Il sovversivo intransigente
Oggi avrebbe compiuto 100 anni il regista Robert Altman
Il 20 febbraio 1925, esattamente cent’anni fa, nasceva a Kansas City (nel Missouri), uno degli autori più originali della storia di Hollywood, un autore alla continua ricerca della realtà e della verità, in grado di influenzare più di una generazione di registi per la sua libertà espressiva. Scomparso nel 2006, Robert Altman ha tracciato un solco nella storia del cinema per il suo stile intransigente e per il suo carattere sovversivo, fra lampi satirici e impegno politico, senza che ne risentissero la ricerca stilistica e la bellezza estetica di molti suoi film.
Nella sua lunga carriera Altman non si è mai piegato alle convenzioni di Hollywood, da perfetto iconoclasta ha portato avanti la sua ricerca stilistica con coerenza, sperimentando dal punto di vista sia narrativo che tecnico. Spostandosi tra i generi, all’inizio degli anni Settanta ha realizzato una serie di film, da “M*A*S*H*” (1970) a “Nashville” (1975), atti d’accusa feroci e senza filtri all’America di quel Richard Nixon che avrebbe poi riabilitato sedici anni dopo in “Secret Honor” (1984).
Nel mezzo non si è fossilizzato, girovagando fra i generi, dal western (“I compari”) al melodramma (“Images”), dal noir anni Quaranta (“Il lungo addio”) al poliziesco nei tempi della Grande depressione (“Gang”).
L’originalità del cinema di Altman è legata a doppio filo al suo percorso. A differenza di molti colleghi, non aveva frequentato scuole di cinema di nuova concezione, ma veniva da una lunga carriera nei film industriali e in televisione. Altman si è accostato a giovani registi come Francis Ford Coppola, Peter Bogdanovich e Martin Scorsese, divenendo un punto di riferimento per l’incompatibilità con il cinema mainstream e con il sistema che lo sosteneva. Un’insofferenza che gli è costata lo strappo con quell’industria cinematografica dopata di effetti speciali e film commoventi.
Ma è proprio questo amore per il rischio a rendere unico il lascito di Altman. Il già citato “M*A*S*H*” era stato rifiutato da Kubrick, Pollack, Lumet, Hill e Kelly. E non è un caso che, nonostante le lampanti differenze fra una pellicola e l’altra, abbia sempre considerato le sue opere come capitoli dello stesso libro. I suoi film sono riconoscibili per le caratteristiche che sono diventate un marchio di fabbrica, i tanti personaggi, le diverse trame, la narrativa tranquilla ma anche il gusto di non rifugiarsi nel “politically correct” e di metterci quella irriverenza che serve. Dal punto di vista tecnico Altman è ricordato invece per il suo uso pionieristico del suono e per l’utilizzo innovativo dello zoom.
Del botteghino, così importante per alcuni suoi colleghi, a lui è sempre fregato poco, era l’ultimo dei suoi problemi. Intervistato da Ron Mann per un documentario a lui dedicato, si era espresso così: «Ho semplicemente continuato a fare la stessa cosa. Ogni tanto quello che faccio incontra il gusto del pubblico e diventa un grande successo. Poi torno a essere un fallimento, un “quello lì che ha fatto” e poi incrocio di nuovo il gusto del pubblico. Ma io vado sempre dritto. Dalla mia prospettiva, procedo in linea retta».
Senza mai scendere a compromessi.
Stefano Superchi
Vita e opere (fonte: Treccani)
Dapprima autore e sceneggiatore di testi radiofonici, esordì nella regia con i documentari The delinquents (1955) e The James Dean Story (1957).
Talento tra i più poliedrici, sembra avere però alcuni interessi costanti: da un lato la rivisitazione di generi cinematografici: Countdown (1968), That cold day in the park (1968), Mc Cabe and Mrs. Miller (I due compari, 1971), Thieves like us (Gang, 1973); dall'altro un'attenzione, lucida e ironica, per alcuni aspetti della società americana: così in M.A.S.H. (1970), Images (1972), California Split (California poker, 1974), Three women (1977), A wedding (1978), Quintet (1978), A perfect couple (1979).
La capacità di descrizione si unisce al gusto intellettuale dell'allusione o della metafora fantasiosa (Brewster McCloud, Anche gli uccelli uccidono, 1971) e porta Altman a cimentarsi con classici di genere (The Long Goodbye, 1973, dal romanzo di Raymond Chandler). Queste doti sembrano convergere nel suo capolavoro Nashville (1975).
Ha diretto ancora: Streamers (Mancata apertura, 1983); The deviners, 1983; Fool for love, 1986; The player, 1992. Nel 1993 ha diretto Short cuts (America oggi, 1993), tratto dai racconti di Raymond Carver, una sorta di Nashville anni Novanta.
Anche i successivi Prêt-à-porter (1994), Cookie's fortune (1999), Dr. T and the women (2000) sono basati sull'assenza di un personaggio protagonista, su un tono dissacratore e volutamente sgradevole, su un divertito cinismo e su un'analisi impietosa dei rapporti di coppia.
Da ricordare, ancora, Kansas city (1996), omaggio alla musica jazz, e The gingerbread man (Conflitto di interessi, 1997), film giudiziario tratto da un romanzo di John Grisham. Nel 2006 ha diretto il film A prairie home companion (Radio America), che ha segnato un ritorno ai temi e alle atmosfere tipiche di Nashville. Ha ricevuto tre importanti premi alla carriera: il Leone d'oro a Venezia nel 1996, l'Orso d'oro a Berlino nel 2002 e l'Oscar nel 2006.
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