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29 novembre 2024

Jimi Hendrix: “Una volta morto, sei pronto per la vita”.

Jimi Hendrix 

“Una volta morto, sei pronto per la vita”



James Marshall Hendrix, detto “Jimi” nasce il 27 novembre 1942 a Seattle, da Al Hendrix e Lucille Jeter; scrivere qualcosa di originale su di lui è impresa pressoché impossibile. Di sicuro è considerato all’unanimità il più grande chitarrista elettrico di tutti tempi e il suo strumento lo ha suonato in tutti modi, anche i meno convenzionali, con i denti, con il gomito o con l’asta del microfono.



Origini che intrecciano geni Cherooke e messicani, i suoi primi anni di vita sono non stati dei più felici. Prima che Jimi nascesse, il padre fu arruolato dall’esercito per andare a combattere nel Pacifico e tornò tre anni dopo. La vita inizia subito tra mille difficoltà dovute alle scarse cure della madre, diciasettenne, che non era in grado di accudirlo e lo abbandonò.

 


Finita la guerra, il padre va in California per riprendersi il figlio che era stato dato in affido. Tornato a Seattle, i due furono raggiunti dalla madre Lucille e per qualche anno Jimi visse con la sua famiglia. Nascono altri fratelli, ma solo Leon viene riconosciuto dal padre. I frequenti litigi tra Al e Lucille, dovuti all’eccesso di alcool, costringevano spesso Jimi e suo fratello Leon ad essere ospitati da parenti. Dopo qualche anno Al e Lucille divorziano, Jimi e Leon rimangono col padre.

 


Al era sempre al lavoro oppure al bar a bere e a scommettere, e i due fratelli crescono per strada. Una giovinezza divisa tra problemi scolastici e rapporti difficili con le donne, eredità dalle brutte esperienze dei genitori. Nel 1958 Lucille morì e Al non volle portare i figli al funerale della madre; versò loro un bicchiere di whisky in cucina e disse: «Così fanno i veri uomini!».
Per Jimi, la scomparsa della madre e il non poter partecipare al funerale fu un trauma vero e proprio. La sua àncora di salvezza diventerà la musica, una chitarra di seconda mano con la quale Jimi si esercita ispirandosi ai grandi del blues, imitando e rubando quanto più poteva.




La musica diventa un “rifugio” e la chitarra una confidente, un’amica, un’estensione del suo corpo. A 17 anni il suo rendimento scolastico è talmente sconfortante da spingerlo ad abbandonare gli studi. Una sera insieme ad altri amici viene fermato dalla polizia su un’auto rubata e davanti al giudice deve scegliere: o si arruola nell’esercito oppure sconta la pena in riformatorio. Il giovane Jimi entra così a far parte del corpo dei paracadutisti e viene mandato nel Kentucky, dove incontra Billy Cox, un giovane soldato con la passione per il basso che nel tempo diventerà un punto di riferimento nella sua vita. Ma Hendrix è insofferente alle regole della caserma e abbandona la carriera militare, sempre più deciso a inseguire il suo sogno di diventare un musicista professionista.
 


Inizia un viaggio che durerà più di tre anni attraverso gli Stati Uniti, suonando in locali scalcinati come session man in band di Rhythm & Blues tra cui Solomon Burke e Little Richard, ma ben presto capisce che non è roba per lui. Lui ha dentro il sacro fuoco, vuole scrivere la sua storia e la sua musica in modo personale, come mai nessuno aveva fatto prima.



 

Nel 1966 mentre suona a New York nel Cafè Wah come frontman del suo gruppo “Jimmy James and the Blue Flames”, incontra Chas Chandler, bassista degli Animals, il quale intravede in Jimi la scintilla giusta, quella che può trasformare un giovane girovago sregolato in un asso del blues. Chas convince Hendrix a seguirlo in Inghilterra per inseguire in modo più concreto il successo tanto desiderato, e Jimi non si fa pregare. I primi tempi sono irrequieti e stimolanti allo stesso tempo: Chandler si impegna a insegnargli l’arte di essere un vero frontman affiancandogli due musicisti di livello, Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria. Nasce così un power trio che farà la storia: The Jimi Hendrix Experience. Con il disco d’esordio Hey Joe e con l’album Are You Experienced, polverizzano ogni record ed arrivano dritti nel cuore della scena musicale inglese.

 



Dopo la straordinaria esibizione di Monterey del 1967, la band gira senza sosta per gli States e per l’Europa raccogliendo consensi ovunque, e Jimi vive il suo periodo di massima creatività, che sfocia nella produzione dei due album Axis: Bold as Love e Electric Ladyland. Jimi è ufficialmente una star.



Il 1968 è l’anno più intenso della sua carriera, tour interminabili e produzione ininterrotta di nuovi pezzi da dare in pasto al pubblico affamato di novità. L’anno successivo i componenti del trio, sfiniti dai tour e dagli impegni, decidono che è arrivata l’ora di sciogliersi e ad agosto Hendrix partecipa al festival di Woodstock con una nuova formazione, un esperimento di breve durata. Durante il concerto Hendrix mette in scena un pezzo che resterà nella storia del rock e nella memoria collettiva, la versione distorta dell’inno nazionale americano, accolta con clamore dall’opinione pubblica americana, sempre restia ad accettare riletture di un simbolo culturale sacro e intoccabile.
 

Dopo il Festival di Woodstock, Jimi farà una breve esperienza con la “Band of Gypsys”, e nella primavera del 1970 uscirà l’omonimo disco con la registrazione del memorabile concerto di Capodanno al Fillmore East di New York, mentre è impegnato a lavorare nei suoi nuovi innovativi studios, gli Electric Lady. A fine agosto partirà di malavoglia per il suo ultimo tour europeo, dove suonerà anche all’Isola di Wight. Poche settimane dopo, il 18 settembre, Jimi interromperà improvvisamente la sua vita terrena nel Pronto Soccorso del Saint Mary Abbot’s Hospital di Londra, per intossicazione da barbiturici.
 


Proprio la mattina di quel 18 settembre era atterrato a Londra il famoso compositore e direttore d’orchestra Gil Evans, che doveva incontrarsi con Hendrix per prendere accordi per alcune registrazioni con la sua Orchestra e per quell’inverno erano previste le session con Miles Davis.
Come scrive il critico Paolo Galori, l’ultimo Hendrix fu “un musicista solo e visionario, pronto a volare ancora più in alto, fino a bruciarsi le ali, distrutto dagli eccessi nel disperato tentativo di non replicare se stesso di fronte a chi gli chiede prove della sua divinità“.

 



Occorre però fare un passo indietro per ampliare lo sguardo oltre il dettaglio dei giorni che hanno preceduto il decesso, come hanno ben fatto Enzo Gentile e Roberto Crema nel libro “The story of life. Gli ultimi giorni di Jimi Hendrix”, con la prefazione del fratello, Leon Hendrix.



Nel libro si cerca di raccontare un Jimi meno conosciuto, meno star da spolpare da parte dei media. Il racconto mainstream di Hendrix è stato troppo spesso condito da disinformazione, pregiudizi, speculazioni tese a demonizzare un fronte artistico e culturale che, di lì a poco, avrebbe contagiato ampissime fasce di pubblico.
 


 

Si racconta di un Jimi che parla a cuore aperto, dove emerge l’aspetto umano di un giovane uomo che si vede proiettato verso un futuro imminente che non avrà tempo di vivere. Sono le affermazioni di un ragazzo di ventisette anni che confessa candidamente di volersi fermare, per ripensare e rifondare completamente la sua architettura sonora, troppo legata alla dimensione iconica che le cronache hanno puntualmente inviato da ogni latitudine, e che Jimi sente ormai come una gabbia: Hey Joe, Purple Haze, Voodoo Chile dovranno essere messi alle spalle per procedere verso territori nuovi, liberi, impronosticabili.


    «È strano il modo in cui la gente dimostra il proprio amore per chi muore. Devi morire prima che ti riconoscano qualcosa. Una volta morto sei pronto per la vita.»


Un Jimi Hendrix desideroso di cambiare pelle, di evolversi, di studiare musica, di dedicarsi alla composizione in una tranquillità che lui, sistematicamente assediato dal mondo, mai era riuscito ad avere.
Una prospettiva che urta pesantemente con la routine della rockstar maledetta a cui ci ha abituato una certa letteratura di maniera. Hendrix voleva espandere le sue conoscenze e la sua tecnica, amplificare una spiritualità capace di dialogare, attraverso la chitarra e un’intera orchestra, con chi voleva seguirlo.

 


Tutt’altro che lo schiavo del demone della droga dipinto dai media, un clichè in cui lo stesso ambiente musicale avrebbe voluto vederlo e conservarlo all’infinito. Lo spiega anche il fratello Leon che accusa il girone infernale che si era impossessato della quotidianità di suo fratello: «Jimi è stato ucciso» dice, mettendo nel mirino i manager, le agenzie, i discografici, i giornalisti, le groupies, che avevano sempre qualcosa da chiedere, pretendere, guadagnare dal lavoro e dalla musica di Hendrix.


 

La narrazione postuma di Jimi Hendrix sarà fittissima, ricca di dischi, filmati, testi, contributi, tutti tesi a dipingere un fenomeno che in realtà era capace di sfuggire ogni spiegazione logica, perché Jimi era un alieno della musica.
Jimi era un alieno del Novecento e non ci resta che prendere atto del suo avvento e del suo passaggio su questa terra, godendo delle sue opere immortali e della sua anima pura e variopinta.


Stefano Superchi


 



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