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04 novembre 2024

50 anni di Autobahn (Kraftwerk)

 Kraftwerk, "Autobahn"

L'autostrada verso il futuro

 

 

 Anno domini 1974, nella Germania che organizza e vince i Mondiali di calcio contro l’Olanda più bella di sempre, brulicano (già da qualche anno) fermenti di musica elettronica, il terreno è pronto a far sbocciare i fiori algidi del kraut-rock. Non più musica elitaria per pochi eletti. Passando attraverso l'Autostrada dei Kraftwerk diventa "volkmusik", musica  del popolo.
Ralf Hutter e Florian Schneider, i due fondatori (nel 1970) del gruppo di Dusseldorf, riescono in un'operazione che sembrava impossibile: amalgamare la black music con le atmosfere più rarefatte della musica bianca. Un'impresa proibitiva. Non per loro.



I Kraftwerk erano avanguardia, nel vero senso del termine ("stare avanti"), e non nella sua snobistica accezione di "musica di difficile ascolto". Dagli esordi fino all'approdo al pop sintetico, i due di Dusseldorf sono rimasti alla testa del gruppo, pedalatori infaticabili alla ricerca di nuove alchimie sonore. Androidi del rock, metà uomini-metà macchine, Ralf e Florian hanno percorso una loro personalissima "autobahn", spinti dalle pulsioni sperimentali di scuola teutonica (Stockhausen, la "kosmische musik") e proiettati verso qualcosa che ancora non c'era (la new wave, il synth-pop, l'hip-hop, la dance, la house, la trance, la techno). 

 


Nel 1970, conclusi gli studi classici, i due giovani allievi di Stockhausen dirigono già una formazione chiamata Organisation, con tre percussionisti. "Tone Float" è l'unica opera pubblicata. Ralf e Florian allora decidono di puntare tutto sulla costruzione del Kling Klang Studio, capannone dedicato a installazioni grafiche e musica elettronica che, partendo da vecchi registratori e drum machine, diventa in breve tempo il motore del progetto Kraftwerk.

 

L'ingresso del Kling Klang Studio

I primi due album ("1" e "2") prendono la scia della nascente scuola tedesca dei Tangerine Dream gettando le basi per la futura nascita della musica "industrial". "Ralf & Florian" del 1973, invece, è un lavoro di transizione, propedeutico all’arrivo del sound-Kraftwerk che è "Autobahn".

 


Arricchito dall'introduzione del Moog, "Autobahn" è un capolavoro senza pari nella storia del rock elettronico. Rumore e melodia, sperimentazione e pop, danze ancestrali e ritmi "concreti", umanesimo e cibernetica, tecnologia e arte. L'album è una sinfonia per motori che rombano in un'armonia ipnotica.

"Düsseldorf, la città in cui viviamo, è il centro della più grande zona industriale tedesca - raccontavano i due -. La nostra musica è quella della realtà urbana, con i ritmi e i suoni che producono le fabbriche, i treni e le automobili. Lavoriamo in questo contesto e ne siamo influenzati, come degli operai della musica, per otto-dieci ore al giorno nel nostro studio di registrazione. Amiamo i computer e le macchine che noi stessi ci siamo costruiti, con esse abbiamo una relazione semi-erotica".

 

 

L'amplesso tra uomo e macchina, dunque, come approdo della Nuova Musica. Ma in  "Autobahn" si riaffaccia “Metropolis” di Fritz Lang, le profezie di un futuro cibernetico che ritroveremo in artisti basilari dell'elettronica, i Devo, gli Ultravox e il Bowie berlinese. Palesi anche le tracce del minimalismo di Brian Eno, Philip Glass e Steve Reich.
Suoni omogenei, compatti e asettici, vengono filtrati e metabolizzati attraverso un uso dell'elettronica che mira a creare una nuova arte "totale"con un linguaggio universale.


L'arteria pulsante del disco è la lunga title-track di "Autobahn" (oltre 22 minuti): una suite sfavillante, con una combinazione di rumori di auto in movimento (motori, pneumatici, clacson) e melodie sinuose di tastiere e flauto, con il sottofondo della drum-machine a montare il ritmo in modo uniforme. Si ha la sensazione di sentirsi accompagnati in un lungo viaggio, rilassante e ipnotico allo stesso tempo. Il mantra "Wir fahr'n fahr'n fahr'n auf der Autobahn” (Viaggiare viaggiare viaggiare sull'autostrada) è mormorato in modo monocorde, come a simulare la ripetitività dell’autostrada. Il coretto "fahr'n fahr'n fahr'n" riecheggia esplicitamente il "fun, fun, fun" dei Beach Boys, una delle insospettabili band di riferimento dei Kraftwerk.



Il testo di "Autobahn" è evidentemente ironico:
"Davanti a noi si distende una vallata larga/ il sole brilla con raggi sfavillanti.../ la strada è un nastro grigio con strisce bianche e bordo verde/ ora accendiamo la radio/ dall'altoparlante escono i suoni".

Ma dietro l'apparente nonsense, si palesa un ottimismo, forse ingenuo, dei Kraftwerk. Una visione del futuro figlia di un passato in cui si pensava che sarebbero arrivati anni ordinati, con le città organizzate, ricche di spazi verdi e autostrade a otto corsie regolate dai microchip.
 
 

È il messaggio che trasmette la copertina dell'album disegnata da Emil Schult, un accostamento "pastoral-industriale" di colline e autostrada, con una vecchia Volkswagen in marcia e una nuova Mercedes che procede nel senso opposto: la Germania che fu e quella che sarà. Poi arriverà la guerra del petrolio, “Blade Runner” e il cyberpunk a rompere l’incantesimo e a farci capire che il mondo avrebbe preso un altra piega.

 

Gli altri pezzi del disco divagano tra astrazioni cosmiche che richiamano i Tangerine Dream e Vangelis e momenti di maggiore intensità ritmica. Paesaggi sonori ambientali, un reticolo di effetti elettronici ed echi da vecchi film horror. La passeggiata mattutina di "Morgenspaziergang" chiude l'album, tra cinguettii d'uccelli, ruscelli (tutto rigorosamente elettronico) e le melodie del flauto di Schneider.

 


Un disco di non facilissimo ascolto forse, non per tutti almeno, seppur meno “ostico” dei precedenti, che però influenzerà in modo significativo moltissimi artisti. David Bowie, per sua stessa ammissione, si ispirerà ad "Autobahn" ibridando rhythm and blues ed elettronica nel suo disco "Station to Station" del 1976. E senza i Kraftwerk nessuno si sarebbe azzardato a fare musica pop mediante campionamenti. Tanta musica degli Ottanta e dei Novanta (dagli Ultravox ai Chemical Brothers) forse non sarebbe mai nata. Anche  il rap e la techno si approprieranno delle loro intuizioni.

 


Il progetto dei Kraftwerk è stato un continuo salto verso il futuro, qualunque direzione musicale abbiano deciso di seguire. Anche gli album pubblicati nella seconda metà del decennio ("Radioactivity", "Trans Europe Express", "The Man Machine"), infatti, faranno epoca. Negli anni 80 con "Computer World” ed "Electric Cafè" comincia la parabola discendente, ma il loro contributo alla storia della musica l'avevano già dato. Senza mai prendersi troppo sul serio, anzi, ironizzando sempre su se stessi; nel 1978 apparvero come ospiti a Domenica In, il programma pomeridiano di Rai Uno condotto da Corrado: volti pallidi, labbra e camicie rosse, cravatte nere, con dei manichini, identici a loro, seduti tra il pubblico.

 

 

In fondo non erano solo macchine e gelida elettronica, erano il volto umano dell'avanguardia.

Stefano Superchi







03 novembre 2024

Diamanti, il nuovo film di Ferzan Ozpetek

 Diamanti

il nuovo film di Ferzan Ozpetek

 


 Parliamo di un regista unico, un regista spaziale che colpisce al cuore e riempie di bellezza. I suoi film sono pietre preziose, diamanti su un collier che incanta da quando, nel 1895, i fratelli Lumière ce lo hanno regalato, il cinema


Uscirà il 19 dicembre al Cinema "Diamanti" il nuovo film di Ferzan Ozpetek. Impreziosito da un cast quasi del tutto al femminile è atteso dai fans del regista quasi come si attende una nascita. Il cast accentua la curiosità, o meglio per noi innamorati di Ferzan, la bramosia: Luisa Ranieri, Jasmine Trinca, Sara Bosi, Loredana Cannata, Geppi Cucciari, Anna Ferzetti, Aurora Giovinazzo, Nicole Grimaudo, Milena Mancini, Paola Minaccioni, Elena Sofia Ricci, Lunetta Savino, Vanessa Scalera, Carla Signoris, Kasia Smutniak, Mara Venier, Giselda Volodi, Milena Vukotic, Stefano Accorsi, Luca Barbarossa, Vinicio Marchioni, Valerio Morigi, Edoardo Purgatori e Carmine Recano.



Riportiamo l'intervista a Vanity Fair dove l'autore de Le Fate Ignoranti si racconta, come sempre, senza maschere.

 Soddisfatto io? Mai stato in vita mia, sono contento, piuttosto. Contento di quello che mi hanno dato queste attrici. Sono andato a toccare un periodo della mia gioventù quando facevo l’aiuto regista alle prime armi. Accompagnavo spesso regista, costumista e attrici in una sartoria meravigliosa di Roma e studiavo tutto quello che mi accadeva intorno. Mi ricordo i grandi costumisti del cinema: Maurizio Millenotti, Gabriella Pescucci, Piero Tosi. Che mondo affascinante, che talenti incredibili. Tosi è stato fondamentale per me, mi dava consigli, mi raccontava tutti gli aneddoti di Visconti e Fellini e con me leggeva le sceneggiature fino alle due di notte. Il giorno dopo andavo sul set a girare e mi tenevo a mente i suoi appunti. E in questo film collaboro con un altro grande costumista: Stefano Ciammitti.


Ambientato nel presente e negli anni ‘70, sceneggiato da Carlotta Corradi, Elisa Casseri e dallo stesso Ferzan Ozpetek, "Diamanti" racconta fatti di vita e vicende amorose di un gruppo di donne che ruota attorno a una grande sartoria per il cinema diretta da due sorelle tanto diverse quanto legate.

“Io racconto quello che conosco questa volta, più della storia, volevo raccontare l’intesa che instauro con le attrici, con le donne. È un’intesa diversa da quella con gli uomini. È più profonda. Le donne hanno un sesto senso sulle cose, non hai bisogno di parlare né di spiegare, ti intendi subito. Con Mara Venier ho un rapporto viscerale. E così anche con Kasia Smutniak. Lo stesso vale con Luisa Ranieri. E quando parlo con loro, non solo mi sento capito. Mi sento cresciuto. E poi è sempre tutto così caotico, così fuori dagli schemi, così inaspettato. Per un ruolo dovevo prendere un’attrice spagnola famosa. Poi ho scelto Vanessa Scalera. Lei arriva da me un giorno e scopro che dimostra venti anni di meno rispetto a come la truccano in televisione. Dovevamo parlare quindici minuti e invece siamo rimasti insieme quattro ore a bere quattro gin tonic. Ho un rapporto speciale con tutte queste donne”.


Ozpetek non si è risparmiato nemmeno nel parlare d'amore e della sua storia con Simone.

Uscivo da una relazione di diciannove anni e avevo appena finito Le fate ignoranti. Un amico mi invita a un brunch e ci vado controvoglia. A un certo punto mi dice di andare a un tavolo dove c’erano alcuni uomini. Mi siedo di fronte a Simone e mi dico, dentro me: questa è la persona della mia vita, devo fare di tutto per averlo. Ogni tanto lui mi guardava, quindi chiedo alla mia amica se gli piaccio e lei mi dice che lui non mi aveva nemmeno riconosciuto e che quando gli avevano detto chi fossi rispose che non gli interessava stare con uno famoso. Ci siamo rivisti altre tre volte: l’ultima sono riuscito a chiedergli il numero di telefono. Penso che da quella sera, e sono passati ventitré anni, abbiamo dormito separati forse solo cinque notti. Simone è mio padre, mio figlio, il mio amante, il mio migliore amico. E come diceva la grande Raffaella Carrà, quando si spegne il fuoco del sesso, arriva la tenerezza. E la tenerezza è il vero senso dell’amore“.



Un compagno, rivendica Ozpetek, e non un ‘marito’. D’altronde Ferzan e Simone si sono uniti civilmente nel 2016. “Perché la parola marito non mi piace. E nemmeno matrimonio: preferisco unione civile. È più bella. Simone è la mia vita. Però io mi innamoro spesso di altri uomini e di altre donne. Fa parte della mia passionalità. Sto leggendo un libro su Fellini che analizza il suo rapporto con Anna, una relazione di venticinque anni, vissuto insieme a quello con Giulietta, la sua vera compagna di viaggio. Però penso sia una cosa da registi appassionarsi, aprirsi alle emozioni e ai sentimenti. Ma non vado a letto con le mie passioni. È piuttosto un’intesa bellissima. Con Luisa, con Kasia, con Stefano Accorsi e con Alvise Rigo, per esempio. Prima di conoscerlo, mi parlarono di lui in merito a "Ballando con le stelle", un programma che non guardavo. Fisso un appuntamento per conoscerlo e quando lo vedo vado nel panico pensando: ammazza che bono, ora tutti mi vedranno pranzare con lui e chissà che cosa penseranno. Con i miei attori e con le mie attrici non è mai così“.
 


Non tralascia di parlare di diritti, vista l’attuale situazione politica nazionale e internazionale, e plaude con convinzione l'ultimo film di Almodovar "La Stanza Accanto".

Quello che Pedro ha detto a Venezia è importante e io lo condivido: ognuno deve poter decidere come morire. Ma, come le spiegavo prima, mi mancano la libertà e l’apertura mentale degli anni Settanta. Oggi si torna indietro. E temo che i prossimi dieci anni saranno un periodo molto difficile per i diritti e più in generale per tutti. Ci sono tanti temi da affrontare: l’immigrazione che è inevitabile e anche necessaria per una società di anziani come la nostra, la questione dell’identità nazionale che non va vista solo come un baluardo dei conservatori ma come un insieme di valori da curare e da tramandare, i diritti civili ecc”.



Dopo "Diamanti" riposo? Nell’imminente futuro di Ozpetek ci sono altri tre i progetti in essere. “Un film con due attori americani e una italiana. Un secondo progetto molto strano, così forte da mettermi quasi paura. E un lungometraggio dal mio romanzo Come un respiro.

 


Un anticipo di "Diamanti": protagonista è un regista, che convoca le sue attrici preferite, quelle con cui ha lavorato e quelle che ha amato. Vuole fare un film sulle donne ma non svela molto: le osserva, prende spunto, si fa ispirare, finché il suo immaginario non le catapulta in un’altra epoca, in un passato dove il rumore delle macchine da cucire riempie un luogo di lavoro gestito e popolato da donne, dove gli uomini hanno piccoli ruoli marginali e il cinema può essere raccontato da un altro punto di vista: quello del costume. Tra solitudini, passioni, ansie, mancanze strazianti e legami indissolubili, realtà e finzione si compenetrano, così come la vita delle attrici con quella dei personaggi, la competizione con la sorellanza, il visibile con l’invisibile.

L'eterna magia di Ozpetek torna a narrare di tempo, passione e verità, torna a narrare di noi.

Giovanna Anversa

 

 

02 novembre 2024

Mostra d'arte contemporanea, a Palazzo Abbaziale di Casalmaggiore

Mostra d'arte contemporanea,

a Palazzo Abbaziale

di Casalmaggiore

 


 È stata inaugurata domenica scorsa (27 Ottobre) la seconda edizione della mostra d'arte contemporanea presso Palazzo Abbaziale di Casalmaggiore. La mostra è curata da Paride Pasquali, artista a tutto tondo e Mecenate per i giovani emergenti. Attento alle avanguardie e ai talenti del nostro territorio, Paride è un artista autentico che pensa che, mettere insieme le qualità e le doti di tanti, sia costruttivo per chi espone, che così ha l'occasione di confrontarsi, e per chi passa ad ammirare opere, tecniche e temi diversi riempiendosi gli occhi di bellezza.
 


Quest'anno oltre a 13 espositori di arte contemporanea è stato dato spazio a giovani fumettisti che hanno incantato i presenti con i loro disegni e le loro immagini veramente pazzeschi. 

foto: Oglio Po News

 

Parlare di tutti sarebbe difficile, ma ci sentiamo di menzionare l'opera "Silenzio" di Cinzia Quadri, creata nel periodo del lockdown, che mette insieme tre comuni a cui lei è legata: Casalmaggiore, Sabbioneta e Deruta; i dipinti riportano luoghi simbolo di queste tre cittadine e combaciano tra loro perfettamente in un unicum armonico accompagnato da simboli che hanno caratterizzato il terribile periodo dell'arrivo del covid. L'opera è però divisibile in tre parti che verranno donate ai tre comuni rappresentati; la tecnica è la maiolica artistica, una variante della ceramica.
 


Un'altra chicca dell'inaugurazione della mostra è stata offerta dai ragazzi e dalle ragazze del Polo Romani tra le sale allestite. Ad alcuni studenti e studentesse del liceo classico è stato affidato l'incarico di custodi e guide al palazzo, nell'ambito del progetto 'Apprendisti Ciceroni', attivo in Istituto da tre anni. L'intenzione è quella di sensibilizzare i giovani all'arte e alla bellezza attraverso la scoperta e la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale locale, contribuendo a conservarne la memoria e la trasmissione alle future generazioni.

 


Alcuni di questi studenti, in collaborazione con l'Associazione 'Il Torrione sul Po', hanno ricreato nelle stanze il clima di un passato ricco e sfarzoso per Casalmaggiore, proponendo in costume d'epoca danze accompagnate da musica dal vivo, eseguita su strumenti quali flauto, liuto e organistrum, costruiti dal casalasco Guido Zani.
E a questo proposito ringraziamo i fratelli Zani che sempre si prodigano quando qualcosa di interessante e di bello in Casalmaggiore si muove.
 



 


È un'esposizione di tutto rispetto in un Palazzo che toglie il fiato, rimasto nel buio per tantissimi anni e restituito in tutto il suo splendore alla cittadinanza grazie ad interventi di restauro.
A Casalmaggiore l'arte non manca, né nei luoghi né negli artisti. Officina Coolturale vuole elogiare soprattutto quei giovani carichi di talento e di passione che nonostante incontrino molte difficoltà nel farsi conoscere, non mollano e continuano a stupirci.
 

C'è tempo fino al 10 novembre per ammirare l'esposizione colma di generi, di temi, di tecniche, un vero e proprio vernissage in un contesto meraviglioso, il Palazzo Abbaziale.

 Giovanna Anversa

 


 

 


Focus su Cinzia Quadri:

Cresciuta a Sabbioneta e residente tra la Lombardia e l’Umbria, ha coltivato, fin da tenera età, la passione per l’arte. Gli eventi e i canoni sociali l’hanno portata agli studi economici e ad un lavoro impiegatizio, ma la sua reale passione ha prevalso, inducendola a tornare sul suo vero percorso, quello di arte, pittura e fotografia. Sbizzarrendosi fra le varie tecniche, la prima, che ha sperimentato, è quella dei pastelli acquerellabili, con cui realizza paesaggi con animali, tendenzialmente selvatici, segno di desiderio di libertà dalla routine quotidiana. Con qualunque tecnica, dai gessetti all’olio, l’esplosione dei colori tende ad essere sempre molto forte e brillante, le pennellate regalano sensazioni ed emozioni forti ogni volta, con giochi di luce che impreziosiscono il tutto.

Le creazioni che più la rappresentano sono i quadri a china, realizzati anche su maiolica, su acciaio e ad olio, nati da momenti di ispirazione inconscia, che esprimono emozioni recondite attraverso una sua simbologia libera di immagini intersecate tra loro, anche a parole, poesie, canzoni. A questa tecnica ha trovato un nome “Hindsight”, (letteralmente sarebbe vista posteriore, vedere da dietro… cioè vedere le cose non così come ci appaiono, ma girarci intorno e vederle da lì, dall’angolatura opposta) nel linguaggio parlato, Hindsight si traduce come “il senno di poi”, intendendo una coscienza di qualcosa dopo averla studiata, provata, assorbita. Le sue opere sono complesse, nascondono tanti dettagli e particolari a cui bisogna prestare attenzione per arrivare ad un'interpretazione profonda e completa della realtà. 

Cinzia Quadri, nata per esprimere la sua anima attraverso ogni forma d’arte, ha sempre mostrato una innata vocazione e un talento prodigioso, non solo verso la pittura, frutto di un dono superiore, ma anche verso la musica e la poesia, che coniuga teatralmente su un palcoscenico di segni, immagini, parole e testi musicali. La sua profondità complessa, la sua interiorità poliedrica, i suoi istinti superiori vocati alla ricerca della verità, del senso meno scontato delle cose e della vita stessa, in una sorta di visione preveggente, la guidano nell’interpretazione delle realtà più nascoste, in forma esclusiva, in modalità originale ed estremamente personale.

Le sue opere vanno lette con l’attenzione della passione, con l’interesse dell’amante l’arte e la vita, affinché loro stesse possano leggere attraverso uno sguardo ammirato i suoi segreti più nascosti. Con studi successivi l’artista ha affinato quella dote atavica che ha sempre coltivato come una risorsa preziosa, mostrando risultati sorprendenti fin dall’età più giovane, su più stili, dal personalissimo e inedito Hindsightart ad ogni altro stile pittorico, con cui riesce a interpretare i suoi impulsi e l’anima dell’osservatore. Chi la conosce non può non incantarsi davanti a tanta profondità, passione, sensibilità, espresse in un talento di cui non si intravedono i confini, nell’arte come nella vita, attenta com’è a cogliere e rielaborare le verità meno apparenti, per trasformarle in arte.




Informazioni:

Orari di apertura delle mostre: 9.30-12.30/14.30-18

 Espositori:

Mostra d'arte contemporanea (Palazzo Abbaziale fino al 10/11): Cristina Annichini, Adriano Artoni, Silvio Bombarda, Enrica Cattabiani, Andrea Ghisoni, Ulisse Gualtieri, Mara Isolani, Massimiliano Pasotto, Paride Pasquali, Lorenza Pellini, Cinzia Quadri, Giovanni Sala, Laura Tosi

Comics & Illustrations (Oratorio Maffei fino al 4/11): Silvia Beretta, Nicola Busi, Francesco Gilioli, Sara Raeli, Javier Quintana Sanchez, Federico Sarzi Sartori, Bianca Tassoni

01 novembre 2024

Nato il Primo di Novembre. Mario Rigoni Stern, Il coraggio di dire No.

 Mario Rigoni Stern

Il coraggio di dire No


Nasce il Primo di Novembre del 1921 ad Asiago, nel vicentino. Fortemente legato fin dall'adolescenza alla sua terra e alle sue montagne, compì il servizio militare nel Corpo degli Alpini.
Andò in guerra convinto che fosse la più giusta delle guerre, persuaso dalla propaganda di regime. Prima sul fronte francese, poi due volte all’assalto dell’Unione Sovietica, la cui sconfitta considerava una missione storica. Poi la ritirata, l’abbandono degli alpini sul Don, la sua responsabilità nel cercare di riportare vivi soldati che erano stati abbandonati dal loro stesso esercito. Quindi l’amara scoperta che nessuno, in Patria, aveva raccontato la loro storia. Fu fatto prigioniero dai tedeschi, dopo l’8 settembre del 1943 e rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò.
Tutto questo gli fece prendere coscienza che la guerra probabilmente era stata combattuta dalla parte peggiore.
 


Quel ragazzo, che aveva abbandonato la scuola dopo la terza avviamento professionale, si buttò anima e corpo nella vocazione di narratore e raccontò la guerra dalla parte degli sconfitti. Fù così che Mario Rigoni Stern, nato ad Asiago nel 1921 e lì morto nel 2008, da ufficiale alpino dell’esercito italiano durante il fascismo, diventò uno dei più grandi autori. Così lo definì Primo Levi, italiano ed ebreo che gli italiani in camicia nera mandarono nei campi di concentramento.
Il suo esordio fu con un libro che fece la storia della letteratura italiana: “Il sergente nella neve”.


In questa opera Mario Rigoni Stern racconta la propria storia, nell’inverno del 1943, mentre lui e i commilitoni provano a ripiegare e sottrarsi dall’accerchiamento dell’Armata Rossa. Un pezzo della nostra storia nazionale e un esempio di umanità ed eroismo militare, ma con la consapevolezza postuma di aver combattuto dalla parte del torto.

Il suo era il battaglione “Vestone”, parte dell’Armir. Arrivarono in Russia quando era ormai chiaro che i russi li avrebbero presto circondati. Così arrivò l’ordine di ripiegare. Furono divisi in gruppi e c’era chi rimase a tenere la posizione e coprire le spalle, ma piano piano i militari italiani vennero evacuati e portati nelle retrovie. L’autore fu fra gli ultimi a lasciare l’avamposto. Oramai provato anche mentalmente e traumatizzato, sparava in continuazione e lanciava granate.

 


In qualche modo riuscirono a fuggire, ma verso un inferno di neve e ghiaccio, continuamente sottoposti agli attacchi russi. Quei giorni di marcia stoica, nel gelo, sono raccontati con vividezza di particolari, con le immagini dei corpi abbandonati nella neve, con l’incontro che fece con il cugino, anch’egli alpino e ripiegante, con le piaghe ai piedi. Nel racconto emerge anche l’incontro con i soldati russi, in un’isba, quando sulla guerra prende il sopravvento la necessità di riscaldarsi; si sente la voce di una ragazza che canta, oramai giunti in Bielorussia, e la primavera che addolcisce la terra, la vita che continua, a dispetto degli uomini che continuano a scannarsi tra di loro in una guerra assurda.

Questo e gli altri suoi libri sono classici del Novecento italiano, un ricordo perenne di come i torti di un Paese e del suo regime non sono in grado di cancellare quel che la memoria collettiva fa comunque fatica a digerire.
E sono proprio il coraggio e l’altruismo di chi come Rigoni Stern si rese conto di trovarsi dalla parte sbagliata che restituiscono ai nostri occhi tutta la mostruosità del conflitto.


Stefano Superchi


50 anni di Autobahn (Kraftwerk)

 Kraftwerk, "Autobahn" L'autostrada verso il futuro      Anno domini 1974 , nella Germania che organizza e vince i Mondiali d...