Crac! (1975)
Di capelloni, mele rosse e diplofonie
In questa strana estate che non sa bene dove sta di casa, prima burrasche in ogni dove e poi si schiatta di afa, prevale l’incertezza. Mare o non mare, trovo il fresco o forse no, bello il sole ma poi c’è caldo. In mezzo a questi problemi esistenzialissimi direi, mi inserisco anche io. Vai, mi lancio sugli Area… e adesso cosa scrivo?
13/06/1975: esce “Crac!” degli Area.
13/06/1979: Demetrio Stratos ci lascia orfani di una delle voci meno voce più incredibili del panorama italiano, internazionale, forse mondiale.
Veramente difficile scriverne, davvero. Non sapere da che parte cominciare, come disse il calzolaio al millepiedi.
Parto con un’ammissione di colpa, forse non così inutile perché temo condivisa da molti: gli Area, alla fine, li studio da pochi anni. Ma perché?
gli AREA ritratti da Andrea Pazienza |
Mi faccio aiutare dall’ ironico ma lucidissimo Stefano Belisari e i suoi Elii. Nella loro dedica in musica agli Area sembra chiaro il problema. La loro musica in qualche modo è diventata uno status symbol di pubblico schierato, in anni e in aree metropolitane dove forse era più vitale uno schieramento. Il messaggio invece era ben oltre questo: la musica come strumento per abbattere le barriere, le bandiere sono altro. Nè più nè meno di altri del tempo, solo con linguaggi diversi. La specialità degli Area è averlo fatto in Italia con elementi di genere e con uno strumento d’eccezione. Jazz elettronico, che sulla carta è molto figo ma all’ascolto è un casino pazzesco per un orecchio non allenato. Ma sono davvero così alieni? Da dove nasce questa volontà? Perché farsi del male, sacrificando anche la comprensione del pubblico?
Analizzando per un secondo il panorama italiano, siamo in pieno periodo cantautorale: in testa alle vendite in Italia “Rimmel” di De Gregori, “Anima Latina” di Battisti, l’omonimo “Vol VIII” di De Andrè, se vogliamo tracciare una tendenza. E che tendenza.
Quello che può sembrare molto lontano dai nostri protagonisti in realtà non lo è poi così tanto. L’anima latina di Battisti si traduce in una ricerca di coinvolgimento dell’ascoltatore, sporcare musicalmente per stimolare l’attenzione, affinare l’orecchio per cogliere il messaggio. Sulla stessa onda De Andrè e De Gregori, che collaborano anche ai rispettivi lavori. Sembra tracciarsi chiara la tendenza, alternativa al bel canto e ai (e alle) grandi interpreti (che comunque sono in classifica nel 1975). Gli Area inseriscono l’album in questo contesto avendo già all’attivo lavori della medesima direzione.
“Gioia e Rivoluzione” il pezzo più masticabile dal quale partire per i neofiti del genere, l’unico pezzo dell’album con ritmica stabile per tutta la sua durata, senza guizzi, unica adatta alle classifiche anche solo per lunghezza, ma con già elementi importanti. Abilità strumentale portentosa e quasi inarrivabile per esempio, che diventa virtuosismo incredibili con ogni strumento in altre tracce del disco. Poi, con lo strumento che non ti aspetti, la voce di Stratos. L’unico in Italia ad aver sperimentato con le corde vocali e sfruttato la propria predisposizione per andare sempre oltre, dalle diplofonie in avanti.
E che sarà mai?
Immaginate di voler estendere la voce, per una volta non nella dimensione dell’acuto e del grave. Immaginate una dimensione trasversale, non si vuole allungare un nastro in avanti o all’indietro, ma frammentarlo in più parti. Immaginate di spezzarlo in due e che una persona possa cantare contemporaneamente entrambe.
Demetrio non è stato l’unico a farlo, ma nessuno come lui ha esplorato in questo senso (almeno a livello italiano) anche scientificamente collaborando con il CNR per ampliare le possibilità di questa tecnica e studiando i popoli che già ne avevano perfezionato l’utilizzo (per dirla alla Battiato attraverso Giuni Russo, “le trifonie dei mongoli” in “Una Vipera sarò”, ne riparleremo per forza). Attinge dalla sua conoscenza della World Music e studia, sperimenta, apprende e sorprende.
Ancora una volta, confini che saltano e muri che si abbattono.
Proseguirà la ricerca soprattutto da solista (se volete rimanere a bocca aperta, “Cantare la voce”), fino alla prematura morte. Non il bel canto da intrattenere o passare in radio, si viaggia su binario parallelo che ad una certa spicca il volo con te povero fesso a guardare dal basso, ma a cercare di prenderlo. È musica che eleva, che chiama su, che richiede sforzo ma premia, con la perenne sensazione di volare alto. “La Mela di Odessa” e “L’elefante bianco” su tutte, per approfondire maggiormente di cosa si sta parlando.
Sulla prima, una iniziale parte di virtuosa improvvisazione di disordine disciplinatissimo e serrato, poi la sessione di canto con la strana storia di una mela “rossa, più rossa”, oniricamente ispirata a detta dello stesso Stratos a un dirottamento navale del 1920 e una strana storiella di tedeschi e russi.
Sulla seconda, le percussioni sembrano scappare, il basso le rincorre e si tira dietro il resto della combriccola in una crescente tensione che si placa per accogliere Demetrio, che poi fa ripartire il carrozzone.
Concludiamo questo piccolo viaggio sottolineando che i testi, per quanto a volte non immediati, hanno spiccata volontà di guardarsi intorno nell’attualità, non tanto per dare indicazioni politiche quanto per denunciare un ventennio sporcato dal piombo, in una disperata volontà di uscirne. Citando lo stesso Demetrio, in vena polemica ma anche esplicativa: “C’è una continua ricerca sperimentale. Come dice Adorno (filosofo e musicologo tedesco del 900, ndr): in una società tecnologizzata devi usare i mezzi... non posso andare in giro con la chitarra a raccontare le miserie personali... La nostra è una musica di oggi, racconta il pessimismo della strada. Contesto la Premiata (il gruppo musicale della PFM, ndr). In questo momento storico, in cui buttano le bombe a Brescia, trovo stupido che facciano "Dolcissima Maria"... è assurdo!”.
Gaia Beranti
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