Diego Abatantuono.
70 anni vissuti in modo eccezionale.
Diego Abatantuono nasce a Milano il 20 maggio del 1955, probabilmente l’ultimo di un gruppo di attori che resero grande e significativa la commedia all’italiana, un animale da palcoscenico. Cresciuto biograficamente e artisticamente nel quartiere popolare milanese del Giambellino, si fa le ossa al Derby Club, l’emblema di una Milano che sapeva mettere attorno allo stesso tavolo artisti, comici, geni e malavitosi.
Abatantuono deve la sua reputazione ad un istinto comico puro e straordinario, ma nello stesso tempo capace di durare nel tempo (dote rara) dando un senso preciso alla propria esperienza biografica. Se infatti negli anni Diego Abatantuono ha saputo proporsi costantemente sulla scena artistica lo si deve ad una sensibilità che gli ha permesso di variare di volta in volta anche radicalmente il proprio “personaggio” con minime e precise correzioni. Variazioni che non hanno mai rinnegato il passato, ma che all’opposto si sono arricchite e rese possibili grazie ad una presa di coscienza precisa del proprio ruolo.
Con la collaborazione di un altro talento brillantissimo come Giorgio Terruzzi ha scritto “Si potrebbe andare tutti al mio funerale” una sorta di autobiografia collettiva e condivisa dentro alla quale Abatantuono appare come voce narrante.
In un futuro immaginario Abatantuono si aggira come un fantasma nel giorno del suo funerale, cogliendo le voci di familiari e di amici, tra risate e lacrime di addio.
È un espediente romanzesco efficace, che racconta in maniera sincera un tempo eroico e disperato, quello di una Milano in cui il boom era visibile da chiunque, ma non tutti riuscivano a viverlo. Il ricordo della madre di Abatantuono nella giornata infinita di lavoro, di notte guardarobiera al Derby e di giorno al banco del negozio di modellismo del marito, in un debito di riconoscenza smisurato che ripercorre la durezza di quegli anni e la dolcezza familiare che si dipana in un lungo piano sequenza nelle risate e negli schiamazzi notturni con gli amici di sempre. Erano gli anni in cui si nasceva e si cresceva insieme, nelle stesse strade, negli stessi locali e identiche fortune e disgrazie.
Sembra una frase fatta, ma dalle pagine emerge che quello che conta, come sappiamo, non è la teoria, ma la pratica, la “palestra della vita”, il successo come punto di arrivo fatto di fatica, di ingombranti malinconie e nostalgie difficili da soffocare.
Abatantuono ha il senso del ritmo, qualità fondamentale per un attore, ma ha anche quella leggerezza che risulta necessaria per sopravvivere. Ha avuto momenti cupi, dolori che colpiscono allo stomaco, tradimenti fatti e subiti.
Ha avuto un successo iniziale fatto di istinto e corpo, quello di “Eccezzziunale… veramente”, una Bibbia della Milano che è ormai svanita, per me che lo conosco a memoria, che non era solo un insieme di battute, ma uno spettacolo di tempi comici dal ritmo senza freni.
Poi è seguito un tempo fatto di solitudine e paure in cui navigare a vista in attesa degli splendidi quarant’anni che porteranno finalmente Diego alla consacrazione come attore totale. Tra i pochi interpreti del cinema italiano di oggi capace di interpretare il dramma come la commedia, il comico come la nevrosi intellettuale.
Alla base di tutto però rimane sempre la “compagnia”, quel rito collettivo che necessita di stare nel gruppo per sentirsi accolti e per accogliere, una forma di difesa reciproca che moltiplica le forze. Un’idea ancestrale di vita collettiva, con gli amici di sempre, una magia che riesce a pochi e che diventa nostalgico rimpianto per tutti gli altri.
E alla fine ad Abatantuono questa magia è riuscita, e la racconta sotto forma di funerale immaginario, gli amici tutti insieme in uno stesso luogo, in una festa di risate e di abbracci, di ricordi e desideri ancora da esaudire. Il sogno romantico della casa in Romagna comprata con i primi soldi che vide accogliere per primi i genitori e poi tutti gli altri, amori, amici, figli e nipoti.
Un sogno realizzato, in cui non è necessario apparire di persona, ma è sufficiente esserci, come al proprio funerale.
Stefano Superchi
Serena Dandini intervista Diego Abatantuono, 1986
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