Gianni Berengo Gardin,
il fotografo che ha fatto dell’occhio un mestiere
In oltre settant’anni di carriera ha documentato la società, entrando in fabbriche, ospedali psichiatrici, cantieri, sempre devoto alla verità dello scatto. Ci lascia all’età di 94 anni.
“Sono solo un testimone di quello che vedo. Cerco di essere il più obiettivo possibile, fotografando la realtà. Per me l’importanza della fotografia è la documentazione, la testimonianza, come eravamo in quel momento.”
L'arte della fotografia pur riconoscendone il grande valore, non è tra le forme d'arte che io amo di più. Le foto di Gianni Berengo Gardin a differenza di tante altre, seppur opera di grandi fotografi, sono le uniche che sempre mi hanno fatto girare la testa e bloccare lo sguardo su di esse. Tanto si può dire di questo gigante dello scatto, ma quello che ha colpito me è la capacità, quale che fosse il contesto che immortalava, di catturare e restituire all'occhio di chi osserva solo e soltanto la verità.
Giovanna Anversa
“Il mio lavoro non è assolutamente artistico e non ci tengo a passare per un artista, l’impegno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma sociale e civile”.
Così si definiva Gianni Berengo Gardin, fotografo artigiano con l’esigenza e la capacità di raccontare il suo tempo con lo sguardo attento, consolidato in settant’anni di carriera.
Classe 1930, nato il 10 ottobre a Santa Margherita Ligure, Berengo Gardin scompare all’età di 94 anni, maestro indiscusso del bianco e nero applicato alla fotografia di reportage e di indagine sociale, dal dopoguerra in poi.
La fotografia per lui è stata, innanzitutto, un lavoro di documentazione, pur senza mai rinunciare al filtro dell’ironia e ai dettagli spiazzanti nella composizione. Al centro della scena sempre l’uomo che abita uno spazio sociale, arricchita dalla descrizione del contesto, dei fatti della collettività.
Inizia a fotografare nel 1954, scegliendo come base la città di Milano, dove apre il suo studio, luogo di riflessione ed elaborazione. Il periodo di formazione, dopo una breve parentesi parigina con di Doisneau, lo trascorre a Venezia, città a cui sente di appartenere (per discendenza paterna): in Laguna si avvicina fin da subito al circolo fotografico La Gondola e a Venezia tornerà a più riprese, passando per la contestazione alla Biennale del 1968, fino al progetto sulle grandi navi datato 2013.
A Milano la sua carriera decolla, collabora con numerose riviste tra cui Il Mondo di Mario Pannunzio (tra il 1954 e il 1965, con oltre 260 fotografie pubblicate) e le maggiori testate giornalistiche italiane e straniere come Epoca, Domus, Time, Le Figaro, Stern. L’approccio alla poetica del fotoreportage è mediato, all’inizio degli Anni Sessanta, da un contatto con Cornell Capa (fratello di Robert), che gli fornisce alcuni libri dei fotografi delle agenzie Life e Magnum. Ma il suo lavoro, scrupoloso e attento alla vita quotidiana, sarà molto richiesto anche nel mercato della comunicazione d’immagine.
Fotografo eclettico, apprezzato a livello internazionale, e' stato spesso accostato a Henri Cartier-Bresson per il lirismo della sua fotografia. Ma e' lui stesso a negare questo accostamento, pur ribadendo il rispetto per Bresson : "Mi dicono spesso che sono il Cartier-Bresson italiano, in realtà sono il Willy Ronis italiano, anche se una delle cose di cui più mi vanto è la dedica in cui Henri Cartier-Bresson mi scrive: “A Gianni Berengo Gardin con simpatia e ammirazione”. Avere l’ammirazione di Cartier-Bresson è il massimo, poi si può morire in pace".
I numeri della sua attività espositiva ed editoriale sono importanti, oltre trecento mostre personali in Italia e all’estero, si è dedicato per tutta la vita alla realizzazione di libri fotografici, collaborando anche con altri grandi autori del suo tempo, da Basilico a Scianna. Nei suoi oltre 250 volumi emerge l’interesse per l’indagine sociale. Dal 1966 al 1983, in collaborazione con il Touring Club, pubblica una serie sull’Italia e sui Paesi europei.
Del ’68 è invece il volume Morire di classe, uno dei lavori più forti, decisi e importanti della storia del fotogiornalismo italiano, un reportage sui manicomi italiani che dette risalto alla battaglia combattuta a quel tempo da Franco Basaglia. Quella documentazione, condotta da Berengo Gardin insieme a Carla Cerati fu per l’Italia un vero choc. La fotografia entrava di prepotenza all’interno di strutture proverbialmente chiuse e faceva luce sulle situazioni che fino a quel momento non dovevano essere mostrate.
“Si era nel Sessantotto. Franco Basaglia si batteva per la chiusura dei manicomi e insieme a Carla Cerati, fotografa milanese, avevamo realizzato delle fotografie per L’Espresso sui manicomi. Vedendole, Basaglia rimase allibito. Si trattava di fotografie mai viste prima in Italia. Così, abbiamo deciso di farne un libro, Morire di classe, che, con l’aggiunta di testi di Basaglia, ha fatto conoscere all’Italia le condizioni tragiche di questi malati.”
Ma Berengo Gardin ha toccato anche il problema legato al passaggio delle grandi navi nella sua amata Venezia, che lo hanno portato al centro di un aspra polemica con il sindaco della Serenissima.
Tra i lavori più significativi dell’attività di foto-giornalismo di Berengo Gardin bisogna ricordare i reportage dai luoghi del lavoro, realizzati per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli e, soprattutto, Olivetti (con cui collaborò per 15 anni).
Sarà il fotografo delle lotte operaie, dell’emarginazione e della diversità (ricorrente l’interesse per la cultura Rom), ma anche ritrattista di talento, fotografando amici celebri come Dario Fo, Ettore Sottsass e Ugo Mulas.
Fu un curioso esploratore del territorio, dai borghi rurali alle risaie della Pianura Padana, alle grandi città. Applicherà la sua capacità documentaristica anche agli scatti di cantiere, per Renzo Piano, con cui ha sviluppato una lunga collaborazione, o durante la realizzazione del MAXXI a Roma.
Anche le fotografie di baci per cui e' famoso, hanno in realta' un retroscena che svela la volontà di analizzare un fenomeno sociale: "Quando ero giovane in Italia era proibito baciarsi in pubblico, ti potevano arrestare per oltraggio al pudore. Così, quando sono arrivato a Parigi, dove tutti si baciavano continuamente, sono diventato un guardone. Mi sembrava così strano che la gente potesse baciarsi dovunque: in strada, in autobus, in treno, che ero invidioso e avido di rubare queste fotografie di baci e la sensibilità per i baci mi è un po’ rimasta attaccata, come se fosse ancora proibito farlo in pubblico. Ma l’idea romantica del bacio rubato, mi è comunque rimasta, come una volta, quando i baci si rubavano e questo mi interessava moltissimo”.
Nel suo sconfinato catalogo anche gli scatti che documentarono L’Aquila ferita dal terremoto.
Perché l’occhio di Gianni Berengo Gardin, quando era necessaria una testimonianza diretta, è sempre stato presente.
Stefano Superchi
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