Il 10 di Aprile del 1979 muore a Roma Nino Rota. Molti ancora oggi lo ricordano come “il musicista di Fellini”, a testimonianza del loro solido e proficuo rapporto professionale e intellettuale.
Non va dimenticato che Rota fu anche il musicista di Visconti, Monicelli, Lattuada, Comencini, Zampa, Soldati, Steno, Wertmüller, Petri, Zeffirelli e, all’estero, di RenéClement, KingVidor e Francis Ford Coppola; a quest’ultimo, in particolare, è da legare la conquista dell’Oscar per Il padrino Parte II. Scrisse diverse colonne sonore per i film di Totò e lavorò con EduardoDe Filippo (Lo scoiatolo in gamba, Napoli milionaria).
Ci soffermeremo sulla produzione felliniana di Rota (ubi maior, minor cessat) molto ampia e significativa: delle quasi centoquaranta musiche da film firmate dal compositore, le diciassette composte per il regista riminese brillano come esempio di irripetibile sinergia. Al punto che Fellini, negli anni Settanta, avrebbe ammesso di essersi lasciato ispirare, a volte, dalle melodie dell’amico e partner.
Dopo Lo sceicco bianco (accolto piuttosto tiepidamente) e I vitelloni (Leone d’argento a Venezia), Fellini volle per la terza volta Nino Rota al proprio fianco in occasione del film La strada. Era il 1954 quando la pellicola con Anthony Quinn e Giulietta Masina uscì nelle sale, sollevando scalpore e successo. Mario Soldati, dopo averlo visto, scrisse: «La strada di Nino Rota è un capolavoro. Il film di Fellini è, forse, soltanto il libretto di quel capolavoro». Una dichiarazione probabilmente ingenerosa nei confronti del regista, ma in grado di ribadire il compito essenziale svolto dalla musica di Rota nei film: una funzione che non era didascalica o accessoria, ma essenziale in chiave drammatica e nobile nelle forme.
Il balletto “La strada”, nato nel 1966, molto dopo il film, e rappresentato per la prima volta alla Scala su coreografie di Mario Pistoni non cita semplicemente le musiche scritte per lo schermo, ma allude, in misura più ampia, all’universo sonoro “felliniano” entrato nel frattempo a far parte, in modo consapevole, della cifra artistica di Rota. La strada, inteso come film, sollevò non poche polemiche in un Italia ancora molto legata al neorealismo, ma valse a Fellini una grande popolarità internazionale, confermata, nel 1957, dall’Oscar al miglior titolo straniero.
La collaborazione tra Rota e Fellini sarebbe proseguita senza soste fino al 1978 (Prova d’orchestra), ossia fino alla morte del compositore. Ermanno Comuzio, storico del cinema, e studioso di colonne sonore, racconta come spesso Fellini«…costringesse Rota ad inventare le musiche che lui stesso aveva già in testa. Rota, insomma, metteva in bella le indicazioni del regista, e si faceva inghiottire da lui». Ma se questo vale per i film del primo periodo (Lo sceicco bianco, I vitelloni, Le notti di Cabiria) non si può dire per Prova d’orchestra, e prima ancora Casanova, dove l’apporto del compositore risulta invece decisivo in termini narrativi, secondo le ammissioni dello stesso Fellini.
Nino Rota non fu soltanto un “compositore da film” (ferma restando la nobiltà del ruolo) ma un compositore tout court con il suo repertorio sconfinato di lavori da camera, sinfonie, concerti per pianoforte. “Colto”, avrebbe detto qualcuno, facendo arrabbiare Rota, il quale era solito dire: «Non credo a differenze di ceti e di livelli nella musica: il termine “musica leggera” si riferisce solo alla leggerezza di chi l’ascolta, non di chi l’abbia scritta».
Il 29 di Marzo era l’anniversario della scomparsa di EnzoJannacci e mi sembrava doveroso ricordarlo.
Scrivere qualcosa di originale o che non sia stato già scritto su di lui è pressochè impossibile, ragion per cui ho provato a ragionare sul suo uso del linguaggio, in particolare del dialettomilanese.
Faccio parte di una generazione che ha usato il dialetto come lingua principale, in casa e fuori, e personalmente lo prediligo ancora, per abitudine, per ricchezza di sfumature intraducibili in italiano, per estrazione sociale.
Ma torniamo a Jannacci.
Il suo disco d’esordio, La Milano di Enzo Jannacci, con la sua copertina rosso-nera, girava in continuazione sui giradischi dei milanesi, canzoni così lontane dalla moda corrente (Beatles, Rolling Stones), così fuori tempo e così vive, da mandare a memoria, come preghiere. A Milano, in quegli anni, il dialetto circolava ancora: lo si parlava dal prestinè (il panettiere), alla posta e persino a scuola; anche i neo-milanesi immigrati lo masticavano abbastanza per apprezzare Tì te sé no, Sun chì sensa de tì o M’han ciamà, nella cui lancinante malinconia naufragavano quasi con compiacimento.
Nella sua prima apparizione in televisione, con El purtava i scarp del ténis sembrava un marziano dall’aria spaventata, con quegli occhiali dalla montatura così marcata e la voce metallica, quasi sgraziata. Una bomba. Spigoloso, gesticolante, sembrava piovere da un altro pianeta. Canzoni così diverse dai classici meneghini ma nelle quali si riconosceva la Milano di ogni giorno, la città delle fabbriche e delle periferie, del Duomo e dell’Idroscalo.
Le radici dell’arte di Jannacci andavano a pescare nella grande tradizione comica della canzone italiana, che dalla “macchietta” di Petrolini e Rascel, approda negli anni ‘50 a Carosone e Buscaglione; ma in questo filone, Jannacci è il primo a fondere organicamente nella sua poetica comico e patetico, umorismo e critica sociale.
Andava a Rogoredo è una canzone d’amore stralunata, ma è soprattutto un ritratto “dal basso” della Milano del boom economico.
Quel che sun dré a cuntav l’è üna storia vera
de vün che l’è mai stà bun de dì de no.
E s’eren cunussü visin a la Breda:
lè l’era de Rugured, e lü el sù no.
Un dì lü l’avea menada a vedé la fera,
la g’aveva un vestitin culur de trasü.
Disse: “Vorrei un krapfen, non ho moneta…”
“Pronti!”-el g’ha dà dés chili, e l’ha vista pü.
Andava a Rogoredo a cercare i sò dané.
Girava per Rogoredo e el vusava ‘me ‘n strascé:
“No no no no, non mi lasciar!
No no no no, non mi lasciare mai, mai, mai!”
Già nelle canzoni di Umberto Simonetta e Giorgio Gaber, qualche anno prima, si affacciava una Milano marginale, in Jannacci spuntano le fabbriche (qui, la Breda), le catene di montaggio e le lamiere (Prendeva il treno), le modeste botteghe del centro (Tì te sé no), le case di ringhiera, i commissariati e addirittura gli obitori (M’han ciamà).
I suoi personaggi sono dei poveretti le cui disgrazie non riescono a elevarsi fino al tragico. L’innamorato derubato di Andava a Rogoredo arriva a considerare il suicidio, ma alla fine conclude che per ammazzarsi c’è sempre tempo, e che è meglio cercare intanto di recuperare i soldi. Una risoluzione molto pragmatica, se non fosse che il metodo per riottenerli è quello di urlare per le strade “come uno straccivendolo”, in italiano.
L’oscillazione fra comico e sublime è puntualmente sottolineata dall’alternarsi di lingua e dialetto; l’italiano, in Jannacci, suona come una lingua straniera, ha qualcosa di antiquato (“Triste è un mattin d’aprile sensa l’amore”); il dialetto è la lingua della realtà, della vita vera.
La lingua parlata, in Jannacci, non è un semplice strumento di comunicazione: è la materia di cui sono fatti i suoi personaggi, come in Prendeva il treno:
S’en conossuti alla catena di montaggio,
lei tutta bianca, che spiccava pel candor.
Gigi Lamera, ed abitava dietro a Baggio,
era il suo nome, ma non era un tipo snob.
“Scusi signore, per andare alla toletta?”
“Scusi signora, ma rispondere non so”
“Lei al lavoro come viene?” “In bicicletta”
“Ma non è fine, la credevo un gran signore…”
Prendeva il treno per non essere da meno,
prendeva il treno per sembrare un gran signor.
Il dialetto resta sullo sfondo, ma è su quello sfondo rimosso che l’italiano affettato e traballante dei due protagonisti acquista il suo senso. La voce narrante sembra contagiata dalle smanie dell’operaia “chic”: dal mezzo milanese iniziale (“S’en conossuti”) passa a un italiano scolastico, da canzonetta (“pel candor”). Gli operai si danno del lei, si chiamano signore e signora, i servizi igienici della fabbrica diventano un’improbabile tolètta (ma con la e larga, alla milanese, in rima con biciclètta); Gigi parla per inversioni canzonettistiche (“rispondere non so”), dichiara con l’aria di uomo di mondo di vivere “a Baggio” (quartiere della periferia milanese) come dicesse “vivo a Montecarlo”.
Anche qui abbiamo a che fare con un fallimento: nonostante gli sforzi per adeguarsi alle pretese della sua signora (il treno, l’italiano forbito, la cravatta dell’Upìm), Gigi non riuscirà a coronare il suo sogno d’amore, anzi verrà licenziato perché sorpreso in fabbrica a ritagliare lamiere per confezionare un mazzo di fiori futuristico.
Il fallimento è sottolineato con una repentina ricaduta nel dialetto, nella realtà evidente della sua condizione: quando offre il metallico bouquet alla sua dama (“Voglia gradire questi fiori come omaggio…”) e lei chiede “Che fiori sono?”, lui si lascia scappare un “Signurina, i u fà mì!” (Signorina, li ho fatti io!). E dopo il licenziamento il dialetto torna a gravare come una cappa di piombo sul povero Gigi, incapace di confessare la sua disgrazia e di spiegarne i veri motivi (“adesso è ottobre, fa già freddo, ma il coraggio/ di dirlo in casa, quel perchè, lü ‘l ghe l’ha nò”).
Gigi Lamera è un personaggio tragicomico, ma Jannacci non si limita a ridere (e a farci ridere) della sua inadeguatezza: tutti, chi canta e chi ascolta, riescono ad identificarsi in maniera corale alla sua situazione, al suo goffo tentativo di riscattarsi, di conquistare la sua bella, fino alla rovina.
Il comico, in special modo se è legato all’uso del dialetto, genera spesso disapprovazione sociale, biasimo se non addirittura disprezzo, nei confronti di chi è oggetto del riso: i personaggi di Jannacci, invece, suscitano simpatia, emozionano, fanno commuovore. Canzoni come M’han ciamà, Tì te sé no o Senza de tì, terribilmente struggenti, potrebbero apparire incompatibili con la vena comica che domina il disco; invece, tra il loro patetismo e l’umorismo di Andava a Rogoredo o Per un basin, non c’è contrasto: è la stessa città che ora ride ora piange, ora grida ora sussurra.
L’opera di Jannacci è tra le più vive e originali nella storia della canzone italiana. Definirla poetica potrebbe risultare fuorviante. La sua scrittura non cerca di fare il verso ai modelli della “vera” poesia, e proprio da qui scaturiscono la sua forza e la sua originalità.
La qualifica di genio, che nel mondo dello spettacolo viene spesso abusata, nel caso di Jannacci è quasi obbligatoria. Se la genialità è la capacità essere schiettamente ciò che si è, di assecondare senza compromessi ed esitazioni la singolarità del proprio modo di sentire e di esprimere emozioni, allora Enzo Jannacci è uno dei pochi geni autentici della nostra tradizione popolare.