Queer
un film di Luca Guadagnino
Quando le parole non hanno peso
Non è facile parlare di Queer perché Guadagnino sfodera la sua follia visionaria in più piani narrativi, in immagini alla Hopper, in viaggi impervi alla ricerca di un THC che pare regali telepatia, in momenti tra il macabro e l'horror, in allucinazioni lisergiche, in lussuria, degrado e solitudine per poi far passare tutto questo dal solito collo di bottiglia, l'amore.
Ma "Che coss'è l'amor", come cantava Capossela?
"Queer" lascia aperto il quesito, non dà risposte, ognuno trovi la propria.
Il film si apre in una Città del Messico di cartapesta totalmente costruita a Cinecittà che, con colori forti ma opachi, inquadra immediatamente la solitudine quasi fosse un personaggio. Che la scenografia è finta si vede ed è fatto di proposito per dare spazio ad una serie di inquadrature che richiamano e ricordano i quadri di Hopper, e in questi quadri dall'aspetto surreale, uno strepitoso Daniel Craig si muove riempiendo lo schermo di una solitudine che si presenta angosciante, in alcuni momenti quasi sporca.
Città del Messico, primi anni 50.
Scampato ad un raid antidroga a New Orleans, e probabilmente alle discriminazioni, William Lee, scrittore americano, omosessuale, drogato e alcolizzato, gira come un predatore per i locali gay della città alla ricerca di amanti occasionali con cui stordirsi di sesso, alcool e droga. Il sesso lo trova, l’amore no. Almeno finché non conosce Eugene, un ragazzo bello ed elegante che tutte le sere gioca a scacchi con una donna dai capelli rossi in un locale della città.
Forse Eugene è “frocio” o forse no, ma si concede. Per William finalmente una presenza completamente diversa dai tanti corpi senz’anima raccattati di bar in bar per appartarsi in sordide camere d’hotel, con corridoi e porte rosso sangue, alla ricerca di un appagamento che non arriva mai perché è l’amore che cerca William, la fusione totale con l’altro che non ha mai conosciuto. Eugene si concede ma al tempo stesso è sfuggente e della sua vita non lascia trapelare nulla.
William gli propone un viaggio lisergico-surreale nella giungla sudamericana, alla ricerca di un leggendario e introvabile allucinogeno che dovrebbe consentirgli di aprire i confini della percezione, di uscire da sé e di entrare nell’altro, non solo fisicamente per sapere finalmente cosa Eugene prova per lui tramite un trance telepatico.
Dall’omonimo romanzo di William Burroughs, Luca Guadagnino mette in scena un viaggio dentro un’ossessione insaziabile. Un’immersione in apnea dentro gli abissi di un desiderio che va oltre la materialità dei corpi mentre le immagini oscillano fra un iperrealismo alla Edward Hopper e un surrealismo alla David Lynch. La costruzione dello spazio lisergico e allucinatorio, i cromatismi accesi incorniciano la disperazione legata alla consapevolezza che non ci si fonde mai davvero, nemmeno con l’aiuto dell’allucinogeno naturale più potente, lo sciamanico "yage". Neanche quando il desiderio diventa frenesia si può arrivare ad essere parte totale dell'altro e ad entrare nella sua anima, o forse sì, ma solo per un attimo e quell'attimo è devastante.
Daniel Craig ne fa una interpretazione meravigliosa e Drew Starkev non è da meno. Favolosi i costumi in particolar modo il tailleur in lino chiaro di William che piano piano si sporca e si sgualcisce come la sua anima.
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Photo: Yannis Drakoulidis |
Le scene di sesso non sono moltissime ma sono estremamente intense e per nulla volgari, utili a rendere un rapporto non chiaro dove uno pare disposto a qualsiasi cosa mentre l'altro si porta a casa un po' di piacere in un continuo fuggire e ritornare. Eugene si lascia piacevolmente sottomettere fisicamente senza mai dichiararsi gay, Eugene è quello forte, quello che muove i fili e della cui vita nulla si sa come se volesse nascondersi.
Non mancano momenti macabri, chi conosce Luca Guadagnino sa che gli piacciono, quando i due, strafatti e allucinati vomitano il loro cuore: love is a losing game o un donarsi totalmente?
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Photo: Courtesy Everett Collection |
"Io me ne devo andare" dice a un certo punto Eugene, così William torna a Città del Messico, nei soliti bar, frequentati dalle solite "checche" e intrisi del solito degrado; invecchia e ancora come in un quadro di Hopper si corica su un letto, in una stanza squallida per lasciarsi andare al sonno eterno ma ... qualcosa accade.
A completare un lavoro, io credo mai visto, la musica, che pesca dai New Order, dai Verdena fino ai Nirvana e riempie quadri pazzeschi che penetrano nella pelle procurando brividi che scuotono ogni nervo.
Non si può dire "è un bel film", si può dire è diverso o va visto, a botta calda lo definirei un film psichedelico, dove ci sta tutto perché "Facciamo tutti parte del tutto".
Giovanna Anversa
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