, e che le opere non nascono solo nei palazzi dei re. Perché le vie dell’arte sono infinite, e se c’è gente civile che fa cose belle, spontaneamente, perché tarpargli le ali?“.

Ed è proprio in quest’ottica che il Leoncavallo, secondo Bisio, “è sempre stato una factory, ha ospitato artisti, organizzato eventi, prodotto cose belle, e se ci sono stati accenni di violenza, è sempre successo per gli sgomberi“. Il ministro Giuli dovrebbe andare a vedere cos’è quel posto“

Giovanna Anversa 

 

 


 

16 agosto 2025

Per sempre Ozzy. (Gaia's corner ghost track)

 Per sempre Ozzy

Ovvero: se conosci Ozzy, forse è per le ragioni sbagliate (o quasi)

 



"A' generosi, giusta di glorie dispensiera è Morte” diceva il buon Foscolo. Se vogliamo essere meno aulici, vale sempre che quando un tizio famoso ci lascia, via che si corre a postare o celebrare senza averlo mai cunato prima.

 

Ugo Foscolo


L’hai fatto anche tu?
Bene, anche se non è il tuo caso, è comunque giunto il momento di grattare un po’ sotto la crosta del conosciuto per celebrare la dipartita del Principe delle Tenebre, il caro Ozzy Osbourne.

 



Ora. Che guidava i Black Sabbath lo sanno anche gli stoppini delle sedie. Che i Black Sabbath sono dei dinosauri del metal, pure. Che veniva definito “Principe delle Tenebre” anche.
Sicuramente una cosa figa, come operazione di marketing e di ineccepibile valore. D’altronde, se non sei un chilo completo, se ti sei bollito con la droga e così carburato ti sei macchiato di tutta una serie di fatti non meravigliosi vedi testa di pipistrello staccata a morsi o formiche sniffate o gatti “sparati”, direi che il tuo titolo è più che guadagnato.
A tratti, personaggi di questo tipo fanno anche una discreta paura, se in odore di satanismo poi.
Ma siamo sicuri che il temuto non sia quello che teme?




Vi racconto una storia. Provate a seguirmi con l’immaginazione, vi anticipo che potrebbe non essere proprio divertentissimo ma vedrò di stemperare con qualche ca*ata.

Nasci nei sobborghi di Birmingham, quarto di sei figli. Fate una fatica bestia a sbarcare il lunario, quindi una torta divisa in otto parti è ben misera.
Sei dislessico e balbuziente e con un gravissimo deficit dell’attenzione a fine anni 50. Ti sarai preso una trafila di bacchettate a scuola e schiaffoni a casa perché, fondamentalmente, sei scemo tuo malgrado, così dicono.
Il tuo nome, Ozzy, non è una trovata pubblicitaria. Te l’hanno dato a quei tempi perché sei talmente impedito da non riuscire a pronunciare bene nemmeno il tuo cognome, Osbourne: ti inceppi su quella maledetta prima sillaba e magicamente suona proprio così, Ozzy.
 

 


Non sei nemmeno particolarmente portato per i lavori manuali, ne provi un sacco ma tutto finisce male. Però hai fame, dunque che fare? Rubi. E neanche a dirlo, sei una pippa anche lì, ti beccano perché il televisore che hai tentato di fregare ti casca addosso.
Però, una cosa ti appassiona, la musica. I Beatles in particolare, ma non solo. Negli anni 60 c’è anche un chitarrista inglese nero che spacca, direi.
 

 


Tuo padre non ama i tuoi miti, ma fa una cosa che cambierà per sempre il tuo destino: ti fa un prestito e compri un amplificatore. Perché Ozzy come cantante a Birmingham non è una gran cosa, chi mai suonerebbe con te, visto il pregresso. Però, con un’amplificazione tua, la storia cambia, hai qualcosa da offrire. Convinci alcuni ragazzotti, tra i quali quel Tony Iommi che ti prendeva in giro a scuola.  Inizialmente fate blues, poi anche rock, non sapete neanche voi cosa fate. Ma scoprite di avere tutti una passione per l’occulto, la magia, il sinistro. Vi cambiate il nome in Black Sabbath, il vostro rock diventa cupo, sinistro, inserite dei tritoni, e tu Ozzy hai questa voce sgraziata che, nel complesso del sound, risulta spettrale, quindi PERFETTA. Arriva il successo, più di quanto potresti mai immaginare.
 

 

Ma hai un tarlo dentro.
Anni di insicurezze, di paure forse, hanno scavato per bene. E in quel buco quale contenuto migliore inserire se non droga e alcol. D’altronde sei un artista nei primi anni 70, nessuna delle due cose manca, anzi. Siete tutti fuori, ma tu un po’ di più. E dopo qualche album che diventa da manuale (“Paranoid”, ”Black Sabbath”, “Master of Reality”) e l’aver passato il segno che separa la creatività potenziata dagli eccessi agli eccessi che ti depotenziano, la tua stessa band ti butta fuori.

 

 

 


Tu non sai fare altro nella vita, se non fare musica con la tua band. Fa male, malissimo. Ergo, imbocchi l’autostrada dell’abisso.
Riappare una luce, forse più di una. Sposi Sharon, la persona che più di chiunque altro sa capirti e consigliarti (anche salvarti, di sicuro sopportarti).

 


Poi l’incontro con un giovanissimo strimpellatore folle, tale Randy Rhoads. Sa capirti, sa cosa e come suonare per accompagnarti, vi stimolate a vicenda. La tua carriera solista esplode, via con “Blizzard of Ozz” e “Diary of a Madman”, un trionfo. Ma il tuo amico Randy muore in un incidente senza senso.
 


 


 

Altro buco nero, il peggiore, il più vasto.
Da lì, almeno vent’anni di pazienza e amore di Sharon per disintossicarsi definitivamente e, dopo anni, riconciliarsi perfino con la tua band. La salute ahimè ti chiede il conto di anni di eccessi, Parkinson e altre brutture, ma chissenefrega. Se pur tremolante e affaticato, chiudi la tua carriera con un maestoso concerto a Birmingham con i tuoi soci, con altre superstar del genere che tu stesso hai contribuito a creare, davanti a milioni di metallari tatoni in lacrime (se non vi sono venuti i brividi davanti alla cover di “Changes”, avete il famoso bidone del rudo al posto del cuore), devolvendo 190 milioni di dollari in beneficienza. E 17 giorni dopo, senza che nessuno fosse davvero pronto, lasci in punta di piedi questa valle di lacrime.

 


Per tirare le somme, siete ancora convinti che le tenebre di Osbourne fossero quelle di Satana? Nessuna santificazione o giustificazione, anzi il contrario. Totale assenza di mistificazione, negativa o positiva. Svestire un artista di tutto il clamore mediatico di pipistrelli morti, diavolerie, atti criminali e riconoscere solo un uomo che ha attraversato oceani di tenebra interiore, che non ha osannato l’inferno ma ci ha vissuto dentro.
Nient’altro che un “mad man”, appunto.

Rest in peace, Ozzy.

Gaia Beranti


L'omaggio della Guardia Reale inglese ad Ozzy

13 agosto 2025

Sagre paesane, Perito Ruràl, sardine atlantiche ed altre storie: il Maestro Guido

 Sagre paesane, Perito Ruràl, sardine atlantiche ed altre storie: il Maestro Guido

 

foto di Dante Tassi
 

Guido Rubini, il maestro che insegna ai bambini a sviluppare la fantasia e a conservare purezza e umanità è anche un artista poliedrico che si muove con abilità nella pittura, nella scultura, nella scrittura, nella regia e nella musica; ed è proprio della sua abilità musicale che vogliamo parlare, abilità che svolge anche assieme ai suoi bambini facendo loro conoscere il cantautorato di qualità e la magia che esplode toccando uno strumento. 

Guido è membro di un gruppo di musicisti che allietano ogni luogo in cui si esibiscono con una musica semplice e raffinata al tempo stesso.




l "Perito Ruràl" nascono nel 2020 quando i "Perito per Aria" si sciolgono perché alcuni componenti del gruppo non hanno più il tempo di portare avanti gli impegni che un gruppo musicale implica. Ma Lorenzo Martelli e il maestro Guido non mollano e decidono di continuare il loro percorso e di portare ancora in giro le canzoni dei Perito per Aria allargando il repertorio con nuovi brani un po' meno graffianti ma senza perdere la caratteristica di un sound popolare e testi che raccontano di una comunità rurale.

Lorenzo principalmente percussionista, inizia ad applicarsi con la fisarmonica e nel giro di un anno e mezzo è già in grado di accompagnare i pezzi. Sarà una new entry di tutto rispetto a dare definitiva identità al duo che a quel punto diventa trio: Alevtina Matveeva, una grande musicista che accetta di dare pregio alla musica dei Perito Ruràl col suo violoncello.

 


Le canzoni prevalentemente scritte da Guido e dall'ex frontman Fiorenzo, si presentano in forma più raffinata senza però perdere il mordente originario, mentre chitarra, fisarmonica, percussioni e violoncello fanno da accompagnamento. Il trio si propone in contesti semplici e non troppo grandi: osterie, piccoli locali, teatrini di paese o situazioni all'aperto non troppo ampie che richiederebbero un service. Nei progetti futuri l'idea di un nuovo album ponendo grande cura agli arrangiamenti e con l'intento di non disperdere un patrimonio di più di cinquanta pezzi, canzoni spesso in gergo dialettale che raccontano la realtà e la storia di un territorio a cui tutti noi apparteniamo.

 


La scelta del nome Perito Ruràl viene dal non volere lasciare l'identità originaria mantenendo la parola Perito, abbinata a Ruràl, in quanto la loro musica è una fotografia della nostra civiltà contadina com'era una volta. Nulla di nostalgico bensì un sguardo al passato pensando al futuro. L'agricoltura  è un aspetto fondamentale dell'economia locale, lo è sempre stata ma purtroppo oggi, tolte alcune eccellenze, è diventata un disastro: veleni, diserbanti, coltivazioni e allevamenti intensivi.

"Non vogliamo assolutamente adeguarci a questo cambiamento, e nemmeno proporre qualcosa di nostalgico tout court, il nostro intento è quello di raccontare una visione della ruralità fondata su un'etica ecologica tesa a salvaguardare la natura, l'aria, la terra e l'acqua da tutti i veleni e da una distruzione ecologica inevitabile se non si comincia a fare seriamente qualcosa. Mi sento di dire che la nostra musica, oltre ad intrattenere, è una lotta contro una agricoltura che non pensa più al benessere dei consumatori ma ad allargare i profitti con ogni mezzo senza curarsi di avvelenare intere aree rurali"

Giovanna Anversa

foto di Dante Tassi

 

Nel mio immaginario Guido Rubini è sempre stato il “Maestro Guido”. Senza cognome. Non ho mai avuto il piacere di conoscerlo pesonalmente ma ne ho sempre sentito parlare, tanti anni fa, dalla mia amica Annise, ai tempi pionieristici del gruppo di teatro Genitori Instabili e, più recentemente, dalla mia amica Giovanna, in occasione della presentazione del libro “Spumetta”.
Del resto la sua fama di artista a tutto tondo, non elitario, lo precede. Pittore, scultore, scrittore, cantautore, attore, ma soprattutto maestro.
Questo articolo nasce in maniera un po’ casuale, come del resto tanti altri articoli del nostro blog. Giovanna mi manda un video e mi scrive “qui bisogna fare qualcosa, assolutamente”.
Guido, con lo sfondo dei suoi quadri, canta un ode alla Sàgra ad Sacavrèra, la sagra di Fossacaprara.

 



E qui si apre il primo sportellino nella mia testa: la sagra di Fossacaprara è rimasta quasi un unicum nel panorama delle feste di paese, forse l’unica dove si può piacevolmente parlare a tavola senza sottofondo musicale. Una festa che coinvolge un paese intero e anche rinforzi dai paesi vicini, grazie alla associazione Oltrefossa, che ha recuperato senza scadere nella nostalgia tante tradizioni culinarie - dagli gnocchi “a la mulinèra” dalla ricetta della Teresina (una istituzione di Fossacaprara) alla trippa nella scodella ed altre prelibatezze d’antan - e ludiche, il battichiodo, l’invìdo, il Palio e sbürla la rôda (la corsa con le rotoballe, per chi non mastica il dialetto locale), la gara delle caprette a dondolo, il tiro alla fune, il palo del salame sul campanile, il pescabottiglia, le piastre e qualcos’altro che sicuramente mi sarò scordato.

 

la Teresina




Un tuffo nel passato ma con un pubblico trasversale, che negli anni si è stretto attorno a questo appuntamento di fine agosto che si svolge nel prato attorno alla chiesa di San Lorenzo. Ricordo che la prima edizione della festa, 25 anni fa, alla quale fui invitato da Annise, che a Fossacaprara ci abitava e collaborava con Oltrefossa, si svolse dentro ed attorno alla scuola elementare ormai dismessa, poi successivamente abbattuta.

 



Passa qualche giorno e arriva un secondo video, stesso sfondo, stesso autore.
Si tratta di un brano inedito, composto nel 2024: “Al cuspatòn”. Qui bisogna fare un passo indietro per spiegare questo termine dialettale ormai desueto.
Il “cuspatòn” è un pesce, una sardina atlantica, da non confondere con l’aringa (la saràca), anche se a occhio sono molto simili, quasi intercambiabili, ma non siamo qua per fare un trattato ittico.

 


Ai tempi della miseria nera, perché c’è stato un tempo in cui nella valle padana c’era la miseria nera, il suddetto pesce veniva conservato, affumicato o marinato sotto sale e successivamente fatto penzolare sul tavolo da una corda fissata con un chiodo piantato sulla trave del soffitto. I commensali, ognuno con la propria fetta di polenta in mano, con un preciso rituale, aspettavano il loro turno per intingere (anche se “pucciare” rende meglio l’idea) la polenta sul “cuspatòn” in modo che si insaporisse per bene.

 



Una scena fissata nella storia del cinema nel film “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, che racconta la vita delle famiglie povere contadine in una cascina della bassa bergamasca. Una scena fissata nella mia mente dai racconti che mi faceva mio nonno Giàno, testimonianza diretta dei miei avi che la miseria l’hanno vissuta per anni, che custodisco con cura per ricordarmi sempre da dove vengo e che ho ritrovato nel testo scritto dal Maestro Guido.
Una storia che sembra così lontana, ma che, se sappiamo guardare con attenzione appena fuori dalla nostra gabbia di benessere, ritroviamo quotidianamente vicino a noi, come ci ricorda Guido in un passaggio (“mangiòm sènsa religiòn, ma a ghè amò chi fa la fàm”).

Stefano Superchi





09 agosto 2025

Gianni Berengo Gardin, il fotografo che ha fatto dell’occhio un mestiere

 Gianni Berengo Gardin,

il fotografo che ha fatto dell’occhio un mestiere


In oltre settant’anni di carriera ha documentato la società, entrando in fabbriche, ospedali psichiatrici, cantieri, sempre devoto alla verità dello scatto. Ci lascia all’età di 94 anni.

 


“Sono solo un testimone di quello che vedo. Cerco di essere il più obiettivo possibile, fotografando la realtà. Per me l’importanza della fotografia è la documentazione, la testimonianza, come eravamo in quel momento.” 

L'arte della fotografia pur riconoscendone il grande valore, non è tra le forme d'arte che io amo di più. Le foto di Gianni Berengo Gardin a differenza di tante altre, seppur opera di grandi fotografi, sono le uniche che sempre mi hanno fatto girare la testa e bloccare lo sguardo su di esse. Tanto si può dire di questo gigante dello scatto, ma quello che ha colpito me è la capacità, quale che fosse il contesto che immortalava, di catturare e restituire all'occhio di chi osserva solo e soltanto la verità.

Giovanna Anversa 

 



“Il mio lavoro non è assolutamente artistico e non ci tengo a passare per un artista, l’impegno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma sociale e civile”.

Così si definiva Gianni Berengo Gardin, fotografo artigiano con l’esigenza e la capacità di raccontare il suo tempo con lo sguardo attento, consolidato in settant’anni di carriera.



Classe 1930, nato il 10 ottobre a Santa Margherita Ligure, Berengo Gardin scompare all’età di 94 anni, maestro indiscusso del bianco e nero applicato alla fotografia di reportage e di indagine sociale, dal dopoguerra in poi.



La fotografia per lui è stata, innanzitutto, un lavoro di documentazione, pur senza mai rinunciare al filtro dell’ironia e ai dettagli spiazzanti nella composizione. Al  centro della scena sempre l’uomo che abita uno spazio sociale, arricchita dalla descrizione del contesto, dei fatti della collettività.
 


Inizia a fotografare nel 1954, scegliendo come base la città di Milano, dove apre il suo studio, luogo di riflessione ed elaborazione. Il periodo di formazione, dopo una breve parentesi parigina con di Doisneau, lo trascorre a Venezia, città a cui sente di appartenere (per discendenza paterna): in Laguna si avvicina fin da subito al circolo fotografico La Gondola e a Venezia tornerà a più riprese, passando per la contestazione alla Biennale del 1968, fino al progetto sulle grandi navi datato 2013.

 



A Milano la sua carriera decolla, collabora con numerose riviste tra cui Il Mondo di Mario Pannunzio (tra il 1954 e il 1965, con oltre 260 fotografie pubblicate) e le maggiori testate giornalistiche italiane e straniere come Epoca, Domus, Time, Le Figaro, Stern. L’approccio alla poetica del fotoreportage è mediato, all’inizio degli Anni Sessanta, da un contatto con Cornell Capa (fratello di Robert), che gli fornisce alcuni libri dei fotografi delle agenzie Life e Magnum. Ma il suo lavoro, scrupoloso e attento alla vita quotidiana, sarà molto richiesto anche nel mercato della comunicazione d’immagine.



Fotografo eclettico, apprezzato a livello internazionale, e' stato spesso accostato a Henri Cartier-Bresson per il lirismo della sua fotografia. Ma e' lui stesso a negare questo accostamento, pur ribadendo il rispetto per Bresson : "Mi dicono spesso che sono il Cartier-Bresson italiano, in realtà sono il Willy Ronis italiano, anche se una delle cose di cui più mi vanto è la dedica in cui Henri Cartier-Bresson mi scrive: “A Gianni Berengo Gardin con simpatia e ammirazione”. Avere l’ammirazione di Cartier-Bresson è il massimo, poi si può morire in pace".




I numeri della sua attività espositiva ed editoriale sono importanti, oltre trecento mostre personali in Italia e all’estero, si è dedicato per tutta la vita alla realizzazione di libri fotografici, collaborando anche con altri grandi autori del suo tempo, da Basilico a Scianna. Nei suoi oltre 250 volumi emerge l’interesse per l’indagine sociale. Dal 1966 al 1983, in collaborazione con il Touring Club, pubblica una serie sull’Italia e sui Paesi europei.



 

Del ’68 è invece il volume Morire di classe, uno dei lavori più forti, decisi e importanti della storia del fotogiornalismo italiano, un reportage sui manicomi italiani che dette risalto alla battaglia combattuta a quel tempo da Franco Basaglia.  Quella documentazione, condotta da Berengo Gardin insieme a Carla Cerati  fu per l’Italia un vero choc. La fotografia entrava di prepotenza all’interno di strutture proverbialmente chiuse e faceva luce sulle situazioni che fino a quel momento non dovevano essere mostrate. 

 





 

“Si era nel Sessantotto. Franco Basaglia si batteva per la chiusura dei manicomi e insieme a Carla Cerati, fotografa milanese, avevamo realizzato delle fotografie per L’Espresso sui manicomi. Vedendole, Basaglia rimase allibito. Si trattava di fotografie mai viste prima in Italia. Così, abbiamo deciso di farne un libro, Morire di classe, che, con l’aggiunta di testi di Basaglia, ha fatto conoscere all’Italia le condizioni tragiche di questi malati.”



Ma Berengo Gardin ha toccato anche il problema legato al passaggio delle grandi navi nella sua amata Venezia, che lo hanno portato al centro di un aspra polemica con il sindaco della Serenissima.



Tra i lavori più significativi dell’attività di foto-giornalismo di Berengo Gardin bisogna ricordare i reportage dai luoghi del lavoro, realizzati per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli e, soprattutto, Olivetti (con cui collaborò per 15 anni).

 


Sarà il fotografo delle lotte operaie, dell’emarginazione e della diversità (ricorrente l’interesse per la cultura Rom), ma anche ritrattista di talento, fotografando amici celebri come Dario Fo, Ettore Sottsass e Ugo Mulas.

 




Fu un curioso esploratore del territorio, dai borghi rurali alle risaie della Pianura Padana, alle grandi città. Applicherà la sua capacità documentaristica anche agli scatti di cantiere, per Renzo Piano, con cui ha sviluppato una lunga collaborazione, o durante la realizzazione del MAXXI a Roma.




Anche le fotografie di baci per cui e' famoso, hanno in realta' un retroscena che svela  la volontà di analizzare un fenomeno sociale: "Quando ero giovane in Italia era proibito baciarsi in pubblico, ti potevano arrestare per oltraggio al pudore. Così, quando sono arrivato a Parigi, dove tutti si baciavano continuamente, sono diventato un guardone. Mi sembrava così strano che la gente potesse baciarsi dovunque: in strada, in autobus, in treno, che ero invidioso e avido di rubare queste fotografie di baci e la sensibilità per i baci mi è un po’ rimasta attaccata, come se fosse ancora proibito farlo in pubblico. Ma l’idea romantica del bacio rubato, mi è comunque rimasta, come una volta, quando i baci si rubavano e questo mi interessava moltissimo”.




Nel suo sconfinato catalogo anche gli scatti che documentarono L’Aquila ferita dal terremoto.



Perché l’occhio di Gianni Berengo Gardin, quando era necessaria una testimonianza diretta, è sempre stato presente.

Stefano Superchi




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