Le canzoni del mondo perduto di Robert Smith
Abbiamo dovuto attendere 16 anni per uscire dal sogno, peraltro dai contorni piuttosto sfocati, di 4:13 Dream, ultimo album di inediti dei Cure pubblicato nel 2008. Al “risveglio” nell'A.D. 2024 Robert Smith si è trovato catapultato in un mondo di ricordi.
Un mondo sofferto e solenne, dolente e malinconico. Un mondo dissoltosi lentamente. Ciò che è rimasto sono frammenti di vita, what if?, tentativi di riconnettersi ad un passato che si cristallizza nella memoria e che non tornerà.
Resta però la possibilità di volgere lo sguardo indietro, provando “A fare i conti con il tempo che ci è scivolato addosso”. Una frase tratta da “Il lungo addio”, albo capolavoro di Dylan Dog firmato da Tiziano Sclavi, si presta perfettamente – per un'affinità nei temi trattati - all'accostamento con Songs Of A Lost World.
Un lungo addio a quel passato declinato in otto splendide canzoni. Senza ombra di dubbio questo è il miglior disco dai tempi di Wish. Era il 1992 e grazie a, tra le altre, Friday I'm In Love, High, A Letter To Elise e From The Edge Of The Deep Green Sea, Smith & soci chiudevano un (altro) periodo straordinario, inaugurato da The Head On Door del 1985 e che si è concluso, appunto, con Wish e la successiva disgregazione di quella line-up.
Sarebbero seguite pubblicazioni interlocutorie (l'omonimo Lp mortificato dalla produzione totalmente off topic di Ross Robinson del 2004), lavori quasi “bipolari” (Wild Mood Swings, dato alle stampe nel 1996) e il colpo di coda di Bloodflowers del 2000. Robert Smith si è fatto aspettare, ma ne è valsa la pena. Nel 2019 i primi annunci di un Lp che iniziava, lentamente, ad entrare nella casistica di altri lost album dei tempi che furono, come Chinese Democracy dei Guns N' Roses o Smile dei Beach Boys.
Tornando al caso dei Cure, il pericolo è stato fortunatamente scongiurato. Gli “spoiler” non erano fini a se stessi: il gruppo stava testando i novi pezzi in un tour mondiale, lavorando sui dettagli per migliorare gli inediti. “This is the end of every songs we sing”. La fine di tutte le canzoni che cantiamo. Inizia così - dopo un'intro lunghissima e ipnotica – Alone, traccia d'apertura di Songs Of A Lost World.
Canzoni di un mondo perduto. Passato, senso di perdita, smarrimento e nostalgia i pilastri dell'oscura architrave che sorregge questo disco. Un lavoro epico, magnifico, struggente. Ai vertici delle classifiche internazionali, Songs Of a Lost World riporta non solo ai fasti di Wish, ma soprattuto alle atmosfere di Disintegration, capolavoro di fine anni Ottanta.
Brani lunghissimi, intro infinite (quasi un atto sovversivo negli anni dell'ascolto “mordi e fuggi” di Spotify), arrangiamenti perfetti, una scrittura nitida. Non si ravvedono punti deboli in questa raccolta di inediti acclamata dalla critica di mezzo mondo. And Nothing Is Forever - con le tastiere di Roger O'Donnell che aprono per le chitarre di Smith e di Reeves Gabrels (in passato al fianco di David Bowie) - così imponente e solenne nella sua drammaticità, condensa le perdite e il vissuto di Smith quando alcuni dei legami più importanti della sua vita si sono dissolti. Per allontanare uno spettro (“I know that my world is grown old”) la promessa di esserci comunque, fino alla fine. “But it really doesn't matter, If you say we'll be together, If you promise you'll be with me in the end". Ad una A Fragile Thing così vicina al sound di Wish, seguono Warsong e Drone:No Drone.
In quest'ultimo episodio gli intrecci nervosi tra la sei corde di Gabrels e quella di Smith sono al centro della scena. I Can Never Say Goodbye, aperta dal rumore di un tuono, rasenta la perfezione, così come All I Ever Am che scioglie, provvidenzialmente, la tensione accumulata appena prima dell'inizio di Endsong, degno atto conclusivo di un disco definitivo, ambizioso, potente nel raccontare i sentimenti e le emozioni del suo autore. Un lungo e meraviglioso addio. Un commiato ad un mondo perduto.
Lorenzo Costa
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