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29 maggio 2025

Brian Eno, il non-Musicista Universale

 BRIAN ENO

IL NON-MUSICISTA UNIVERSALE


Tra i grandi nati nel mese di maggio c'è anche Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno, per gli amici solo Brian Eno, anzi Eno.
Nato il 15 maggio 1948 nel Suffolk (Inghilterra), Brian Eno più che un musicista, è un artista pluri-sfaccettato e innovativo, un architetto del suono, un visionario della musica contemporanea, figura centrale e rivoluzionaria del secondo Novecento e oltre. Polistrumentista, compositore, produttore, teorico e artista multimediale, Brian Eno ha ridefinito i confini dell’ascolto, portando la sperimentazione sonora in territori prima inesplorati, con una visione che ha influenzato profondamente non solo la musica ambient, di cui è considerato il padre fondatore, ma anche il rock, il pop, l'elettronica, la musica generativa e l'arte sonora.
 


Studia pittura e teoria musicale alla Ipswich Art School e successivamente al Winchester Art College, dove si avvicina a John Cage e alla musica aleatoria. Nel 1971 entra nella band Roxy Music, inizialmente come tecnico del suono e manipolatore elettronico. Il suo ruolo era tutt’altro che convenzionale: non suonava strumenti tradizionali, ma processava in tempo reale le sonorità con un sintetizzatore EMS VCS 3 dando vita ad effetti impressionanti, nuovi e straordinari. Nonostante la sua presenza scenica, corredata di piume e make-up, lo rendesse visivamente iconico ed istrionico, il suo contributo principale fu sonoro: è Eno a introdurre nel rock un’idea non lineare, quasi pittorica, della musica, praticamente un Kandinsky delle note.


 


Dopo due album pazzeschi (Roxy Music e For Your Pleasure), Eno lascia la band a causa di tensioni con Bryan Ferry, ed é allora che inizia il suo percorso personale e rivoluzionario.
 


I primi dischi da solista, Here Come the Warm Jets, Taking Tiger Mountain (By Strategy), Another Green World e Before and After Science, tutti nati negli anni '70, fondono pop d’avanguardia, sperimentazione elettronica e costruzioni melodiche sghembe, anticipando molte delle derive della new wave e del post-punk. In particolare Another Green World è un punto di svolta: le strutture cominciano a frammentarsi, lo spazio sonoro si dilata, e l’elemento atmosferico prende il sopravvento.
 


Nel 1975 un incidente automobilistico lo costringe a letto e lo induce a riflettere sul modo in cui la musica può riempire l’ambiente. Da questo nasce Discreet Music, manifesto della musica ambient, termine che egli stesso conierà, sonorità che dovevano migliorare l'atmosfera di un luogo o di una stanza, proprio come fanno l'illuminazione o la carta da parati. Seguiranno album fondamentali come "Ambient 1: Music for Airports", in cui il suono anziché invadere lo spazio lo arreda, in un equilibrio architettonico tra presenza e assenza, tra casualità e progettazione, tra vuoto e pieno.

 


 

Parallelamente, Eno si impone come produttore innovativo. Con David Bowie firma la trilogia berlinese  "Low", “Heroes” e "Lodger" dove esplora ritmi spezzati, manipolazioni elettroniche e atmosfere sospese. Con i Talking Heads e David Byrne porta l’afrofunk nel rock occidentale e sviluppa il concetto di “studio come strumento compositivo” (Remain in Light, 1980).



 
A consacrarlo definitivamente al grande pubblico è il suo lavoro con gli U2: insieme a Daniel Lanois, famoso musicista e produttore canadese che ha lavorato coi più grandi del tempo, produce The Unforgettable Fire e soprattutto The Joshua Tree, in cui il suono si fa vasto, mistico, cinematografico, siamo in pieni anni '80. La collaborazione con la band irlandese proseguirà nei decenni, fino a Achtung Baby, All That You Can’t Leave Behind e No Line on the Horizon.
 
 

Brian Eno è anche un teorico della creazione sonora. Le sue Oblique Strategies, un mazzo di carte concettuali per sbloccare la creatività in studio, sono state usate da artisti in ogni campo. È stato tra i primi a sperimentare la musica generativa, componendo brani non finiti, ma in continua trasformazione grazie ad algoritmi. Ha collaborato con sviluppatori software, ha progettato installazioni audiovisive in musei e gallerie di tutto il mondo, e ha pubblicato testi fondamentali come A Year with Swollen Appendices (1996).

 



Negli anni recenti ha sviluppato app come Bloom, che permettono agli utenti di “comporre” ambienti sonori interattivi, e ha proseguito il suo lavoro tra arte, filosofia, ecologia e impegno politico, un precursore e un pioniere della tecnologia più avanzata.
Ma Brian Eno non è solo un pioniere ma un inventore, un architetto visionario che pone al centro la dimensione atmosferica e spaziale del suono e utilizza la musica per creare paesaggi sonori che regalano atmosfere rilassanti e suggestive. 



Anni ruggenti i 60/70/80 in cui la musica e suoi artisti han regalato al mondo opere, vibrazioni ed emozioni irripetibili e immortali, opere che fluttuano nell'aria anche dopo l'apocalisse.

Giovanna Anversa




25 maggio 2025

Addio a Sebastião Salgado, il fotografo della verità in bianco e nero

 Addio a Sebastião Salgado, il fotografo della verità in bianco e nero

 


Più volte candidato al premio di "fotografo dell'anno", Sebastiao Salgado è scomparso all’età di 81 anni. Documentarista, contraddistinto da uno stile unico e personale, ha ispirato molti artisti emergenti. Sebastião Salgado era un fotografo umanista, considerato uno dei più grandi fotografi dei nostri tempi. Le sue immagini hanno documentato gli aspetti più controversi del mondo contemporaneo: il dolore umano derivante dallo sfruttamento, l’orrore delle guerre e il disfacimento ecologico.




 

La vita di Sebastiao Salgado

Sebastião Ribeiro Salgado nasce l’8 febbraio 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, in Brasile. A 16 anni si trasferisce nella vicina Vitoria, dove finisce le scuole superiori e intraprende gli studi universitari in economia. Nel 1967 sposa Lélia Deluiz Wanick. Dopo ulteriori studi a San Paolo, i due si trasferiscono prima a Parigi e quindi a Londra, dove Sebastião lavora come economista per l’Organizzazione Internazionale per il Caffè. Nel 1973 torna insieme alla moglie a Parigi. Qui inizia la sua carriera di fotografo, prima come freelance e poi per l’agenzia fotografica Sygma documentando la rivoluzione in Portogallo, la guerra in Angola e le vicende del Mozambico.




Salgado viaggiò molto in America Latina, fino al 1983. Questa propensione al viaggio gli consentì di pubblicare “Altre Americhe”, un grande affresco sui modi di vita e le condizioni di lavoro dei contadini.
Verso la metà degli anni ’80 spostò i suoi interessi verso l’Africa. Queste immagini confluirono nei suoi primi libri. Nel 1994 fondò, insieme a Lélia Wanick Salgado, l’agenzia Amazonas Images, che distribuiva il suo lavoro.

 

Tra il 1986 e il 2001 si dedicò principalmente a due progetti. La fine della manodopera industriale su larga scala con il libro “La mano dell’uomo”, quindi l’umanità in movimento, profughi e rifugiati, ma anche immigranti verso le immense megalopoli del Terzo Mondo, in due libri di grande successo: “In cammino” e “Ritratti di bambini in cammino”.

 


Le sue immagini di una popolazione di emarginati colpirono profondamente l’opinione pubblica e ben presto venne considerato come uno dei più grandi “fotografi umanisti”. Fu Rappresentante Speciale dell’UNICEF e membro onorario dell’Accademia delle Arti e delle Scienze negli Stati Uniti.
Si meritò più di un meritato e prestigiosio premio: lo Eugene Smith Award for Humanitarian Photography nel 1982, l’Erna and Victor Hasselblad Award nel 1989, il Grand Prix de la Ville de Paris nel 1991, l’Award Publication dell’International Center of Photography e il World press photo.



Genesi

Nel 2013 Salgado ha completato un progetto a lungo termine chiamato “Genesi”, un viaggio fotografico nei cinque continenti che attesta la bellezza del nostro pianeta. “Genesi” segna un profondo cambiamento nell’opera fotografica di Salgado. Per la prima volta non mette al centro della sua documentazione l’uomo, ma immagini di animali e di paesaggi naturali.

 


Il fotografo associa questa sua decisione alla profonda disperazione seguita al genocidio in Ruanda nel 1994, durante il quale furono uccise almeno 800.000 persone.
Ma c’è un altro cambiamento, epocale per un fotografo, un cambio tecnico. Salgado iniziò "Genesi" usando una macchina fotografica analogica, ma si vide costretto a cambiare in corsa al digitale, a causa della maggiore facilità di trasporto e dei problemi con gli scanner dopo gli attentati dell’11 Settembre.

 


Salgado, diversamente dal passato, non fotografa ciò che viene distrutto, ma ciò che è ancora incontaminato, per mostrarci quello che dobbiamo preservare. Nonostante la bellezza estetica tanto cara a Salgado, “Genesi” non ha la forza degli altri progetti, dal punto di vista politico. Le immagini del fotografo brasiliano sembrano diventare neutrali: bellissime e preziose immagini della biodiversità del pianeta che finiscono, tuttavia, solo nell’essere contemplate.




Lo stile delle foto di Sebastiao Salgado

Il bianco e nero è il biglietto da visita di Sebastiao Salgado. Nelle sue fotografie è dolente, intriso di sofferenza. Le stampe raffigurano una fuga senza sosta, un tormento continuo, dalle nuove schiavitù al martirio di interi paesi sconvolti dalla guerra. Le opere si ispirano a quelle dei maestri europei, con un pizzico di cultura sudamericana. Parlano di realtà calpestate, del non rispetto per i diritti dei lavoratori, della povertà e degli effetti distruttivi dell’economia di mercato nei paesi più deboli.

 

Salgado è stato spesso criticato a causa della sua attenzione all’estetica, che risultava in contrasto con gli argomenti trattati. Durante la registrazione di eventi tragici e dolorosi, il fotografo brasiliano crea opere che incarnano l’idea di bellezza. Il critico Ingrid Sichy affermò a tal proposito che: “abbellire la tragedia umana produce immagini che alla fine rafforzano la nostra passività verso l’esperienza che rivelano“, tuttavia, attraverso questa bellezza formale, le immagini di Salgado divennero simboliche e universali.

 


La forza di Salgado è proprio nell’unione tra il contenuto dei suoi reportage e la perfezione formale e compositiva del suo lavoro. Il linguaggio fotografico è legato all’estetica, un linguaggio scritto con la luce, da ammirare in silenzio.

 


Salgado e la fotografia analogica e digitale

Salgado ha scattato sempre nel modo tradizionale, usando pellicola fotografica in bianco e nero e tre fotocamere: una Leica reflex con obiettivo 28mm, una Leica M con obiettivo 35mm e una reflex Leica con obiettivo 60mm. Negli ultimi anni ha utilizzato una fotocamera medio formato, la Pentax 645, per ingrandire maggiormente le sue stampe. Tuttavia dopo gli attentati dell’11 Settembre, i maggiori controlli negli aeroporti e la difficoltà di trasporto delle numerose pellicole durante la realizzazione del progetto "Genesi" (dal 2003 al 2013), hanno spinto Salgado ad un cambio verso il digitale.




La Citazione

“Sono prima di tutto un giornalista e un fotoreporter. Vorrei quindi che le persone guardassero alle mie foto non come oggetti d’arte, ma come una sorta di veicolo di realtà lontane che ho avuto modo di toccare con mano. Le mie fotografie hanno il compito di influenzare e provocare la discussione nella società in cui vivo, di stimolare il confronto delle idee. Le mie foto hanno un messaggio preciso, raccontano le storie della parte più nascosta della società.”


“Abbiamo in mano il futuro dell’umanità, ma dobbiamo capire il presente. Le fotografie mostrano una porzione del nostro presente. Non possiamo permetterci di guardare dall’altra parte»



 

Il documentario: Il sale della terra

 



Ispirato dalla potenza lirica della fotografia di Sebastião Salgado, Il sale della terra è un documentario monumentale, che traccia l’itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano. Diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado è stato presentato in concorso al Festival di San Sebastian 2014 e al Festival internazionale del film di Roma del 2014.

 


Stefano Superchi

 






22 maggio 2025

Charles Aznavour, il piccolo grande istrione

 Charles Aznavour

il piccolo grande istrione

 


 Era questa la copertina di un disco che mio padre ha ascoltato fino a consumarlo. Ero bimba prossima all’adolescenza ed i miei gusti musicali erano decisamente altri. Ma questo piccolo grande uomo mi affascinava, la voce, le melodie, le interpretazioni così passionali, così intense e l’estasi di papà me lo hanno fatto amare.

 


Poi diciamolo, non era certo dotato dei canoni classici della bellezza o “figaggine” che dir si voglia. Piccolo, magrissimo, capigliatura con una riga laterale imbarazzante simile ad un riporto, un viso irregolare ma... la sua sensualità fu di una potenza tale che ruppe gli schemi dell’avvenenza allora di moda che veniva dagli attori hollywoodiani o dai singers delle band pop/rock. Vuoi che la lingua, il francese, abbia fatto la sua parte ma la presenza scenica, la simpatia e la “voce tenorile vibrata” lo hanno reso, assieme a Gilbert Bécaud, uno chansonnier unico e indimenticabile.

 



Ho iniziato ad amarlo così, con mio padre che lo ascoltava pontificando che lui sì è uno bravo, mica tutti quei capelloni che suonano forte la chitarra e che, invece di cantare, urlano in una lingua che non si capisce!!!”. Aznavour no, lui era un po' melodico, un po' swing e cantava in 7 lingue, italiano compreso. 

Ma a me quei “capelloni” piacevano e mi piacciono tutt’ora come anche Aznavour. Un furetto dagli occhi vivaci e profondi, dalle espressioni iconiche con quella bocca dalle labbra strane che muoveva come fosse di gomma, mentre si asciugava le mani sudate con un fazzoletto.
 


Nato il 22 maggio 1924 oggi avrebbe 101 anni e Officina Coolturale vuole celebrarlo.

 


Orgogliosamente di origini armene e francese d’adozione, si avvicina al mondo dello spettacolo da bambino, iniziando a lavoricchiare in teatro. Nel 1946 incontra la allora già celebre cantante Edith Piaf, che lo scopre e gli offre l’occasione di una tournée in giro per la Francia e per l’America del Nord. E’ l’inizio di una serie di successi che aumentano a dismisura anno dopo anno.

 


Aznavour si muove sul palco sprigionando un fascino ipnotico che cancella totalmente il suo non essere l’adone sciupa femmine. Eppure le donne lo amavano perché pareva che dell’amore fosse un cultore. Le sue canzoni parlano principalmente di amore, in tutte le sue sfumature, ma non solo: iconica “Un homme comme ils disent” che affronta il tema dell’omosessualità in tempi in cui parlarne poteva compromettere la carriera.

 


Ma i suoi successi si rifanno anche alla letteratura, alla poesia, alla pittura; ne sono esempio “Les deux guitares” canzone popolare tzigana composta nel XIX secolo dal compositore russo Ivan Vasiliev (1810–1870), con testi del poeta Apollon Grigoriev, la Bohème che catapulta in una Montmartre dei poeti maledetti e dei pittori impressionisti o “Le Cabotin” inno al teatro.

 



 

Come sempre non vogliamo riproporre l’excursus della sua carriera o della sua vita privata, ci teniamo invece a creare curiosità, ad invitare i nostri lettori ad entrare nelle nostre passioni.

 


 

Azanvour è una di queste, quell’omino esile che nel brano “Formidable” gioca con le parole mescolando inglese e francese in un sound che invita a cantare e ballare, così come “Pour faire une jam” sfoderando virtuosismi vocali pazzeschi per poi slittare nel romanticismo più scioglievole: non dimentichiamo “Que c’est triste Venise” (magistralmete duettata con Julio Jglesias un po' in francese e un po' in spagnolo), e che dire di “Tous les visage de l’amour” la famossima “She” in versione british, colonna sonora del film Notting Hill.

 


Sono tantissime le canzoni, i temi, i duetti con artisti internazionali che lo hanno reso fascinoso e affascinante ma più di tutto ha fatto il suo talento e il saper rendere la musica teatro, quasi un precursore del “Teatro Canzone” che esploderà anni dopo.
 


Aznavour calca i palcoscenici di tutto il mondo e la sua carriera continua fino oltre i 90 anni; memorabile il live al Palais des Congrès a Parigi nel 1987, per dirne uno, ma ancor più strepitoso il concerto che tenne all’Arena di Verona il 14 settembre 2016, aveva 92 anni!

 


 

Io c’ero, fu uno spettacolo pazzesco, un regalo prezioso, un inno all’immortalità, emozioni uniche che solo l’arte può dare.
Perdoniamo dunque il cabotin, l’istrione se “con nessuno di noi, non ha niente in comune”.

Giovanna Anversa

21 maggio 2025

REALTÀ E MISTERO Giorgio Tentolini in mostra a Parma

REALTÀ E MISTERO

indagini visive tra identità e memoria

Giorgio Tentolini in mostra a Parma (Palazzo Tarasconi)

 



 Apre giovedì 22 maggio a Palazzo Tarasconi (via Farini, 37 Parma) con inaugurazione alle 18:30, la mostra «Realtà e mistero. Indagini visive tra identità e memoria» di Giorgio Tentolini, a cura di Alberto Mattia Martini.
 


 

Un viaggio nella ricerca intorno alla bellezza, nel senso classico della parola, che l'artista di Casalmaggiore porta avanti da tempo. L'armonia delle forme si sovrappone, nell'opera di Tentolini, alla tecnica stupefacente della sua rappresentazione. Attraverso l'utilizzo della rete metallica, sapientemente modellata grazie a sovrapposizioni più o meno marcate, l'artista riproduce figure che richiamano la perfezione rinascimentale in chiave poeticamente moderna. La concretezza dei corpi, o dei loro dettagli, viene resa leggera ai limiti dell'onirico. Effimera ma concreta, soave ma di una potenza disarmante.
 


Nel corpus di opere in mostra c'è tutta la grazia che contraddistingue l'uomo Tentolini, ma anche la maestria che ha fatto dell'artista Tentolini una delle figure emergenti nel panorama artistico contemporaneo.
 

La mostra resterà aperta fino al 29 giugno, visitabile dal venerdì alla domenica dalle 10,30 alle 13 e dalle 16 alle 19.

 


 

REALTÀ E MISTERO, indagini visive tra identità e memoria
22 Mag 2025 - 29 Giu 2025
Palazzo Tarasconi, Parma

 

La mostra antologica di Giorgio Tentolini a Palazzo Tarasconi rappresenta un momento di rivelazione intima e poetica nel cuore di Parma: un’esposizione che attraversa più di vent’anni di ricerca, e che restituisce al pubblico l’evoluzione di un linguaggio artistico unico, fondato sulla luce, sul tempo e sulla memoria.

 


 
Giorgio Tentolini vive e lavora a Casalmaggiore, sua città natale. La sua opera si sviluppa a partire da una riflessione sul tempo come identità e stratificazione, attraverso un lento processo di costruzione dell’immagine. Tulle, rete metallica, carta, acetato e PVC diventano materiali primari in una pratica che unisce tecniche antiche e sperimentazione contemporanea. Ogni sua opera nasce come un intreccio tra pittura e scultura, tra presenza e dissoluzione, tra visione e assenza.
L’esposizione si apre con un omaggio al Parmigianino e si dipana tra miti classici, corpi ideali e volti anonimi, in una sequenza che alterna sacro e profano, memoria e visione algoritmica. Il volto umano, tema ricorrente e fondativo, è indagato come specchio dell’individuo e della collettività, come luogo dell’identità ma anche della sua dissoluzione.

 


 

In mostra, le celebri serie Pagan Poetry, Jeune Fille, In Too Deep, No One e Derealized, fino al recente Monades, sono testimonianze di una poetica dell’ombra e della soglia, capace di restituire all’immagine una profondità silenziosa e perturbante.
Tentolini lavora la luce come fosse materia e il tempo come fosse tessuto. Le sue opere sfidano l’immediatezza visiva e impongono allo spettatore una sosta, un ascolto, un’interrogazione. In un’epoca dominata dall’eccesso percettivo, la sua ricerca appare come una forma di resistenza sensibile: una meditazione visiva sull’identità, sulla bellezza, sull’umano.
 


La mostra, curata da Alberto Mattia Martini, è più di una retrospettiva: è un atto di restituzione, un viaggio nella memoria e nella visione, in dialogo con l’architettura rinata di Palazzo Tarasconi e con lo sguardo di chi ancora crede che l’arte possa svelare ciò che il tempo nasconde.

 

a cura di Stefano Superchi

20 maggio 2025

Diego Abatantuono. 70 anni vissuti in modo eccezionale

Diego Abatantuono.

70 anni vissuti in modo eccezionale.

 


 Diego Abatantuono nasce a Milano il 20 maggio del 1955, probabilmente l’ultimo di un gruppo di attori che resero grande e significativa la commedia all’italiana, un animale da palcoscenico. Cresciuto biograficamente e artisticamente nel quartiere popolare milanese del Giambellino, si fa le ossa al Derby Club, l’emblema di una Milano che sapeva mettere attorno allo stesso tavolo artisti, comici, geni e malavitosi.
 


Abatantuono deve la sua reputazione ad un istinto comico puro e straordinario, ma nello stesso tempo capace di durare nel tempo (dote rara) dando un senso preciso alla propria esperienza biografica. Se infatti negli anni Diego Abatantuono ha saputo proporsi costantemente sulla scena artistica lo si deve ad una sensibilità che gli ha permesso di variare di volta in volta anche radicalmente il proprio “personaggio” con minime e precise correzioni. Variazioni che non hanno mai rinnegato il passato, ma che all’opposto si sono arricchite e rese possibili grazie ad una presa di coscienza precisa del proprio ruolo.
 


Con la collaborazione di un altro talento brillantissimo come Giorgio Terruzzi ha scritto “Si potrebbe andare tutti al mio funerale” una sorta di autobiografia collettiva e condivisa dentro alla quale Abatantuono appare come voce narrante.
In un futuro immaginario Abatantuono si aggira come un fantasma nel giorno del suo funerale, cogliendo le voci di familiari e di amici, tra risate e lacrime di addio.



È un espediente romanzesco efficace, che racconta in maniera sincera un tempo eroico e disperato, quello di una Milano in cui il boom era visibile da chiunque, ma non tutti riuscivano a viverlo. Il ricordo della madre di Abatantuono nella giornata infinita di lavoro, di notte guardarobiera al Derby e di giorno al banco del negozio di modellismo del marito, in un debito di riconoscenza smisurato che ripercorre la durezza di quegli anni e la dolcezza familiare che si dipana in un lungo piano sequenza nelle risate e negli schiamazzi notturni con gli amici di sempre. Erano gli anni in cui si nasceva e si cresceva insieme, nelle stesse strade, negli stessi locali e identiche fortune e disgrazie.
 


Sembra una frase fatta, ma dalle pagine emerge che quello che conta, come sappiamo, non è la teoria, ma la pratica, la “palestra della vita”, il successo come punto di arrivo fatto di fatica, di ingombranti malinconie e nostalgie difficili da soffocare.
Abatantuono ha il senso del ritmo, qualità fondamentale per un attore, ma ha anche quella leggerezza che risulta necessaria per sopravvivere. Ha avuto momenti cupi, dolori che colpiscono allo stomaco, tradimenti fatti e subiti.
Ha avuto un successo iniziale fatto di istinto e corpo, quello di “Eccezzziunale… veramente”, una Bibbia della Milano che è ormai svanita, per me che lo conosco a memoria, che non era solo un insieme di battute, ma uno spettacolo di tempi comici dal ritmo senza freni.
 


Poi è seguito un tempo fatto di solitudine e paure in cui navigare a vista in attesa degli splendidi quarant’anni che porteranno finalmente Diego alla consacrazione come attore totale. Tra i pochi interpreti del cinema italiano di oggi capace di interpretare il dramma come la commedia, il comico come la nevrosi intellettuale.

 


Alla base di tutto però rimane sempre la “compagnia”, quel rito collettivo che necessita di stare nel gruppo per sentirsi accolti e per accogliere, una forma di difesa reciproca che moltiplica le forze. Un’idea ancestrale di vita collettiva, con gli amici di sempre, una magia che riesce a pochi e che diventa nostalgico rimpianto per tutti gli altri.
 


E alla fine ad Abatantuono questa magia è riuscita, e la racconta sotto forma di funerale immaginario, gli amici tutti insieme in uno stesso luogo, in una festa di risate e di abbracci, di ricordi e desideri ancora da esaudire. Il sogno romantico della casa in Romagna comprata con i primi soldi che vide accogliere per primi i genitori e poi tutti gli altri, amori, amici, figli e nipoti.
Un sogno realizzato, in cui non è necessario apparire di persona, ma è sufficiente esserci, come al proprio funerale.
 

Stefano Superchi

 

 Serena Dandini intervista Diego Abatantuono, 1986

 

TESTIMONI NEL TEMPO. Torna la rassegna cinematografica estiva curata da Emanuele Piseri

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