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29 novembre 2024

Le canzoni del mondo perduto di Robert Smith

 Le canzoni del mondo perduto di Robert Smith


 

Abbiamo dovuto attendere 16 anni per uscire dal sogno, peraltro dai contorni piuttosto sfocati, di 4:13 Dream, ultimo album di inediti dei Cure pubblicato nel 2008. Al “risveglio” nell'A.D. 2024 Robert Smith si è trovato catapultato in un mondo di ricordi.

Un mondo sofferto e solenne, dolente e malinconico. Un mondo dissoltosi lentamente. Ciò che è rimasto sono frammenti di vita, what if?, tentativi di riconnettersi ad un passato che si cristallizza nella memoria e che non tornerà.

Resta però la possibilità di volgere lo sguardo indietro, provando “A fare i conti con il tempo che ci è scivolato addosso”. Una frase tratta da “Il lungo addio”, albo capolavoro di Dylan Dog firmato da Tiziano Sclavi, si presta perfettamente – per un'affinità nei temi trattati - all'accostamento con Songs Of A Lost World.

 


Un lungo addio a quel passato declinato in otto splendide canzoni. Senza ombra di dubbio questo è il miglior disco dai tempi di Wish. Era il 1992 e grazie a, tra le altre, Friday I'm In Love, High, A Letter To Elise e From The Edge Of The Deep Green Sea, Smith & soci chiudevano un (altro) periodo straordinario, inaugurato da The Head On Door del 1985 e che si è concluso, appunto, con Wish e la successiva disgregazione di quella line-up.



Sarebbero seguite pubblicazioni interlocutorie (l'omonimo Lp mortificato dalla produzione totalmente off topic di Ross Robinson del 2004), lavori quasi “bipolari” (Wild Mood Swings, dato alle stampe nel 1996) e il colpo di coda di Bloodflowers del 2000. Robert Smith si è fatto aspettare, ma ne è valsa la pena. Nel 2019 i primi annunci di un Lp che iniziava, lentamente, ad entrare nella casistica di altri lost album dei tempi che furono, come Chinese Democracy dei Guns N' Roses o Smile dei Beach Boys.

 


Tornando al caso dei Cure, il pericolo è stato fortunatamente scongiurato. Gli “spoiler” non erano fini a se stessi: il gruppo stava testando i novi pezzi in un tour mondiale, lavorando sui dettagli per migliorare gli inediti. “This is the end of every songs we sing”. La fine di tutte le canzoni che cantiamo. Inizia così - dopo un'intro lunghissima e ipnotica – Alone, traccia d'apertura di Songs Of A Lost World.




Canzoni di un mondo perduto. Passato, senso di perdita, smarrimento e nostalgia i pilastri dell'oscura architrave che sorregge questo disco. Un lavoro epico, magnifico, struggente. Ai vertici delle classifiche internazionali, Songs Of a Lost World riporta non solo ai fasti di Wish, ma soprattuto alle atmosfere di Disintegration, capolavoro di fine anni Ottanta.

 


Brani lunghissimi, intro infinite (quasi un atto sovversivo negli anni dell'ascolto “mordi e fuggi” di Spotify), arrangiamenti perfetti, una scrittura nitida. Non si ravvedono punti deboli in questa raccolta di inediti acclamata dalla critica di mezzo mondo. And Nothing Is Forever - con le tastiere di Roger O'Donnell che aprono per le chitarre di Smith e di Reeves Gabrels (in passato al fianco di David Bowie) - così imponente e solenne nella sua drammaticità, condensa le perdite e il vissuto di Smith quando alcuni dei legami più importanti della sua vita si sono dissolti. Per allontanare uno spettro (“I know that my world is grown old”) la promessa di esserci comunque, fino alla fine. “But it really doesn't matter, If you say we'll be together, If you promise you'll be with me in the end". Ad una A Fragile Thing così vicina al sound di Wish, seguono Warsong e Drone:No Drone.




In quest'ultimo episodio gli intrecci nervosi tra la sei corde di Gabrels e quella di Smith sono al centro della scena. I Can Never Say Goodbye, aperta dal rumore di un tuono, rasenta la perfezione, così come All I Ever Am che scioglie, provvidenzialmente, la tensione accumulata appena prima dell'inizio di Endsong, degno atto conclusivo di un disco definitivo, ambizioso, potente nel raccontare i sentimenti e le emozioni del suo autore. Un lungo e meraviglioso addio. Un commiato ad un mondo perduto.


Lorenzo Costa 

 




 

 


 



Jimi Hendrix: “Una volta morto, sei pronto per la vita”.

Jimi Hendrix 

“Una volta morto, sei pronto per la vita”



James Marshall Hendrix, detto “Jimi” nasce il 27 novembre 1942 a Seattle, da Al Hendrix e Lucille Jeter; scrivere qualcosa di originale su di lui è impresa pressoché impossibile. Di sicuro è considerato all’unanimità il più grande chitarrista elettrico di tutti tempi e il suo strumento lo ha suonato in tutti modi, anche i meno convenzionali, con i denti, con il gomito o con l’asta del microfono.



Origini che intrecciano geni Cherooke e messicani, i suoi primi anni di vita sono non stati dei più felici. Prima che Jimi nascesse, il padre fu arruolato dall’esercito per andare a combattere nel Pacifico e tornò tre anni dopo. La vita inizia subito tra mille difficoltà dovute alle scarse cure della madre, diciasettenne, che non era in grado di accudirlo e lo abbandonò.

 


Finita la guerra, il padre va in California per riprendersi il figlio che era stato dato in affido. Tornato a Seattle, i due furono raggiunti dalla madre Lucille e per qualche anno Jimi visse con la sua famiglia. Nascono altri fratelli, ma solo Leon viene riconosciuto dal padre. I frequenti litigi tra Al e Lucille, dovuti all’eccesso di alcool, costringevano spesso Jimi e suo fratello Leon ad essere ospitati da parenti. Dopo qualche anno Al e Lucille divorziano, Jimi e Leon rimangono col padre.

 


Al era sempre al lavoro oppure al bar a bere e a scommettere, e i due fratelli crescono per strada. Una giovinezza divisa tra problemi scolastici e rapporti difficili con le donne, eredità dalle brutte esperienze dei genitori. Nel 1958 Lucille morì e Al non volle portare i figli al funerale della madre; versò loro un bicchiere di whisky in cucina e disse: «Così fanno i veri uomini!».
Per Jimi, la scomparsa della madre e il non poter partecipare al funerale fu un trauma vero e proprio. La sua àncora di salvezza diventerà la musica, una chitarra di seconda mano con la quale Jimi si esercita ispirandosi ai grandi del blues, imitando e rubando quanto più poteva.




La musica diventa un “rifugio” e la chitarra una confidente, un’amica, un’estensione del suo corpo. A 17 anni il suo rendimento scolastico è talmente sconfortante da spingerlo ad abbandonare gli studi. Una sera insieme ad altri amici viene fermato dalla polizia su un’auto rubata e davanti al giudice deve scegliere: o si arruola nell’esercito oppure sconta la pena in riformatorio. Il giovane Jimi entra così a far parte del corpo dei paracadutisti e viene mandato nel Kentucky, dove incontra Billy Cox, un giovane soldato con la passione per il basso che nel tempo diventerà un punto di riferimento nella sua vita. Ma Hendrix è insofferente alle regole della caserma e abbandona la carriera militare, sempre più deciso a inseguire il suo sogno di diventare un musicista professionista.
 


Inizia un viaggio che durerà più di tre anni attraverso gli Stati Uniti, suonando in locali scalcinati come session man in band di Rhythm & Blues tra cui Solomon Burke e Little Richard, ma ben presto capisce che non è roba per lui. Lui ha dentro il sacro fuoco, vuole scrivere la sua storia e la sua musica in modo personale, come mai nessuno aveva fatto prima.



 

Nel 1966 mentre suona a New York nel Cafè Wah come frontman del suo gruppo “Jimmy James and the Blue Flames”, incontra Chas Chandler, bassista degli Animals, il quale intravede in Jimi la scintilla giusta, quella che può trasformare un giovane girovago sregolato in un asso del blues. Chas convince Hendrix a seguirlo in Inghilterra per inseguire in modo più concreto il successo tanto desiderato, e Jimi non si fa pregare. I primi tempi sono irrequieti e stimolanti allo stesso tempo: Chandler si impegna a insegnargli l’arte di essere un vero frontman affiancandogli due musicisti di livello, Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria. Nasce così un power trio che farà la storia: The Jimi Hendrix Experience. Con il disco d’esordio Hey Joe e con l’album Are You Experienced, polverizzano ogni record ed arrivano dritti nel cuore della scena musicale inglese.

 



Dopo la straordinaria esibizione di Monterey del 1967, la band gira senza sosta per gli States e per l’Europa raccogliendo consensi ovunque, e Jimi vive il suo periodo di massima creatività, che sfocia nella produzione dei due album Axis: Bold as Love e Electric Ladyland. Jimi è ufficialmente una star.



Il 1968 è l’anno più intenso della sua carriera, tour interminabili e produzione ininterrotta di nuovi pezzi da dare in pasto al pubblico affamato di novità. L’anno successivo i componenti del trio, sfiniti dai tour e dagli impegni, decidono che è arrivata l’ora di sciogliersi e ad agosto Hendrix partecipa al festival di Woodstock con una nuova formazione, un esperimento di breve durata. Durante il concerto Hendrix mette in scena un pezzo che resterà nella storia del rock e nella memoria collettiva, la versione distorta dell’inno nazionale americano, accolta con clamore dall’opinione pubblica americana, sempre restia ad accettare riletture di un simbolo culturale sacro e intoccabile.
 

Dopo il Festival di Woodstock, Jimi farà una breve esperienza con la “Band of Gypsys”, e nella primavera del 1970 uscirà l’omonimo disco con la registrazione del memorabile concerto di Capodanno al Fillmore East di New York, mentre è impegnato a lavorare nei suoi nuovi innovativi studios, gli Electric Lady. A fine agosto partirà di malavoglia per il suo ultimo tour europeo, dove suonerà anche all’Isola di Wight. Poche settimane dopo, il 18 settembre, Jimi interromperà improvvisamente la sua vita terrena nel Pronto Soccorso del Saint Mary Abbot’s Hospital di Londra, per intossicazione da barbiturici.
 


Proprio la mattina di quel 18 settembre era atterrato a Londra il famoso compositore e direttore d’orchestra Gil Evans, che doveva incontrarsi con Hendrix per prendere accordi per alcune registrazioni con la sua Orchestra e per quell’inverno erano previste le session con Miles Davis.
Come scrive il critico Paolo Galori, l’ultimo Hendrix fu “un musicista solo e visionario, pronto a volare ancora più in alto, fino a bruciarsi le ali, distrutto dagli eccessi nel disperato tentativo di non replicare se stesso di fronte a chi gli chiede prove della sua divinità“.

 



Occorre però fare un passo indietro per ampliare lo sguardo oltre il dettaglio dei giorni che hanno preceduto il decesso, come hanno ben fatto Enzo Gentile e Roberto Crema nel libro “The story of life. Gli ultimi giorni di Jimi Hendrix”, con la prefazione del fratello, Leon Hendrix.



Nel libro si cerca di raccontare un Jimi meno conosciuto, meno star da spolpare da parte dei media. Il racconto mainstream di Hendrix è stato troppo spesso condito da disinformazione, pregiudizi, speculazioni tese a demonizzare un fronte artistico e culturale che, di lì a poco, avrebbe contagiato ampissime fasce di pubblico.
 


 

Si racconta di un Jimi che parla a cuore aperto, dove emerge l’aspetto umano di un giovane uomo che si vede proiettato verso un futuro imminente che non avrà tempo di vivere. Sono le affermazioni di un ragazzo di ventisette anni che confessa candidamente di volersi fermare, per ripensare e rifondare completamente la sua architettura sonora, troppo legata alla dimensione iconica che le cronache hanno puntualmente inviato da ogni latitudine, e che Jimi sente ormai come una gabbia: Hey Joe, Purple Haze, Voodoo Chile dovranno essere messi alle spalle per procedere verso territori nuovi, liberi, impronosticabili.


    «È strano il modo in cui la gente dimostra il proprio amore per chi muore. Devi morire prima che ti riconoscano qualcosa. Una volta morto sei pronto per la vita.»


Un Jimi Hendrix desideroso di cambiare pelle, di evolversi, di studiare musica, di dedicarsi alla composizione in una tranquillità che lui, sistematicamente assediato dal mondo, mai era riuscito ad avere.
Una prospettiva che urta pesantemente con la routine della rockstar maledetta a cui ci ha abituato una certa letteratura di maniera. Hendrix voleva espandere le sue conoscenze e la sua tecnica, amplificare una spiritualità capace di dialogare, attraverso la chitarra e un’intera orchestra, con chi voleva seguirlo.

 


Tutt’altro che lo schiavo del demone della droga dipinto dai media, un clichè in cui lo stesso ambiente musicale avrebbe voluto vederlo e conservarlo all’infinito. Lo spiega anche il fratello Leon che accusa il girone infernale che si era impossessato della quotidianità di suo fratello: «Jimi è stato ucciso» dice, mettendo nel mirino i manager, le agenzie, i discografici, i giornalisti, le groupies, che avevano sempre qualcosa da chiedere, pretendere, guadagnare dal lavoro e dalla musica di Hendrix.


 

La narrazione postuma di Jimi Hendrix sarà fittissima, ricca di dischi, filmati, testi, contributi, tutti tesi a dipingere un fenomeno che in realtà era capace di sfuggire ogni spiegazione logica, perché Jimi era un alieno della musica.
Jimi era un alieno del Novecento e non ci resta che prendere atto del suo avvento e del suo passaggio su questa terra, godendo delle sue opere immortali e della sua anima pura e variopinta.


Stefano Superchi


 



25 novembre 2024

Celebration: Auguri, Bernardo!

Celebration: Auguri, Bernardo!


foto: Alberto Terrile

Un’estate di circa vent’anni fa, nel periodo delle scuole medie, ricordo una serata della Fiera di Piazza Spagna nella nostra Casalma City. Tanta gente in piazza, praticamente piena. Musica, un gelato e un caldo non ancora atroce, insomma una di quelle serate estive dove si può respirare il meglio della stagione senza prendere fuoco.
Suonava un compaesano, come mi ha spiegato mio papà in quel momento e per quanto il genere mi suonasse già gradito non avevo ancora messo a fuoco granché personaggi e nomi (a parte i Pink Floyd, quelli ormai li avevo già ben chiari, e come potrebbe essere altrimenti).
Ricordo che alcune cose su tutte mi svegliano dal torpore estivo di quel momento e che mi si stampano in testa in quel complessivo gradevole sottofondo musicale: “È festa” (“Celebration”), “Impressioni di Settembre” e un curioso strumento che si suona appoggiato alla gola.

 


L’artista è il nostro Bernardo Lanzetti e il compleanno che celebriamo è il suo. Il 21 novembre per la precisione.

Se è vero che “còi ad Casalmagiùr is vànta da par lùr” (ed è vero), questo nome lo conoscono anche le pietre del listone e certamente rientra nel calderone di motivi per vantarsi. Possiamo tentare, in occasione del suo compleanno, di scovare qualche interessante curiosità nascosta, almeno per i più pischelli.

 


Il nostro ha militato nella PFM alla voce dal 1975 al 1979 sostenendo anche i tour giapponesi, ha fondato e militato negli Acqua Fragile dal 1971 al 1975, per poi ritornare nella band sui nuovi progetti a partire dal 2013.
 


Forse gli Acqua Fragile possono suonare meno impattanti della più celebre PFM. A questo proposito è interessante scoprire che dal 2012 ad oggi è intercorsa una battaglia legale (vinta finalmente) per l’utilizzo di un campionamento di traccia degli AF (per la precisione “Cosmic Mind Affair” del 1973) non accreditata nel brano “Genesis” di Busta Rhymes che dà il nome all’album omonimo del 2001. Vista l’età del rapper, classe 1972, potremmo fantasticare sul vinile degli Acqua Fragile sullo scaffale di casa del rapper, che passa alla radio dal barbiere come si vede nei film o (certamente  più realistico) che in un modo o nell’altro faccia parte del background musicale del rapper americano.

 


Questo potrebbe stupire, per quanto ami il genere ha stupito anche me sul momento. In realtà scavando un po’ non era inusuale per l’epoca. Gli Acqua Fragile d’altronde per chi non lo sapesse cantano in inglese, scelta coraggiosa che creò non pochi problemi nella distribuzione sul mercato italiano, come si apprende dallo stesso Bernardo (LINK). Si apprende anche che all’epoca di “Jet Lag” nel periodo PFM la registrazione avviene in America e l’album viene pubblicato dall’Elektra (l’etichetta che pubblicò i Doors, la butto lì).

Meraviglioso il titolo dell’articolo che trovate al link sopra ("A lezione di storia del prog con Bernardo Lanzetti"): ad ascoltare le storie che Bernardo ci potrebbe raccontare si navigherebbe nel prog italiano e si incontrerebbero anche lidi e ultra personaggi stranieri che hanno fatto la storia, credo ci si potrebbe trovare tutta una serie di Easter Eggs musicali sull’epoca. Insomma, noi di Officina Coolturale non ci tireremo certo indietro!



Parentesi autoreferenziali a parte, resta l’importanza e il vanto di un talento di questo calibro per chiunque e soprattutto per i maggiorini e casalaschi di ogni età. Citiamo infine, sempre per continuare su questo filone, la recente partecipazione di Bernardo a The Voice Senior. Ancor meglio, la partecipazione a X Factor 2024 di una concorrente con il Glovox inventato dal maestro, giustamente citato dalla stessa (LINK) (stavo seguendo e lì, giustamente, son saltata dalla sedia!).

 

Per concludere, possiamo solo rinnovare gli auguri al maestro Lanzetti, augurandoci di sentire prima o poi molte altre lezioni di prog da chi il prog lo ha fatto. E molto bene.

Gaia Beranti








24 novembre 2024

"Il popolo delle donne. Il film" di Yuri Ancarani

"Il popolo delle donne. Il film"

di Yuri Ancarani


Il 25 novembre, lo sapete, è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. È superfluo dire che non è sufficiente ricordarsi solo in questa data che il tema della violenza è una emergenza sociale, ormai strutturale. Su questo argomento è stato scritto tutto, anche se, visiti i risultati, non è mai abbastanza. I numeri sono molto chiari, per chi li vuole vedere e non ne vuole fare un uso di mera propaganda politica.
Noi, che proviamo ad occuparci di cultura, vogliamo vedere la questione attraverso gli occhiali dell’arte, che non sono lenti deformanti ma ci aiutano a riflettere in modo diverso su questo fenomeno che ormai sembra inarrestabile.
Lo facciamo parlando di “Il popolo delle donne. Il film” di Yuri Ancarani.

Yuri Ancarani, nato a Ravenna nel 1972 è un video artista e film-maker italiano. Le sue opere nascono da una continua commistione fra cinema documentario e arte contemporanea e sono il risultato di una ricerca spesso tesa ad esplorare regioni poco visibili del quotidiano, realtà in cui l’artista si addentra in prima persona.


Il film di Ancarani porta alla ribalta per la prima volta il rapporto fra la crescente affermazione sociale delle donne e l’aumento della violenza sessuale maschile, fenomeni che nel corso del film vengono descritti come direttamente proporzionali.

Quanto più il mondo delle donne viene alla ribalta, tanto più si acuisce la violenza insofferente di una parte del mondo maschile. Un fenomeno opposto a quanto generalmente si supponeva anche in ambito scientifico.

Protagonista del documentario è la psicoterapeuta e psicoanalista Marina Valcarenghi, professionista che vanta quarantacinque anni di lavoro clinico. La Valcarenghi nel film sottolinea come l’insicurezza femminile sopravviva anche ai nostri giorni, nonostante la progressiva conquista di autonomia economica e sociale. Su questo argomento la psicoterapeuta ha scritto due volumi: Ho paura di me. Il comportamento sessuale violento (Mondadori 2009) e L'Insicurezza (Mondadori 2005), basandosi su un lavoro di anni che l'ha portata, per prima, ad introdurre la psicoanalisi in carcere, nei penitenziari di Opera e di Bollate, lavorando per più di un decennio nei reparti di isolamento maschile con detenuti in gran parte condannati per reati di violenza sessuale. 

 


L'incontro tra il regista e la Valcarenghi, che ha dato corpo e forma alla stesura de Il popolo delle donne, è avvenuto nel corso delle riprese per la realizzazione di Atlantide, documentario che Ancarani nel 2021 ha dedicato agli adolescenti del territorio veneziano e che ha richiesto, anch'esso, il supporto di professionisti della psicanalisi.

Ne "Il popolo delle donne. Il film", Marina Valcarenghi tiene una lectio magistralis in un cortile della Università degli Studi di Milano, documentata in presa diretta. La protagonista siede in cattedra, appare calma, la sua immagine è raccolta da tre angolazioni differenti e progressivamente l’obiettivo passa dal mezzo busto al suo sguardo. Gli unici elementi che entrano nella composizione sono i fogli di carta con gli appunti, una bottiglia e un orologio da polso. In alcuni momenti, l’inquadratura si apre accogliendo anche agli studenti che circondano la protagonista in un vero e proprio incontro generazionale.


La voce di Marina Valcarenghi, con le pause del suo discorso, scandisce il ritmo del film. Il sonoro include i suoni di un campanile, i rumori di sottofondo dell’università e alcuni brani acustici che aprono e chiudono la narrazione. Le parole della psicanalista ripercorrono stralci di testimonianze di uomini violenti, raccolte nei tribunali, nel corso di colloqui in carcere o durante le sedute presso il suo studio. Riflessioni sulle dinamiche relazionali degli ultimi trent’anni della storia italiana si mescolano a ricordi legati al lavoro di analisi, facendo emergere le paure della società legate alla dicotomia tra donna e uomo e lo sfociare di violenze private, fisiche e verbali.

 


Il titolo del film deriva da alcuni passaggi del monologo della protagonista e rappresenta un pensiero rivoluzionario che auspica un giorno le donne possano sentirsi parte di un’unica grande comunità, accomunata da istanze condivise e da battaglie da intraprendere in una dimensione collettiva.

Stefano Superchi 

 

 

 

 






 

22 novembre 2024

Massimo Mattioli, l’eclettismo fatto fumettista

 Massimo Mattioli

l’eclettismo fatto fumettista

 


Nel 1985 alla barriera doganale degli Stati Uniti vengono bloccate 1.500 copie di “Squeak the Mouse”, con la motivazione che sarebbe stato «materiale osceno e pornografico».
Lo raccontò nel 2019, nella sua ultima intervista, Massimo Mattioli, il fumettista che quell’opera l’aveva disegnata e sceneggiata.
 


Mattioli è stato un autore prolifico e universale, nel senso che ha toccato tanti generi e tanti “pubblici” lontanissimi fra loro, sia nel fumetto italiano che in quello internazionale.
Nel 1977 fondò con Stefano Tamburini la rivista di fumetto underground “Cannibale”, un progetto probabilmente troppo avanti per i tempi, che durò un paio di anni per 9 numeri complessivi, coinvolgendo fuoriclasse come Andrea Pazienza e Tanino Liberatore. Malgrado il relativo flop la rivista avrà una grande importanza perché aprirà la strada al periodico “Frigidaire”, caposaldo italiano del settore, edito per ben 28 anni.
 



È proprio per “Frigidaire” che Mattioli crea il suo «osceno e pornografico» “Squeak the Mouse”. In questa nuova rivista, realizzata sempre con Tamburini con l’aiuto di Vincenzo Sparagna de “Il Male”, collabora anche con il fumettista Filippo Scozzari.
 

 

Nelle storie il topo Squeak ingaggia col suo antagonista (un gatto) una lotta senza quartiere che spesso lo vede spiattellato e maciullato. Praticamente una versione truculenta di “Tom & Jerry” con sangue, squartamenti e decapitazioni che William Hanna e Joseph Barbera mai si sarebbero sognati di fare.
L’apparizione nel fumetto di corpi nudi femminili stabilisce, se mai ce ne fosse stato bisogno, una distanza abissale fra Squeak e Jerry, portando al massimo dell’iconoclastia questa parodia degli animali antropomorfi. 

 

Lo spirito bacchettone dei doganieri di Washington (di cui si parlava all’inizio dell’articolo) scatena qundi un polverone, ma Mattioli viene difeso dall’accusa di pornografia da Françoise Mouly, editrice della rivista statunitense di alternative comics “Raw” nonchè moglie del famosissimo fumettista Art Spiegelman.
Paradossalmente il caso e l’interessamento della Mouly gioca a favore di Mattioli e aiuta a far conoscere la vicenda al grande pubblico. Fra quelli che la seguono con maggior interesse sembra infatti esserci anche un certo Matt Groening, il papà dei “Simpson”. E non sembra un caso l’estrema somiglianza di Itchy & Scratchy, che in italiano diventeranno Grattachecca e Fichetto, la coppia di antagonisti omicidi, parodia granguignolesca di “Tom & Jerry” inserita all’interno dell’inossidabile serie sulla famiglia Simpson, con le storie di “Squeak the Mouse”.
 



Una coincidenza che mai nessun tribunale ha chiarito, soprattutto perché Mattioli non se n’è mai curato.
Anche perchè il topo omicida è soltanto una delle oscillazioni del suo pendolo creativo, che nel 1973 aveva già creato il fumetto del coniglietto rosa Pinky, pubblicato per oltre quarant’anni su “Il Giornalino”. 


 

Il pubblico infantile a cui si rivolge la pubblicazione stimola il fumettista a trovate poetiche stravaganti e magiche, come la stella che perde il suo gigantesco calzino puzzolente in una delle vie della città. E ancora prima aveva realizzato il leggiadro “M le magicien”, il «mago grande quanto un fiore», per la rivista francese “Pif Gadget”.





Mattioli è una centrifuga impazzita di creatività, nel 1993 pubblica le avventure del gatto nero “AWOP-BOP-ALOOBOP ALOP-BAM-BOOM” sulla rivista “Cyborg”, ma le storie comico fantascientifiche di “Joe Galaxy”, metà papero metà aquila, appaiono su “Il Male” già nel 1979.
 


Da ricordare anche le imprese splatter del supereroe “Superwest” uscite sulle pagine di “Frigidaire” nel 1981.
Un moto perpetuo creativo che oscilla tra delicatezza e storie estremamente crude, unite dal filo di un umorismo dissacrante e atipico che iscrive Mattioli fra le file degli irregolari della narrativa disegnata: l’unico incasellamento possibile per questo artista, uno dei simboli del fumetto alternativo italiano.

Stefano Superchi

 




21 novembre 2024

Stefano Ventura, il ciclo compiuto

 Stefano Ventura,

il ciclo compiuto

 


Di lui hanno già scritto in molti, lui che si è aperto un varco nell’arcobaleno delle parole e ne ha fatto arte, oggi parecchio riconosciuta. Ma come si diventa scrittori dopo essere stati, fino alla pensione, insegnanti di ginnastica, e al diavolo “scienze motorie” come la si chiama oggi. Partiamo dal fatto che Stefano Ventura, prima che insegnante e scrittore, è un uomo intelligente, colto, sensibile e soprattutto buono.

In un periodo particolare, un bisogno, esigenze nuove, ma forse neanche tanto, suonano un campanello flebile ma insistente. Gli ospiti, attaccati a quel campanello sono due: pittura e scrittura; sperimentate entrambe, la pittura si rivela un “anche no” la scrittura “un forse sì”.   
    


       
Per scherzo nascono pensieri e racconti brevi che diventano due, tre, dieci…. il primo libro, “Dal sole alla luna - tra passato presente e futuro”, ambientato in un immaginario passato, poi nel presente, per finire in un lontanissimo e surreale futuro, è il primo dei dieci libri di Stefano Ventura. Questa nuova e avvincente avventura prosegue e sortisce una serie di opere ambientate nell’antichità: Impero Romano, Spagna della fine del 1400 e Casalmaggiore, testimone degli ultimi momenti di vita del Parmigianino.

 



Dopo queste opere assistiamo ad una virata verso altri mondi e all'inizio di un periodo artistico molto interessante, sia dal punto di vista narrativo che storico / letterario / archeologico / mitologico. Nasce una "serie” per dirla in slang, una trilogia il cui fil rouge catapulta il lettore in una delle più avvincenti civiltà sepolte, la civiltà Inca, una serie che invece che da Netflix viene catturata da Armando Curcio editore.

 


Attratto da sempre dall’antichità e dalla cultura classica Stefano studia, si informa, cerca e, addentro al mondo Inca, si imbatte in una parola ricorrente: Quipu, insieme di cordicelle annodate che fu sistema di conteggio e comunicazione. La curiosità lo induce ad approfondire e nasce “Il Codice Inca” il primo della trilogia a cui daranno seguito “L’enigma della Croce Inca” e “Il segreto della Vergine Inca” un viaggio di studio nella storia antica, nel mito e nella fantasia.

 



I gemelli archeologi, Demian e Soledad, personaggi della trilogia, si trasferiscono in Egitto e riappaiono nel “Monile d’Avorio”. Ma veniamo ad oggi, il 2024 vede la nascita di “Il ciclo Compiuto” ultimo fuoco d’artificio di Ventura, ultimo per comparsa cronologica ma che assolutamente non porta con sé la parola fine, altre pozioni bollono nel pentolone. Ambientato in due mondi apparentemente distanti, si sviluppa tra Alessandria d’Egitto attorno al terzo secolo AC, sotto il regno di Re Tolomeo II, detto il Filadelfo, e una misteriosa isola del mediterraneo dove il crudele giudice Adam vuole imporre le dure regole dell’Acabar (fantasia).

 


Da una parte abbiamo Re Tolomeo, che voleva arricchire la sua biblioteca con tutti i testi esistenti sulla terra, emana un editto in cui si legge che, tutti i testi scritti esistenti nel mondo, dovevano essere portati ad Alessandria ed essere trascritti; il Re avrebbe poi restituito le copie tenendosi l’originale. Dall’Oriente arriva lo studioso Aristea che porta i suoi scritti, prevalentemente religiosi, e ne approfitta per approfondire la sua conoscenza sul tema prendendo a prestito i testi che arrivano da altre civiltà e culture che studia, confronta e soppesa.

 


Quando si reca a restituirle, il bibliotecario lo interroga, gli chiede cosa ha tratto da quelle letture. Aristea risponde di averle trovate tutte interessanti fatta eccezione per la Torah che invece denota dei vuoti: mancano punti salienti che le impediscono di essere un insieme omogeneo. Inoltre, non essendo scritta in greco, lingua al tempo più diffusa, la maggior parte delle persone non la può consultare. Per ovviare bisogna rivolgersi al Gran Sacerdote del tempio di Gerusalemme, Eleazaro, il quale invierà 72 saggi ad Alessandria per trarne la corretta traduzione, impresa che si tingerà di giallo.

 


Ad un tratto la scena cambia: ora siamo in un’isola, immaginaria, una Macondo qualunque dove il potente giudice Adam vuole far terminare la vita dei cittadini che hanno raggiunto i 72 anni con una sorta di rituale chiamato Acabar. L’anziano, portato in cima a una rupe, è gettato sotto dal proprio figlio, mentre entrambi mostrano un sorriso; prima del rito i due masticano l’erba “oenante crocata” che provoca contrazioni facciali simili ad un sorriso sardonico. Se Il numero 72, così come il mito e la storia, appaiono in entrambi i mondi sarà la figura del giudice il principale trait d’union tra di essi.  

 


Il tema del fine vita, tanto discusso ultimamente, la vicenda di Michela Murgia e il suo libro Acabadora, colei che pone fine, sortiscono in Stefano l’idea di una visione fantastica e personale “dell’amore, della morte e di altri demoni”.

Tanti sono i temi e gli spunti, primi fra tutti il diritto all’autodeterminazione.

Restiamo ora in attesa della prossima eruzione vulcanica del prof-scrittore, altro talento di terra nostra.   

Giovanna Anversa

 


 

L’autore: STEFANO VENTURA

Appassionato di storia antica e di civiltà perdute,
STEFANO VENTURA ha fatto della sua passione un’arte. Ha pubblicato, tra gli altri, la trilogia di racconti Dal Sole alla Luna (2013); Cosmas l’eroe dell’Impero (2014); La spada damasco (2015), tradotto anche in spagnolo nel 2017, presentato in diretta streaming presso il Palafiori di Sanremo in occasione del 66° Festival della canzone italiana; e Francesco Girolamo (2016), del quale è stata realizzata una riduzione teatrale.
Per Armando Curcio Editore ha pubblicato:
Il codice Inca (2019, tra i 10 finalisti di Sanremo Writers e vincitore del Premio Ithan Show Award Napoli); L’enigma della croce Inca (2020), finalista al Premio letterario nazionale Mario Soldati; Il segreto della vergine Inca (2021); Il monile d’avorio (2022, 2° premio al Concorso letterario Argentario-Caravaggio e menzione speciale Casa Sanremo Writers 2024).


 




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