Centro sociale Leoncavallo
Dal rancore nascono i fiori
Ad un paio di mesi da quello che sarebbe stato il cinquantesimo anniversario del Leoncavallo di Milano, il più conosciuto centro sociale d’Italia, è arrivato lo sgombero, più o meno a sorpresa. Era programmato per settembre, ma si è voluto mettere in moto una operazione muscolare di facciata da dare in pasto ad una parte di opinione pubblica che lo aspettava “con rancore”, dopo centotrentatré tentativi andati a vuoto e una lunga trattativa col Comune, che sostanzialmente è stato scavalcato dal ministero dell’Interno. Ma passiamo oltre.
La storia del Leoncavallo passa attraverso cinquant’anni, tre sedi, vari sgomberi e generazioni di milanesi (e non), una storia fatta di militanza politica, arte e aggregazione sociale che lo ha reso un posto frequentato e amato trasversalmente.
Nei locali della sede di via Watteau, non lontano dalla Stazione Centrale, migliaia di persone negli ultimi trent’anni hanno partecipato a feste, corsi popolari, incontri, assemblee, concerti e iniziative culturali di ogni genere, hanno fatto politica nell’accezione più ampia del termine, hanno conosciuto altre persone. Nei vent’anni precedenti le stesse cose succedevano a pochi chilometri di distanza, nella sede storica nella via che diede il nome al centro sociale.
Lo spazio di via Watteau, unico a Milano per dimensioni e relativa centralità, era rimasto tra i luoghi di aggregazione popolare più attivi e partecipati della città, specialmente da quando nel 2021 aveva chiuso Macao, un altro grande centro sociale nella zona est. Non si sa se e come proseguirà la storia del Leoncavallo, da tempo si parla di un possibile trasferimento in un edificio a Milano sud, quartiere Corvetto.
Il Leoncavallo nasce nell’ottobre del 1975 da alcuni collettivi provenienti da differenti esperienze politiche legate a gruppi della sinistra extraparlamentare. Viene occupata una fabbrica dismessa di prodotti farmaceutici di 3600 metri quadrati in via Leoncavallo 22, in un quartiere di storiche tradizioni operaie, un prolungamento cittadino di Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”, chiamata così per la presenza delle più importanti fabbriche del milanese e di un tessuto sociale operaio.
A Milano, e non solo, in quegli anni, soprattutto nelle periferie, mancavano asili, mense, consultori e altri servizi pubblici di base che questi nuovi spazi sociali (Leoncavallo ed altri centri sociali) volevano organizzare dal basso, radicandosi nei quartieri. Le prime attività che nacquero dopo la pulizia e il restauro della struttura di via Leoncavallo furono una tipografia, l’allestimento di uno spazio teatrale per alcune compagnie, una radio (attiva fino ai primi anni Ottanta), la Casa delle Donne organizzata da gruppi femministi, una scuola di falegnameria e una scuola popolare per permettere ai lavoratori delle fabbriche di conseguire la licenza media.
Roberto Cimino, che faceva parte del comitato che nel 1975 decise di occupare gli spazi di via Leoncavallo 22, ricorda i primi anni pionieristici: «vennero spesso a suonare Nanni Svampa, Lino Patruno, la PFM e gli Area (…), addirittura venne a suonare Franco Battiato, al tempo sconosciuto, e la serata fu un vero fiasco».
Nel 1978 purtroppo il Leoncavallo irrompe nelle cronache nazionali per l’assassinio con otto colpi di pistola, vicino al centro sociale, di due studenti, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, conosciuti come Fausto e Iaio. Anni di inchieste giudiziarie ed altre indipendenti non portarono a nessuna condanna per la loro morte, ma la pista più concreta conduceva alla destra eversiva attiva a Roma e con forti legami a Cremona, e ad alcuni nomi di esponenti neofascisti.
Due giorni prima dell’assassinio le Brigate Rosse avevano rapito Aldo Moro. Erano gli “anni di piombo”, delle bombe, dei sequestri, dei ferimenti, degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine e tra estremisti di destra e di sinistra. Anni di violenze politiche di strada e di diffusione a macchia d’olio dell’eroina, diventata un’emergenza sociale sempre più grave nelle periferie milanesi. Anni di disagio e crescente repressione che portano allo sgombero di tante realtà antagoniste, e anche il Leoncavallo, nato da un’occupazione unitaria di varie realtà, viene decimato dalle divisioni interne perdendo, tra il 1978 e il 1980, quasi tutto il vecchio gruppo di occupazione.
In quei primi anni Ottanta a Milano la chiusura di diversi centri sociali porta molte realtà a trovare nel Leoncavallo un luogo dove proseguire le proprie esperienze, un rimescolamento che trasforma la comunità che frequenta il Leoncavallo che diviene da lì in poi sempre più eterogenea: “vecchi” militanti, collettivi delle “controculture giovanili”, collettivi autonomi e movimenti studenteschi.
Oltre alle attività esistenti nascono corsi di fotografia, gruppi musicali e teatrali, laboratori di pittura, un’officina, una palestra, la sala video, un centro di documentazione, e l’Helter Skelter, che per anni organizzerà concerti e altre proposte culturali ospitando gruppi, performer e artisti di livello internazionale, trasformando il centro sociale in un punto di riferimento della musica indipendente. Tra gli ’80 e i ‘90 suonano al Leoncavallo alcune band alternative di livello mondiale come Fugazi, Sonic Youth e Public Enemy, oltre ai più importanti gruppi italiani del periodo.
Tra questi, e qui faccio una digressione personale, i Casino Royale, un gruppo da me molto amato, che al Leoncavallo ci è nato oltre ad averci registrato un disco live il 30 novembre 2012, nel 25° anniversario della band. Un disco che ho letteralmente consumato, che non brilla certo tecnicamente per l'acustica del centro sociale, ma che è pregno di significato e di pathos.
Alioscia Bisceglia, leader della band fondata a fine anni ‘80, parla del Leoncavallo: «Da adolescente era un rifugio che mi metteva al riparo da una città già molto fredda, ma cerchiamo di vivere lo sgombero come un nuovo inizio e non come una fine».
Il tuo primo ricordo?
«Avrò avuto 14 anni: i punk orfani del Virus, un altro storico centro sociale, organizzavano concerti lì, in uno scantinato denominato Helter Skelter, dove anche noi suonammo per la prima volta».
Negli anni vi siete esibiti spesso su quel palco.
«Nel nostro primo concerto sul palco principale per la scenografia dipingemmo un fondale e la scritta Casino Royale rimase stampata sul pavimento. Pensai: adesso si incazzano… Ma la pratica del fare da sé è una cosa molto milanese».
Gli spazi occupati sono stati una fucina musicale per la città.
«Era un circuito alternativo, davano una possibilità a band che non avrebbero trovato spazio».
È ancora così per i giovanissimi di oggi?
«Ho visto tanti ragazzi, magari figli dei veterani, sia ai presìdi di solidarietà che alle serate. L’interazione con le nuove generazioni è fondamentale. Non voglio vivere di ricordi, dobbiamo andare avanti. Servono spazi di aggregazione e confronto: se li lasci per la strada o alla deriva davanti a uno schermo non costruisci nulla di buono, anche se c’è a chi fa comodo che la gente sia soggiogata da bisogni indotti».
A molti i centri sociali fanno paura.
«In una società che invecchia velocemente ed è sempre più chiusa in casa, la paura è l’arma più comoda per fomentare gli animi e prendere consensi. Ogni volta che hanno attaccato il Leoncavallo c’è stata una reazione che ha ricompattato una fetta di società; noi, da esterni, possiamo contribuire in base alle nostre esperienze. Ma sono stati forniti spazi a soggetti che hanno fatto e rappresentato un centesimo, rispetto al Leoncavallo: questa è un’evidenza. Già 40 anni fa Daniele Farina, attuale portavoce del Leo, parlava di come il futuro di Milano si giocasse proprio sulle aree dismesse. È un bene riflettere anche su temi che vadano oltre la musica e l’intrattenimento».
E torniamo a raccontare la storia, ricollegandoci proprio al tema delle aree dismesse. Dal 1980 il gruppo immobiliare proprietario dello stabile dove si trova il Leoncavallo cerca di riottenerne l’utilizzo, vince un ricorso al TAR e al Consiglio di Stato per poi vendere l’area alla famiglia Cabassi (storici immobiliaristi milanesi) nel 1989. Cabassi ottiene dal Sindaco socialista Pillitteri la decisione dello sgombero, a cui gli occupanti oppongono una dura resistenza seguita da violenti scontri, l’inizio della demolizione del centro, la rioccupazione e la ricostruzione. Nel 1994 il Sindaco leghista Formentini riesce ad ottenere lo sgombero e al centro sociale viene assegnata provvisoriamente la sede di via Salomone, periferia sudest, sgomberata improvvisamente il 9 agosto dello stesso anno. Un mese dopo viene occupata l’ex cartiera di via Watteau, zona Greco, sempre di proprietà della famiglia Cabassi, che è rimasta la sede del centro sociale fino a qualche giorno fa.
Nella nuova sede si prosegue con le attività che già esistevano, aggiungendo un laboratorio di serigrafia, una ciclofficina, uno spazio per sviluppatori indipendenti di videogiochi, una scuola popolare di italiano, un laboratorio teatrale, fiere gastronomiche, le feste della semina e del raccolto, dedicate alla sensibilizzazione per la legalizzazione della marijuana. Mensilmente si organizzano serate di techno, dub, reggae, concerti jazz, presentazioni di libri e proiezioni di film.
I sotterranei sono occupati da DaunTaun, dove nel 2003 si è tenuto il primo evento pubblico di street art in Italia, con contributi che si sono poi susseguiti negli anni e sono sottoposti a tutela della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per la Città Metropolitana di Milano.
Nel 2006 Vittorio Sgarbi, storico dell'arte e all'epoca assessore alla cultura del Comune di Milano, non sospettabile di certo di avere simpatie politiche per il Leoncavallo, definì questi sotterranei "La Cappella Sistina contemporanea", annunciando il desiderio di farne un museo.
Ma perché allora il Leoncavallo dà così fastidio? Forse perché, a prescindere dall’estrazione politica dei suoi attivisti, è un posto in cui si può passare la serata anche senza spendere nulla, un concetto che stride con il contesto della Milano instagrammabile, dove la maggior parte delle forme di intrattenimento sono sempre più costose ed escludono le fasce più povere della cittadinanza.
Stefano Superchi
Tanto per capire cosa sperano di eliminare:
Il Leoncavallo è un famoso locale storico di Milano, noto per essere uno dei più importanti centri culturali e sociali della città. Situato nel quartiere di Porta Venezia, nasce negli anni '70 ad opera di un gruppo di giovani che la trasformano in un centro sociale, spazio autonomo e autogestito per la cultura e la socialità.
Il Leoncavallo negli anni ha ospitato concerti, spettacoli teatrali, mostre d'arte e tante altre attività e in quegli anni fu un importante punto di riferimento per il movimento alternativo e controculturale milanese degli anni '70 e '80 per divenire la sede di iniziative culturali di alto livello.
Il Leoncavallo ospita regolarmente concerti di musica dal vivo, con artisti di vari generi musicali, spettacoli teatrali, performance artistiche, mostre d'arte e esposizioni di artisti locali e internazionali.
Da non dimenticare che il Leonka è anche un importante punto di riferimento per le attività sociali e di solidarietà, come ad esempio la distribuzione di cibo e abbigliamento per le persone in difficoltà.
La cultura nasce dove ci sono scambio, movimento di idee, confronto e dialogo. Può nascere in un circolo letterario, in un parco, in una biblioteca, in un cinema, in un bar, in un museo o per la strada.
A Milano, tanta cultura è nata e passata anche dal Leoncavallo. Il tipo di luogo conta poco: quello che conta è che, sgomberandolo, si è tentato di spegnere lo scambio, le idee in movimento, il confronto e il dialogo.
Proteggere questi spazi significa difendere la possibilità stessa di far nascere cultura. Ma coloro che sperano di avere ucciso tutto questo forse non sanno che a fare il Leoncavallo e simili sono le persone non un immobile.
La sede rimarrà vuota e forse verrà lasciata andare al degrado, oppure verrà trasformata in un anonimo blocco di cemento intriso di falsa modernità, ma il fermento e le idee che lo hanno animato continueranno a correre per Milano e non solo.
Claudio Bisio, in una intervista rilasciata in questi giorni, spiega il suo legame con il Leoncavallo:
“Ci sono cresciuto dentro e ricordo tutto benissimo fin dal 1975, la prima sede che era in via Leoncavallo, al Casoretto, che era il mio quartiere“. Bisio commenta lo sgombero del centro sociale avvenuto lo scorso 21 agosto “una prova di forza, con tutti quei poliziotti, e nessuno dentro. Fa ridere e fa piangere“.
Bisio auspica che il Comune di Milano, di cui il sindaco Beppe Sala a stretto giro dall’operazione ha riferito di non essere mai stato avvisato, “si stia attivando per non far morire il Leoncavallo. La cultura è un investimento, ci sono altre esperienze in Italia che dimostrano l’impegno delle amministrazioni in questo senso“.
Il suo ricordo va indietro nel tempo fino alla sua prima visita nella sede iniziale in via Leoncavallo, dove è il centro sociale è stato fondato nel 1975. “C’era la musica, c’era il teatro, le manifestazioni".
Ricorda anche che al Leoncavallo ha scoperto la sua passione per la recitazione, “ma non il teatro classico, alla Gassman. Quel teatro nuovo… e parlo degli anni in cui Dario Fo era ancora in via Colletta“. Racconta che al centro sociale ha imparato che “la creatività e l’arte non vengono sempre dall’alto, e che le opere non nascono solo nei palazzi dei re. Perché le vie dell’arte sono infinite, e se c’è gente civile che fa cose belle, spontaneamente, perché tarpargli le ali?“.
Ed è proprio in quest’ottica che il Leoncavallo, secondo Bisio, “è sempre stato una factory, ha ospitato artisti, organizzato eventi, prodotto cose belle, e se ci sono stati accenni di violenza, è sempre successo per gli sgomberi“. Il ministro Giuli dovrebbe andare a vedere cos’è quel posto“.
Giovanna Anversa
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