Boy George, 64 anni da icona
Non gli è mai piaciuto passare inosservato, icona gay, performer, dj, cantante, fashion designer.
George Alan O’Dowd aka Boy George ha avuto mille vite concentrate in una. Un tipo sicuro, vanitoso, senza paura di tagliare in due il perbenismo con la lama della sua arte. Questa, almeno, era la sua immagine pubblica, perché in realtà, soprattutto tra i favolosi ‘80 e ’90, era un condensato di fragilità che, una volta uscite allo scoperto lo portarono al carcere, all’abuso di droghe e al declino dopo un grandioso successo.
George Alan O’Dowd aka Boy George ha avuto mille vite concentrate in una. Un tipo sicuro, vanitoso, senza paura di tagliare in due il perbenismo con la lama della sua arte. Questa, almeno, era la sua immagine pubblica, perché in realtà, soprattutto tra i favolosi ‘80 e ’90, era un condensato di fragilità che, una volta uscite allo scoperto lo portarono al carcere, all’abuso di droghe e al declino dopo un grandioso successo.
Ha compiuto 64 anni il 14 giugno, ma, con tutte le cose che ha fatto potrebbe tranquillamente averne il doppio: passò dai club londinesi, che lanciarono il new romantic in pieno post punk, ai dancefloor come dj, ai tabloid per le pazzie provocate dalle droghe. Poi si rimise sulla retta via, ma questo non interessava più ai paparazzi che lo pedinavano sperando in qualche passo falso. Boy George non faceva più scandalo.
George il protagonismo ce l’ha sempre avuto nel sangue. Pur crescendo in una famiglia numerosa (i genitori e 5 fratelli) a Eltham, quartiere di south London, prima di diventare una star degli anni ’80 ha passato un’infanzia solitaria. Una pecora nera, o meglio una pink sheep (una pecora rosa) come amava definirsi. Appena fu possibile recise il cordone ombelicale e iniziò a partecipare alle serate del Blitz, il nightclub dal quale prese vita il movimento culturale new romantic.
Durante le scorrerie al Blitz Malcom McLaren, Deus ex machina dei Sex Pistols, fu incuriosito dalla presenza di Boy George che, nel frattempo, era pure finito sul magazine di stile i-D vestito da suora con un crocifisso tra le mani.
McLaren lo piazzò, con il nome d’arte Lieutenant Lush come vocalist di supporto della neonata band Bow Wow Wow. Ben presto arrivò allo scontro con la cantante Annabella Lwin e se ne andò per creare una band tutta sua con il bassista giamaicano Mickey Craig, il batterista e percussionista anglo-ebreo Jon Moss e il chitarrista e tastierista anglosassone Roy Hay. Un melting pot che non poteva che prendere il nome di Culture Club.
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| con Annabella Lwin |
L’album di debutto, Kissing to Be Clever, del 1982, non ottenne i consensi sperati, allora i Culture Club cambiarono rotta puntando ad un orientamento dal sapore più reggae, arrivando in poco tempo al successo planetario con Do you Really Want To Hurt Me.
Arrivati in vetta alla top 10 UK e al successo negli States, rilanciarono con con il secondo disco (Colors by Numbers) e due pezzi destinati a rimanere scolpiti nella storia della musica: Karma Chameleon (sugli amori fugaci di una notte) e la sfavillante ballad Victims (inno all’amore omosessuale).
Boy George piaceva a tutti, grandi e piccoli, nonne e nipoti, ma aveva un tarlo che lo rodeva dentro. Nella canzone Victims George parla della sua relazione segreta con il batterista Moss, una love story che andò avanti fino al 1985, ma doveva rimanere nascosta per volere dello stesso batterista. Questa cosa generò frustrazione e fece precipitare il frontman in un vortice di droghe fino alla separazione da Moss.
Gli album successivi, Waking Up with the House on Fire e From Luxury to Heart, risentirono di queste vicende e furono deludenti, lo stato di George divenne insostenibile e la band decise di sciogliersi. I Culture Club non esistevano più.
L’irrequieta vita di Boy George iniziò a spostarsi gradualmente sulle riviste scandalistiche. Se la carriera da solista e l’album Sold ottenevano un buon successo, continuavano i problemi con la giustizia e le dipendenze che lo portarono vicino alla morte. Nonostante le montagne russe della sua esistenza, riuscì a fondare l’etichetta More Protein mettendo in piedi Jesus Loves You, progetto di musica acid jazz, techno e dance. L’album The Martyr Mantras ospitava addirittura star dell’elettronica come Paul Oakenfold e i Massive Attack.
Certo, non erano i successi travolgenti dei Culture Club, ma Boy George si stava ritrovando e forse aveva trovato la via per riprendere in mano la sua vita.
Nel 1992 il successo mondiale tornò ad arridergli con la hit The Crying Game, inserita nella colonna sonora del film da Oscar La moglie del soldato di Neil Jordan.
Dopo quell'esperienza, George intraprese una carriera da dj nei club di tutta Europa e cinque anni più tardi i Culture Club si riunirono dando vita al concerto Storytellers Live, cui seguì l’uscita della compilation Greatest Moments. Poi arrivarono il nuovo disco Don’t Mind If I Do e un tour celebrativo per i 20 anni della band. Ma fu un successo effimero e dopo i festeggiamenti il gruppo si sciolse nuovamente.
Boy George non restò con le mani in mano e sperimentò il musical con Taboo, dall’omonimo locale di Leigh Bowery, artista prematuramente scomparso, un amico e punto di riferimento per lui. Lo stesso cantante, nello spettacolo, ne interpretava il ruolo. Lo show andava molto bene, ebbe delle nomination ai Tony Awards (categorie Best Original Score, Outstanding Lyrics e Outstanding Music).
Il cantante, giusto per passare inosservato, si faceva chiamare GOD (dal suo vero nome George O’Dowd). Ma, nonostante il buon successo dello spettacolo, combatteva una battaglia impari contro la sua tossicodipendenza.
Fu arrestato nel 2005 a Manhattan per falsa denuncia di furto con scasso e possesso di cocaina, e tre anni dopo, a Londra, fu condannato per aggressione e detenzione di stupefacenti, passando quattro mesi in prigione.
“Ho perso la corona? Tornerò mai a essere re?”, era questa una strofa di King Of Everything, il singolo del ritorno di Boy George, che lasciava intravedere nuovamente il groviglio di fragilità nascoste dietro l’impellente voglia di farcela, ancora una volta.
Fu arrestato nel 2005 a Manhattan per falsa denuncia di furto con scasso e possesso di cocaina, e tre anni dopo, a Londra, fu condannato per aggressione e detenzione di stupefacenti, passando quattro mesi in prigione.
“Ho perso la corona? Tornerò mai a essere re?”, era questa una strofa di King Of Everything, il singolo del ritorno di Boy George, che lasciava intravedere nuovamente il groviglio di fragilità nascoste dietro l’impellente voglia di farcela, ancora una volta.
George è cambiato, è un uomo diverso, grazie al buddismo e ad una vita più equilibrata, ha abbracciato il veganesimo. Vive in una casa gotica vittoriana ad Hampstead, dove aveva abitato Marty Feldman (l’indimenticato Igor di Frankenstein Junior), è dimagrito ed ha fatto pace con tutti (anche con Moss) e si è totalmente disintossicato. Ha riunito di nuovo i Culture Club per un tour celebrativo dei 30 anni, si è dato alla pittura, fa il giudice alla TV per The Voice in UK e Australia.
Chissà come vivrà, ad un anno dai 65 anni, l’età per cui la legge italiana ti considera “anziano” a tutti gli effetti, se starà preparando la domanda per l’esenzione dal ticket o starà preparando la valigia per andare a fare un dj set in un club in culo al mondo. Probabilmente, dietro lo sguardo scaltro e la risata trascinante starà architettando un modo per tornare a non passare inosservato.
Perché la pink sheep perde il pelo, ma non il vizio.
Stefano Superchi
Perché la pink sheep perde il pelo, ma non il vizio.
Stefano Superchi









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