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05 febbraio 2024

TI RACCONTO UNA STORIA (#1) - SALÀM DAY di Giampietro Lazzari

 TI RACCONTO UNA STORIA

Inauguriamo una serie di racconti brevi di Giampietro Lazzari , scrittore per passione.


Giampietro Lazzari, da tanti detto Geppa, scrive, descrive e racconta, è un uomo dalla penna facile e veloce ma non è uno scrittore qualunque: è la storia e la memoria di casa nostra, il sentimento e la riflessione che elevano senza mai portarci troppo lontano dalla nostra terra e dal nostro fiume, senza sradicarci. Innamorato di storie comuni o bizzarre del luogo, si diverte ad ascoltarle con occhi e orecchi vigili e attenti e a raccontarle dopo averle veicolate tra i nervi scoperti della sua sensibilità finché prendono forma sul foglio bianco, finalmente pronte per essere lette.

Inizia scrivendo di piccoli accadimenti di vita quotidiana, divertenti o meno, per lui significativi sia nella gioia che nel dolore, racconta della realtà a noi vicina ossia il paese, le compagnie storiche, le abitudini, i personaggi “tipo “che si sono susseguiti negli anni, le emozioni, le voglie, le speranze che ci hanno animato e quando si tratta di storie personali, siano da lui vissute in prima persona o come spettatore, quasi sempre sono calate nel nostro contesto.

Molto abile nei passaggi tra passato e presente, i suoi scritti non sono solo lo specchio di ciò che aravamo: da un ricordo particolare, da un luogo d’incontro quale poteva essere un bar, una cantina, da quel giro in vespa o dal temporale che in estate ci coglieva così, all’improvviso, ecco lo scatto di come siamo diventati oggi. Può sembrare un banale déjà-vu ma dentro vi è intensità di analisi e sentimento, di emozioni, vi è una purezza quasi fanciulla che disarma e spoglia, che toglie le scaglie inquinate della nostra ormai decadente e maleodorante corazza.

Un Guareschi ritrovato nel suo saper riportare a galla le belle cose dimenticate: l’amicizia, la semplicità, la complicità, l’altruismo, la goliardia, qualche eccesso, che guai se non ci fosse stato; ma anche il ricordo, la memoria e i valori che furono dei nostri padri e dei nostri nonni, nelle storie sentite o viste da bambino, quelle percepite sulla pelle nuda e viva dove nulla scivola ma si ferma e vi sprofonda restituendo un misto di memoria e nostalgia paragonabili all’odore del pane caldo, insomma un amarcord nel quale perdersi a sorridere e a pensare. Negli anni il suo stile così vicino al realismo muta e si evolve in una miscellanea armoniosa e ben dosata di vero e verosimile.

Negli ultimi racconti assistiamo ad una evoluzione stilistica: pur partendo dal vero, vi si nasconde anche qualcosa di inventato, difficile da scorgere subito, perché inserito in riflessioni, elucubrazioni e fantasticherie un po’ meno rustiche e più mature e lo stile si fa più raffinato e ricercato quasi aulico. I racconti ad oggi sono circa una cinquantina, i primi pubblicati nel libro “TI RACCONTO UNA STORIA” reperibile sul sito Feltrinelli, altri su testate locali, alcuni, di cui è più geloso, concede lettura solo a pochi intimi e sicuramente qualche altro mai uscito dal cassetto. Geppa è una creatura a cui non sfugge nemmeno uno soffio di vita, lui respira ascoltando, piange suonando e canta scrivendo. Eh già, già, già Giampietro suona pure la tromba, adora la musica, il jazz in particolare, l’arte, le mostre, le belle città e i paesaggi da meditazione, ama il suo fiume, la sua fidanzata di sempre, gli amici e la famiglia, si potrebbe dire come tutti, vero, ma non tutti sanno tradurre, evidenziare e condividere le emozioni importanti della vita che è poi la vita di ognuno

Geppa, scrittore per passione e non per mestiere, è una voce narrante del nostro territorio, la sua gente e quei frammenti di vita che sono di tutti, non ha solo la penna d’oro ma la sensibilità di accendere una luce, puntare un faro su un vissuto che sentiamo nostro, di fermare immagini del passato e ripotarle ancora fresche e vive nel presente per non dimenticare, in era globale e digitale, la nostra storia e chi siamo. Non c’è malinconia fine a sé stessa, piuttosto voglia di riportare come si era e come, volendo, si potrebbe ancora essere narrando momenti veri e felici. Le opere recenti di stile più introspettivo e filosofico da una parte e antropologico dall’altra mantengono il contatto e il senso di appartenenza a quegli anni in cui i rapporti tra le persone ruotavano, genuini e crudi, istintivi e goliardici, attorno a sentimenti veraci e veri come l’amicizia, lo stare in gruppo, il bonario spettegolare e l’aiutarsi quando ce n’era bisogno.

Giampietro, un Guareschi post Guareschi, che amiamo perché ci osserva, ci conosce, ci racconta… parla di noi e di quando la vita era ancora nostra.

Vincitore di più premi letterari ha all’attivo anche alcune pubblicazioni. In questo angolo a lui dedicato vi proponiamo oggi “Il Salàm Day” il racconto che fu la spinta e il motore a continuare e che ce lo presentò in veste di scrittore.


Giovanna Anversa


 




Salàm Day

La storia dell’umanità è disseminata di giorni singoli che vengono ricordati per la loro importanza o di ricorrenze dense di significato.

Chi non ricorda il “D-day” dello sbarco in Normandia, oppure il “twin towers day”, Il giorno delle torri gemelle di più recente tragica memoria? Negli States festeggiano il “thanksgiving day”, il giorno del ringraziamento,  e “l’indipendence-day”. In ambito politico si moltiplicano gli “election day”. A volte, in occasione di qualche evento mediato attraverso internet, ci siamo imbattuti nel “click day”.

Insomma i “day” si sprecano.

Noi, tanto tempo fa, avevamo il “salàm day”.
 


Salàm, da non confondere con il saluto arabeggiante,  stava per salame, e salàm-day - ovviamente - stava per “Il Giorno del Salame”.

Si, hai capito bene  amico mio, il giorno del salame.

Il giorno in cui la incondizionata dedizione di noi, gruppo di sei o sette amici, andava tutta per quello straordinario insaccato delle nostre terre per il quale nutrivamo un serio amore.

Tralascerò i pensieri, ancorché legittimi, sulla provenienza animale delle sue carni e su taluni aspetti truculenti del sacrificio suino. Ciò non perché io abbia il cuore duro, dal momento che col tempo mi ritrovo sempre più sensibile al mondo dei nostri amici animali - ai quali porto una personale quanto incondizionata stima - ma  piuttosto per una esigenza di brevità narrativa.

Sai bene per altro quanto questo salume rappresenti per le nostre genti un qualcosa di importante.

Tenevamo il salàm-day a metà primavera, o poco prima, ovvero quando il prodotto, creato dai conoscenti norcini qualche mese addietro, aveva raggiunto una maturazione tale da non essere né troppo giovane né troppo stagionato.  Quando insomma la freschezza delle carni era stata ingentilita dalle nebbie, e dal riposo a testa in giù, nelle cantine muffose.

Ed era proprio in una minuscola frazione del nostro paese, che una di queste cantine si faceva santuario del nostro ristretto rito pagano fatto di gesti misurati.

Il giorno del salàm-day veniva collegialmente stabilito già parecchio tempo prima. Il salàm-day, del resto, aveva un posto di privilegio tra le ricorrenze importanti nella nostra singolare suddivisione del tempo.

A quell’epoca infatti, quasi abbandonato l’uso del calendario gregoriano, amavamo scandire l’anno solare non tanto con le ricorrenze della gente normale - tipo, i natali, i carnevali, le pasque, i ferragosti, - ma piuttosto con un nostro speciale calendario che al posto dei mesi o delle ricorrenze istituzionali annoverava gli eventi ritenuti per noi di maggiore rilievo. E, così facendo, anche la sequenza cronologica ne risultava modificata.

Il nostro capodanno, ad esempio, era rappresentato dal primo maggio, data nella quale, da sempre, tenevamo una grande festa agreste piena di amici, famiglie e pure bambini.

La prima stagione si concludeva in luglio, il giorno della calata dei lumini sul grande fiume. La metà dell’anno, più avanti, corrispondeva con la “cena di Santa Lucia”, alla metà di dicembre, nella casa di un amico chiamato “micio” per una stramba somiglianza coi felini.

Poi ancora, a seguire, annoveravamo quell’incredibile gioco collettivo chiamato “mercante in fiera”, forse la tradizione più antica, quasi sacrale, da tenersi rigorosamente la notte della vigilia di natale in un posto segreto.

Degli altri pochi eventi, punti cardinali delle nostre vite di allora, ti dirò più avanti, compreso il varo del gommone per la stagione di pesca e la gara dei rutti, della quale un po’ ci siamo sempre vergognati.

In verità se qualcuno ci avesse sentito discorrere tra noi del passare del tempo e delle nostre ricorrenze fitte di incongruenze inspiegabili, avrebbe senza dubbio ritenuto che fossimo degli squilibrati.

Immaginate sentire dei tizi che dicano ad esempio: "speriamo che a capodanno faccia fresco perché la grigliata in cortile con il troppo caldo non viene bene". Cose così...

Ti lascio immaginare.

Il salàm-day rientrava comunque a pieno diritto in una di queste fondamentali tappe che scandivano il nostro anno.

 

Ti dicevo dunque del luogo, la cantina.

La cantina era proprio quella di una volta, scura e rigorosamente priva di alcun tributo alla modernità. Porta in legno e terra battuta come pavimento; soffitto in pietre e traverse di rovere massiccio; una finestrella minuscola, quasi un pertugio, munito di sbarre, larga il poco appena da fare entrare qualche lingua di luce. Botti vecchie incrostate di tartaro di potassio. Qualche attrezzo dimenticato. Lunghe file di bottiglie di vino color del sangue. Un tavolaccio, qualche sedia impagliata rosicchiata dai roditori. Un paio di trappole per topi di quelle a tagliola. Ovunque ragnatele, straordinarie opere di ragni tessitori; e tanta, tanta buona umidità e frescura.

Nella cantina di mia nonna del resto ci ero andato spesso a dormire quando nelle notti d’estate padane il caldo e le zanzare rendevano impossibile il sonno in altri ambienti. Ed era un bel dormire.

Arrivato il gran giorno, il padrone di casa - Franco - uomo di rare virtù nonché amico e sacerdote di cerimonia, ci accoglieva sull’aia dell’abitazione rurale invitandoci a dimenticare almeno per quel giorno, tutto il resto dell’esistente, i suoi guai e le sue seccature.

Quello era il nostro giorno. Quello era il “salàm-day”. E non c’era molto da aggiungere.

Entravamo nel locale, e loro - i salami - erano lì ad aspettarci immobili ormai da qualche mese.

Pendevano dal soffitto appesi nelle loro corde, attaccati ai chiodi infissi nelle travi oppure a quelle specie di ancore alle quali stavano aggrappati a gruppi più fitti.

Li avevamo aspettati per tanto tempo, come i bambini aspettano i regali, ed anche loro stessi, i salami,  sembrava dimostrassero un po’ di felicità ed una forma di saluto quando qualcuno di essi cominciava dolcemente ad ondeggiare, mosso dal tocco del padrone di casa che ne tastava la consistenza.

Una volta entrati la porta veniva chiusa dall’interno, ed attraverso la finestrella di cui ti dicevo, la vecchissima chiave arrugginita della cantina veniva consegnata all’esterno al fratello di Franco, con il tassativo ordine di non venirci ad aprire prima di sera tarda e per nessun motivo.

Questa era una regola che ci eravamo imposti già dai primi anni. Il salàm-day era un momento importante. Andava rispettato e pertanto nulla doveva disturbare questo nostro rito. La chiusura forzata era una specie di sigillo e nello stesso tempo di garanzia contro ogni distrazione.

Consapevoli di questo, l’atto della consegna della chiave all’esterno era connotato da una certa solennità, un po’ come se il fratello fosse il camerlengo che chiudesse i cardinali nella cappella Sistina il giorno della elezione del sommo pontefice.

Auto segregati forzosamente nella cantina il salàm-day aveva inizio.

Dapprima, quasi in fila, ci aggiravamo con le mani dietro la schiena ed il viso rivolto verso l’alto, nella scelta degli esemplari migliori, esaminandoli accuratamente. Una volta valutati i salami degni di aprire la cerimonia, essi venivano deposti sul tavolo e privati delle corde. Già delle belle forme di pane fresco unite ad altre di pan biscotto stavano sul tavolaccio dentro un cestino di vimini. Alcuni bicchieri bassi da osteria completavano quel desco semplice. Null’altro.

Franco mi riservava sempre il taglio della prima fetta, nella consapevolezza di farmi un apprezzato onore. Tagliare un salame può dirsi semplice; in verità è un gesto che necessità di naturalezza e va fatto senza esitazioni. Ogni gesto era misurato, attento, e volutamente lento.

La coltellina - affilatissima - come un archetto da violino si muoveva orizzontalmente ed affondava nelle prime fette, e su questo gesto immediatamente si apriva l’annosa discussione sul loro spessore. I puristi, come me, mal tolleravano le fette troppo spesse. Ci voleva misura anche in quello, dicevo! la fetta troppo spessa non avrebbe permesso di sentire bene il profumo. Altri, al contrario, esigevano un taglio più dimensionato. Pertanto si alternavano sottigliezze a grossolanità, non senza qualche levata di voce.

L’umanità, anche in quel caso come in molti altri del vivere, si divideva in due, ed è per questo forse, riflettevamo, che gli uomini non avrebbero mai trovato accordo fra loro.

Naturalmente, mano a mano che le fette venivano tagliate e mangiate con voluttà, si riempivano e si vuotavano anche i bicchieri, con quel buon vino che lascia la camicia sulla superficie del vetro, e che il buon Dio sembrava avesse donato agli uomini apposta per accompagnare il salame.

Le ore trascorrevano così, in bella compagnia.

Il fascio debole di luce che entrava dalla finestrella giocava con le ombre delle nostre figure sedute, come in un qualche dipinto di Caravaggio, e con il passare del tempo rendeva sempre più scura la stanza, tanto che poco più avanti era necessario accendere alcune candele dal momento che la cantina era naturalmente priva di elettricità, tale che l’atmosfera si faceva ancor più carbonara.

I nostri discorsi, che partivano sempre dalla qualità del prodotto dell’anno, fetta dopo fetta, bicchiere dopo bicchiere, si spostavano su altri argomenti, ed alla fine, sulle nostre vite e sul mondo.

In quei frangenti, ed in quello stare insieme, totalmente estraniati dalla realtà, perdevamo spesso la percezione del tempo. I colpi sull’uscio dati dal fratello di Franco che veniva a ricordarci che era oramai sera profonda e che era ora di andare, ci coglievano sempre di sorpresa, increduli che già il salam-day fosse terminato.

Ce ne andavamo, sazi e contenti, non senza averci reciprocamente promesso, con solennità, che ci saremmo trovati l’anno successivo, in corrispondenza di quel nostro evento importante.

Ma ogni manifestazione umana, sia essa positiva o negativa, come ebbe a dire un tempo un uomo di straordinario valore,  ha un inizio ed una fine, ed anche il salàm-day, per motivi che oggi non ricordo, non sfuggì a questa regola e volse al tramonto. E da molti anni ormai.

Tuttavia, se sarai attento, di quei tempi un barlume è rimasto.

Quando in occasione di qualche merenda estiva - magari sotto un portico - ci si ritrova a casa di uno o dell’altro, nell’atto di affondare il coltello sulla prima fetta di un buon salame, noterai che gli affiliati di quel passato evento si scambiano occhiate complici in silenzio, ed una luce brilla nei loro occhi, come a dirsi: "noi c’eravamo... noi lo abbiamo fatto il salàm-day…"


Giampietro Lazzari

 

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