Facciamo chiarezza sulla festa più “oscura” dell’anno
Perché Halloween è cosi divisiva?
Come ogni anno, quando a fine di ottobre arriva Halloween, si scatena la solita scia di polemiche fra chi ne sottolinea l’estraneità alle nostre tradizioni, chi la accusa di essere una ricorrenza puramente commerciale e chi addirittura ne condanna la natura ‘demoniaca’. Facciamo un po’ di chiarezza: il primo riferimento storico è alla festa celtica di Samhain, un Capodanno che segnava il passaggio dalla stagione estiva a quella invernale. Secondo le leggende popolari, era il momento in cui il mondo terreno e quello dell’aldilà si incontravano. Soppressa dai Romani, dopo la conquista di quelle terre, la tradizione ricomparve nel 1795 in Scozia, quando iniziò a essere festeggiata la giornata dell’“All Hallow’s Eve”, la vigilia della festa dei santi ispirata alla vecchia tradizione e celebrata il giorno precedente a quello della commemorazione cattolica. La tradizione, complici le ondate migratorie verso il Nuovo Mondo, raggiunse poi gli Stati Uniti.
La pratica del “Dolcetto o scherzetto” risale invece al Medioevo, quando i mendicanti che vagavano di porta in porta chiedevano cibo in cambio di preghiere per le anime dei morti. La pratica di intagliare le zucche invece, di origine irlandese, risale alla storia di Jack-o’-Lantern. La leggenda narra di come il fabbro Stingy Jack, che aveva il vizio di alzare il gomito, vendette la sua anima al diavolo pur di saldare i propri debiti. Morì l’anno successivo (la notte di Halloween) e, una volta salito in Paradiso, venne subito spedito all’Inferno. Fu però cacciato anche da Satana, che gli lanciò contro un tizzone ardente: l’uomo lo raccolse e lo mise dentro una rapa cava per farsi luce, come fosse una lanterna che avrebbe dovuto illuminare i suoi passi nel perpetuo girovagare fra i cieli e gli inferi. Chi fra i detrattori di Halloween ne mette in risalto la presunta relazione con il satanismo, ignora che le leggende con il demonio come protagonista sono da attribuirsi più alla matrice cristiana della ricorrenza che non a quella celtica e pagana. E che, in molte culture, l’elaborazione della morte attraverso manifestazioni folkloristiche è stata sovente utilizzata per affrontare la vita senza il continuo timore della sua fine.
Un altro punto è quello della difesa dei valori. A sostegno di questa tesi vengono introdotte iniziative, come quella del sindaco leghista di Beura, Comune piemontese di 1.400 abitanti della Bassa Ossola, che ha diffuso una lettera aperta in cui biasima le celebrazioni della ricorrenza, accusandola di educare i bambini «al male e al brutto», osservando che la vita dev’essere volta alla bellezza e alla positività. Fra le file degli anti Halloween va elencato anche il parroco di Casette di Legnago (Verona), che ha organizzato una ‘contro-celebrazione’ nella quale i bambini vengono invitati a festeggiare travestendosi da santi e indossando gli abiti di chi compie buone azioni (per esempio i loro genitori). Aspetto, quest’ultimo, che potrebbe avere un suo fondamento, a patto che ve ne siano i presupposti. E che in ogni caso andrebbe rammentato ogni giorno, a prescindere da Halloween.
Se non altro per una questione di buon senso.
Stefano Superchi
Per tenerci al passo con i tempi, pubblichiamo un articolo di Piermarco Rosa per “La Ragione”, che parla di videogames in tema Halloween.
Ruoli, azione e tante sorprese
Zucche digitali per festeggiare
Fra le quattro mura di casa la serata di Halloween di solito si festeggia con proiezioni di film horror in compagnia di amici e pure i videogames si prestano per l’occasione offrendo un divertimento ad alto tasso di emozioni, non necessariamente a base di brividi di paura. Il celeberrimo Sonic, iconica mascotte di casa Sega e personaggio fra i più amati dal pubblico d’ogni età, ritorna con la sua controparte oscura Shadow in “Sonic X Shadow Generations”, meraviglioso platform game che, oltre a proporre una versione rimasterizzata dell’originale successo risalente al 2011, si arricchisce di una nuova modalità storia dedicata proprio a Shadow e di molti contenuti extra.
La formula di gioco rimane quella dei livelli da percorrere a velocità mozzafiato, alternandosi fra le fasi nella classica visuale laterale e quelle in 3D mostrate dalle spalle del personaggio principale. Due incantevoli avventure in un unico pacchetto che, pubblicato solo due giorni fa, ha già meritatamente superato il milione di copie vendute. Gli amanti dell’azione a base di sparatorie e sequenze degne del miglior blockbuster americano faranno bene a non perdersi “Call of Duty: Black Ops 6”, ultimo arrivato della serie sparatutto in prima persona più gettonata al mondo. Dalla campagna ambientata nel 1991 alla fine della Guerra Fredda fra cospirazioni internazionali e operazioni militari segrete – ricca di momenti spettacolari, grande varietà di situazioni e colpi di scena – che si rivela la più avvincente degli ultimi anni, fino all’impeccabile multiplayer (con tanto di modalità zombie) in grado di soddisfare pure gli utenti esperti, il divertimento è garantito oltre ogni aspettativa. Da encomiare la stupenda estetica fotorealistica che lascia a bocca aperta in più di un’occasione.
Un maestoso gioco di ruolo giapponese medieval fantasy dalle meccaniche ancor oggi innovative viene riproposto dopo 31 anni: “Romancing SaGa 2: Revenge of the Seven” è un imperdibile remake in 3D: ampliato (già dalle classi dei personaggi e dagli scenari aggiuntivi), migliorato negli scontri a turni e aggiornato alla sensibilità attuale (con un nuovo livello di difficoltà accessibile ai neofiti del genere), mantenendo intatto il fascino che lo ha reso un cult game fra gli appassionati. Come imperatore di un reame minacciato da sette antichi eroi trasformatisi in demoni, bisognerà sconfiggere gli avversari e far prosperare il proprio dominio lungo una narrazione non lineare, ramificata attraverso differenti generazioni e che muta con le scelte compiute.
Chi predilige l’azione e l’esplorazione nei giochi di ruolo fantasy andrà matto per l’eccellente “Ys X: Nordics”, titolo più recente della prolifica saga nipponica nata nel lontano 1987 che cronologicamente si piazza dopo il secondo episodio e risulta del tutto godibile pure per chi si avvicina al franchise. Nei panni del giovane avventuriero Adol ci si lancerà in una memorabile epopea per terra e per mare, affiancati dall’intrepida pirata Karja con cui combattere orde di mostri per la salvaguardia di un ameno arcipelago. Oltre agli emozionanti duelli campali, in cui ci si potrà alternare fra i protagonisti e coordinarli in attacchi devastanti, capiterà di ritrovarsi in coinvolgenti battaglie navali solcando le acque sul proprio vascello.
Per restare nel mood di Halloween a livello videoludico, una delle licenze hollywoodiane più apprezzate nell’ambito horror è stata sviluppata dal talentuoso team italiano di Stormind Games in “A Quiet Place: The Road Ahead”, avventura narrativa dalla trama originale rispetto al grande schermo, che fonde alla perfezione l’azione furtiva e l’esplorazione con la risoluzione di enigmi ambientali in un clima di continua tensione psicologica. In questo spin-off si interpreterà una donna che dovrà destreggiarsi e sopravvivere nel contesto post apocalittico dei film della serie, evitando di produrre il benché minimo rumore per non attirare le mostruose e letali creature aliene che hanno invaso la Terra. Suspense e brividi assicurati come nella migliore tradizione del genere.
La prima copia dei “Custodi del Maser” uscì nelle fumetterie nel 1996, in Italia e in Francia. In copertina una ragazza abbigliata in stile simil steampunk si gira verso il lettore e lo guarda con espressione grave. Sui palmi delle mani salgono una coppia di lune, richiamando il sottotitolo dell’opera (“Le due lune”, appunto). La colorazione della copertina è da manuale: i due quadranti inferiori e quello sinistro sono più scuri, eccetto il brillamento intenso delle due lune. Salendo con lo sguardo, il bianco acceso degli astri viene richiamato dal grande orecchino che la ragazza porta all’orecchio destro e da un tatuaggio circolare bianco sulla guancia sinistra, finché la cascata di capelli avorio sposta l’occhio di chi guarda fuori dalla pagina.
Le saccadi, cioè i movimenti compiuti dai nostri occhi per scandire le immagini, sono dunque perfettamente accompagnate nella composizione scelta da Massimiliano Frezzato detto Frezz. Al centro dell’immagine orbitano a spirale tutti questi elementi. Prima di aprire il fumetto, le pupille indugiano sul viso della giovane in copertina. Per analizzare il piccolo naso e le labbra illuminate anche loro da un breve riflesso eburneo, oppure ricambiare lo sguardo della sua sclera albina che contorna delle iridi quasi turchesi. Se “Custodi del Maser” diventò un successo editoriale in entrambi i versanti delle Alpi, una parte del merito l’hanno questi occhi.
Frezzato pubblica questo albo dopo aver illustrato la saga di “Margot” sui testi dello scrittore statunitense Jerome Charyn, un’opera a cui si avvicina con grande passione. Per farla ha infatti preso il posto del collega Tanino Liberatore, che ha lasciato per dedicarsi ad altro. Una sfida per quello che era un esordiente italiano talentuoso, ma pur sempre esordiente. Il “Maser” arriva invece come un volo libero dallo stress di disegnare storie di altri, così come presto verrà in aiuto la pittura dopo il fumetto. L’editoria italiana di settore non era stata ancora graziata dal successo di Zerocalcare e Frezzato all’epoca preferisce una produzione autonoma di tele che possano conciliarsi col suo stile di vita agreste.
Gli anni in cui si dedica in maniera pressoché totale alla saga del “Maser” lasciano però un grande impronta nell’ambiente del fumetto, stabilendo un ponte con lo stile dei manga. A quasi trent’anni dal primo albo, pochi ricordano la trama della saga (considerata spesso la parte più frammentaria dell’opera) ma tutti ricordano la spregiudicata potenza dei disegni e la dolce sintesi dei colori delle pagine.
Di certo, nessuno può dire di essere stato tradito dagli occhi della copertina. La sintesi grafica giusta al momento giusto: una sincronia che pochi autori riescono a indovinare nella loro vita artistica.
Nonostante il suo quasi totale abbandono della produzione fumettistica in favore dei quadri, niente avrebbe impedito un ritorno di Max Frezzato per qualche nuovo progetto. Purtroppo è stata un’altra sincronia, stavolta terribile, a porre fine alla sua vita ad appena 57 anni. A Frezzato era stato diagnosticato un tumore ai polmoni, che sembrava addomesticabile, con buona risposta alle cure. Se non fosse stato per un’odiosa e banale polmonite, forse avrebbe potuto superare anche questa prova. Si interrompe il sogno, si interrompe il fumetto. Ma nell’iride rimarrà sempre impressa quell’immagine della “ragazza delle due lune”.
Questa è una storia di donne raccontata da un uomo, una storia di una (apparentemente) piccola rivoluzione del costume, ma grande per chi ne ha usufruito e ne beneficia a tutt’oggi. Tutto inizia nel 1889, in un laboratorio di lingerie in Rue Chaussée-d’Antin, a Parigi. Qui lavora Madame Herminie Cadolle, stilista che ha appena trovato l’ispirazione per una nuova creazione. Si tratta di un indumento intimo a due pezzi chiamato “le bien-être” (che potremmo tradurre come “il benessere”), con una parte inferiore che serve da corsetto per la vita e una parte superiore che sostiene, attraverso adeguate spalline, il seno. Una intuizione semplice ma rivoluzionaria, che parte da lontano.
Un esperimento analogo era stato tentato già nella Creta del 1.700 a. C., nell’antica Roma e nella Francia del XV secolo. L’invenzione di Herminie Cadolle, ispirata da questi tentativi primitivi, viene perfezionata mediante pezzi di gomma in grado di fornire mobilità alla schiena con l’obiettivo di liberare il corpo femminile, mettendo da parte per sempre i rigidi e scomodi corsetti in uso. Quindici anni dopo, a migliaia di chilometri di distanza, negli Stati Uniti c’è una donna di nome Mary Phelps Jacobs che decide di brevettare qualcosa di analogo a quanto già sperimentato in Francia. La Jacobs è senza dubbio un soggetto particolare. Discendente di Walter Phelps (eroe della guerra di secessione americana) e di Robert Fulton (l’inventore della nave a vapore), è uno spirito libero che detesta le convenzioni.
Una sera, mentre si appresta ad indossare l’abito che segnerà il suo debutto in società, capisce che il corsetto è in bella mostra ma le toglie il respiro. E qui le arriva l’illuminazione: utilizza due foulard di seta e un nastro per sostenere il seno. L’idea funziona e, alla fine di ottobre del 1914, miss Jacobs ottiene il brevetto per ciò che diventerà un accessorio di uso quotidiano, il moderno reggiseno. La sua invenzione ha enorme successo perché mette insieme comodità, funzionalità ed eleganza, ma soprattutto permette alle ‘maggiorate’ di comprimere il seno e rientrare nei canoni di bellezza dell’epoca, che esaltavano le signore non troppo procaci.
Intanto in Europa Herminie Cadolle è già una star. Il suo reggiseno, dopo la presentazione all’Expo di Parigi del 1900, conquista le dame della borghesia francese. Negli Stati Uniti invece il capo d’abbigliamento ideato dalla Jacobs si diffonde più prosaicamente nei grandi magazzini, spingendola a vendere i diritti della sua creazione, per soli 1.500 dollari, a un’azienda del Massachusetts, che ne guadagnerà, negli anni successivi, profitti per qualcosa come 15 milioni di dollari.
Da lì in poi l’indumento intimo sulla cui maternità si dibatte da oltre un secolo, ha fatto la storia del costume, entrando nella vita di tutti i giorni, assumendo forme e stili diversi per divenire poi strumento dell’immaginario estetico (ed erotico) collettivo. Herminie Cadolle e Mary Jacobs avranno due destini opposti. La prima produrrà reggiseni per il resto della propria vita. Fra le sue clienti potrà annoverare anche la leggendaria spia Mata Hari. La Jacobs diventerà invece un’attivista e avrà una carriera nell’editoria che la porterà a pubblicare opere di artisti come Ezra Pound, Ernest Hemingway e Henry Miller. Morirà a Roma nel gennaio del 1970, celebrata come la «madrina letteraria della Generazione perduta».
Ma il suo posto nella Storia se lo era già guadagnato, nel cuore, nei cassetti e negli armadi di intere generazioni di donne.
Lou Reed: il poeta rock delle solitudini urbane, artista completo e sperimentatore
Il 27 ottobre 2013 lasciava questa terra il grande Lou Reed. Artista , musicista, paroliere, poeta.... bestiale. Lascia ai posteri pezzi meravigliosi, in musica, in parole, che che hanno fatto storia. Ma più di tutto lascia ricordi, lascia momenti, lascia quella "cosa" che tanti di noi boomer, riconoscono come identità.
Giovanna Anversa
Con Lou Reed il rumore diventa poesia. Già dai tempi dei Velvet Underground aveva preso il rock and roll trasformandolo in materia eccitante, perversa, trampolino di lancio per liriche di solitudine e rabbia metropolitana, vita di bassifondi. Da solista perfeziona la formula, abbracciando generi diversi, scrivendo album concept su storie d’amore e tossicodipendenza, l’urlo metropolitano e angosciato che diventa racconto noir, sesso, droga e trasgressione e poi, sempre scandagliando le profondità dell’animo umano, romanzo popolare, visione disincantata del quotidiano, elettricità delle passioni.
Lou Reed ha segnato indelebilmente la storia del rock, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila andandosene, inaspettatamente anziano dopo aver attraversato inferni personali, il 27 ottobre 2013, da artista e uomo pacificato, tra le braccia di Laurie Anderson. Sono passati undici anni.
Già la stessa storia di Lou Reed sarebbe materia per un romanzo. Gioventù inquieta avvolta nel velluto sotterraneo tessuto da Andy Warhol, in bilico tra le tendenze sessuali da gender fluid ante litteram. Cade nella tossicodipendenza e risorge, sposa prima un travestito, Rachel e poi, nella maturità, due donne vere, Sylvia Morales e Laurie. Firma album che rappresentano pietre miliari nel cammino del rock, scrive testi ispirati da Delmore Schwartz ed Edgar Allan Poe, Leopold Von Sacher Masoch e Bob Dylan, compare come attore in film importanti e sul finire collabora perfino con i Metallica.
Lewis Allan Reed nasce a New York il 2 marzo 1942, figlio del
contabile Sydney Joseph Reed (nato Rabinowicz) e della casalinga Toby
Futterman. E’ la radio a trasmettergli la passione della musica (come
racconterà in Rock and Roll) ed ascoltandola impara a
strimpellare r’n’r e r&b con la chitarra. Nel 1956 viene sottoposto
ad elettroshock, secondo i genitori per “curare” la sua bisessualità e
sulla esperienza traumatizzante, anni dopo, nel 1974 scriverà Kill Your Sons.
In seguito si definì sempre pansessuale. Secondo la sorella, il
trattamento sarebbe stato effettuato per la depressione, l’ansia e i
“comportamenti irresponsabili” manifestatisi dopo un esaurimento
nervoso. Comunque sia, le scosse elettriche lo segnarono profondamente.
Il giovane Lewis era irrequieto e borderline. Fece le prime esperienze di droga nel 1958, sedicenne, ma aveva una mente sveglia. Iniziò a studiare giornalismo, regia cinematografica e scrittura creativa alla Syracuse University nel 1960 e un anno dopo conduceva un programma radiofonico notturno su WAER dal titolo Excursions on a Wobbly Rail, dal titolo di un brano del pianista Cecil Taylor, in cui mescolava doo woop, r&b e free jazz. Le sue tecniche chitarristiche si rifacevano al sassofonista Ornette Coleman e nel 1964 prese la laurea.
Risale a quel periodo l’incontro con Delmore Schwartz, scrittore e poeta che fu suo insegnante alla Syracuse, già malato e alcolizzato che prese in simpatia quel “ragazzo disorientato di New York”. Alla sua morte, nel 1966, Reed gli avrebbe dedicato European Son sul primo album dei Velvet. Riferimenti a Schwartz sono anche in My House su The Blue Mask del 1982: “Delmore I miss all your funny ways”. Lou voleva “portare la sensibilità della letteratura nella musica rock” superando i testi adolescenziali delle canzoni rock del periodo e in Schwartz che li detestava, vedeva il suo mentore.
Nel 1964 Lewis inizia a lavorare a NY presso la piccola etichetta Pickwick come compositore e scrive The Ostrich, parodia delle musiche ballabili dell’epoca. Il brano colpisce l’attenzione dei produttori che, per inciderlo, mettono insieme in fretta una band, The Primitives, in cui figura anche John Cale che in città studiava musica classica e suonava la viola nell’ensemble d’avanguardia del compositore La Monte Young e del violinista Tony Conrad. Cale e Conrad scoprono che nella struttura del brano Reed aveva accordato la chitarra su una nota sola ripetuta, con effetto simile alle sperimentazioni di Young. Gli chiedono se ha altri brani e Reed gli fa ascoltare loro una primitiva versione di Heroin.
Erano praticamente nati i Velvet Underground. Reed e Cale chiamano con loro il chitarrista Sterling Morrison e, alla batteria, prima Angus McLise e poi una donna, Maureen Tucker. Nel frattempo Lewis ha adottato il diminutivo Lou che unito al cognome suona come “lurid”. Il disco d’esordio è prodotto da Andy Warhol che disegna anche la copertina, la famosa banana sbucciabile. Vende pochissimo, ma contiene pezzi che diventeranno immortali come Sunday Morning, Waiting for My Man, Femme Fatale, Venus in Furs e naturalmente Heroin. Al canto c’e la tedesca Nico, stella della Factory e il lavoro viene promosso nell’Exploding Plastic Inevitable Show, spettacolo itinerante di Warhol che gira gli Usa e il Canada con i consensi della critica.
I Velvet colpivano l’attenzione perché parlavano di argomenti tabù come la droga, le devianze sessuali e la bellezza del male, esplorando le pieghe di una sottocultura “malata” in netto contrasto con il peace and love della West Coast. Erano metropolitani e cinici, perversi e romantici. Durarono quattro album, con il progressivo abbandono di Nico (assente sul secondo, White Light White Heat, 1968), Cale (licenziato dopo il terzo, The Velvet Underground, 1969). Reed, Morrison e Tucker rimasero, con l’altro chitarrista Doug Youle, per Loaded che nel 1970 segnava la fine del gruppo ma contiene classici come Sweet Jane e Rock and Roll. I Velvet dal vivo sono documentati in due album, pubblicati postumi: Live at Max’s Kansas City (1972) e 1969: Velvet Underground Live with Lou Reed (1974).
Reed non si perde d’animo, da tempo coltivava ambizioni soliste e nel 1972 incide il primo album omonimo, ma è un fiasco. La sua carriera si trova ad un punto morto, ma è l’amico David Bowie ad offrirgli l’occasione della vita. Insieme a Mick Ronson, gli produce il secondo disco, Transformer che esce nello stesso anno e sfonda grazie a pezzi come Walk On The Wild Side (una descrizione della nightlife di New York con il basso memorabile di Herbie Flowers), Vicious, Perfect Day e Satellite of Love.
Incoraggiato dal successo, Reed scrive e pubblica nel 1973Berlin, concept di amore, droga e morte ambientato sotto il Muro che parla del fallimento del matrimonio di due tossicodipendenti. Lou vorrebbe fosse un doppio album, ma la casa discografica RCA opta per un singolo, prodotto da BobEzrin. Il disco vende poco, ma nel tempo sarà rivalutato come un capolavoro letterario.
Per rilanciarlo, la RCA gli fa pubblicare tre album in due anni, i live Rock and Roll Animal (1974) e Lou Reed Live (1975) che in realtà dovevano essere un unico lavoro doppio, con la band spettacolare di Alice Cooper in cui spiccano i chitarristi SteveHunter e Dick Wagner e infuocate versioni di Sweet Jane, Rock and Roll e Heroin. In mezzo, l’album di studio Sally Can’t Dance (1974). In questo periodo praticamente Reed è ostaggio della casa discografica, in preda alla dipendenza da eroina e comunque i dischi che escono sono di ottimo livello.
«Lou Reed ha resuscitato la sua carriera solista spacciandosi per il depravato più sfatto in circolazione. E non era tutta scena, proprio per niente.» annoterà Lester Bangs.
E allora, quasi per reazione, ecco il disco di rottura. MetalMachine Music (1975) è un doppio album di puro rumore e feedback che anticipa le sonorità metal a venire. Nelle note di copertina Lou scrive che “chi riuscirà ad ascoltarlo per intero è più pazzo di me”.
Arriva a suonare anche in Italia, a Milano e Roma, ma sale sul palco fatto di eroina, dimentica le parole, viene spesso contestato. Solo a Torino il concerto si svolge in maniera regolare. Questa volta la carriera di Lou Reed sembra finita, per davvero.
Ma lui, inaspettatamente, risorge. Nel 1976 pubblica Coney Island Baby, disco tra i migliori, rivisitazione della gioventù e del periodo Velvet con pezzi memorabili e finalmente può lasciare la RCA per l’Arista. Con l’etichetta pubblica Rock and Roll Heart (1976), lavoro discontinuo che non colpisce granché in piena era punk, ma nel 1978 arrivano Street Hassle, con la title-track racconto metropolitano di amori diversi e violenza che ne ribadisce la statura artistica e letteraria e il live Take No Prisoners in cui stravolge i testi delle canzoni famose rendendole irriconoscibili. The Bells (1979) con Nils Lofgren e Don Cherry e Growing Up in Public (1980) sono meno riusciti, ma lo tengono comunque nelle classifiche.
Segue un periodo di silenzio discografico, in cui Reed si accapiglia spesso con i colleghi. Definisce “dolcissimo ma stupidissimo”Iggy Pop e si becca con Frank Zappa che lo considerava “la persona con meno talento che io abbia mai sentito nella vita. È un accademico presuntuoso, e non sa suonare rock & roll perché è un perdente”. Ma poi sarà Reed a indurlo nella Rock and Roll Hall of Fame, nel 1995. Litiga anche con Johnny Rotten, che lo accusa del suicidio di Sid Vicious: ”A rovinarlo è stato il fatto che non è mai riuscito a incontrare Lou Reed e capire in cosa si stava mettendo. Non avrebbe mai pasticciato con l’eroina se avesse visto che vanitoso grasso pagliaccio è realmente Reed”. Se la prende anche con Jim Morrison (“non era proprio un granché”) e i Doors, mentre elogia i Duran Duran per la loro versione di Perfect Day. Ma non sarà stato tutto abilmente orchestrato?
I problemi seri a Lou li dà la droga pesante, con cui tronca, ma riuscirà a liberarsene definitivamente solo nel 2000. Segue un metodo curioso: “Ho provato a smettere di drogarmi bevendo”. Ciò non gli impedisce, comunque, di sfoderare prove di alto livello. Nel 1982 The Blue Mask che richiama anche in copertina Transformer, è un disco di rumore e poesia ben assortiti, con cui inizia la collaborazione con il chitarrista Robert Quine che sarà decisivo nel suono loureediano. Lui, però, riesce a metterlo in secondo piano nel successivo Legendary Hearts che è fiacco quanto il predecessore era dirompente. New Sensations (1984) è un disco riuscito a metà, in cui scrive un pezzo con l’attore e commediografo Sam Shepard, tra elettronica e pop, storie più divertenti che malate. Mistrial (1986) è un capitolo dimenticabile.
Ci vuole la morte di Andy Warhol nel 1987, che lo fa gettare nel lavoro a esorcizzare la perdita, per un’altra rinascita artistica. Esce New York (1989) in cui ritrova la sua spontaneità di strada parlando di crimine e Aids, diritti civili e religione, in un ritratto della sua città preferita. Segue a breve distanza Songs for Drella (1990), insieme a John Cale, dedicato all’amico scomparso, la loro versione dei Diari di Pat Hackett usciti in quel periodo e che non rendono giustizia a Warhol. Il terzo tassello della “trilogia del dolore” è Magic and Loss (1992), che documenta il senso, appunto, di magia e di perdita che gli ha fatto comunque ritrovare la via dell’ispirazione maestra.
Nello stesso anno, ad una commemorazione ebraica della Notte dei Cristalli, a Berlino, incontra Laurie Anderson, musicista e performer d’avanguardia. Nasce un’intesa artistica e sentimentale e nel 1996, dopo una estemporanea reunion dei Velvet Underground sopravvissuti con relativa induzione nella Rock and Roll Hall of Fame, le dedica l’album Set The Twilight Reeling che contiene la bellissima NYC Man, altro atto d’amore verso New York.
Il Lou Reed che negli anni settanta si dichiarava gay, adottava comportamenti trasgressivi ed aveva una relazione con il transgender Rachel, oggi si confessa felicemente etero, vive con Laurie e ne trae nuova linfa artistica. Sempre nel 1996 contribuisce con alcuni canzoni al musical d’avanguardia Time Rocker del regista canadese Robert Wilson, ispirato a La Macchina del Tempo di H.G. Wells.
A sorpresa, l’”eretico” Reed nel 2000 si esibisce al cospetto del Papa per il Giubileo, in quell’anno ha pubblicato Ecstasy ma dichiara, in riferimento al titolo: «Non ho intenzione di farmi di ecstasy. Ho fatto tutto, non mi interessa più niente. Non voglio che la mia mente si espanda. Sto ancora cercando di recuperarne un po’.» . E ’un album pieno di tensione, ma domata da un uomo maturo, forse l’ultimo lavoro pienamente riuscito.
Ispirato ai racconti di Poe, nel 2003 ecco The Raven, doppio album che rivisita la vita di un poeta dark di altri tempi, con musicisti di prim’ordine ed ospiti illustri: David Bowie, Ornette Coleman e Willem Dafoe.
Nell’aprile di quell’anno Lou, che negli ultimi tempi si è avvicinato al buddismo tibetano, va in tour con la violoncellista Jane Scarpantoni e il cantante Antony Hegarty dalla voce suggestiva e melodiosa. Sul palco movimenti del suo maestro personale di tai-chi si intervallano alla musica. Dalle esibizioni viene tratto un live atipico come Animal Serenade che riprende tante vecchie canzoni dei Velvet in versione allucinata. Reed interpreta se stesso in due film di Wim Wenders, da sempre suo fan, Così lontano, così vicino (1993) e Palermo Shooting (2008). In precedenza aveva recitato anche in Blue in the Face di Wayne Wang.
E’il 2008 quando sposa Laurie, in una cerimonia privatissima e fonda il Metal Machine Trio con Ulrich Krieger e Sarth Calhoun, suonando improvvisazioni tra rock, free jazz, musica minimale, elettronica e ambient. Con loro incide l’album “non commerciale” dal vivo The Creation of the Universe. E’ in qualche modo il preludio a Lulu, registrato nel 2011 insieme ai Metallica in sole due settimane. L’album divide pubblico e critica, sembra un ritorno al rumorismo di Metal Machine Music ma, come sempre, Lou fa quello che gli pare.
Gli eccessi giovanili chiedono il conto. Nel maggio del 2013 Lou Reed, che dagli anni Settanta soffriva di epatite C dovuta ad aghi infetti, viene sottoposto ad un trapianto di fegato. L’intervento sembra riuscito, ma il 30 giugno sopravviene una crisi di disidratazione che richiede un nuovo ricovero. Poi altre complicazioni, su un fisico minato. E ad ottobre i medici lo rimandano a casa sua dove spira il 27 ottobre a 71 anni. La notizia viene data dal sito web di Rolling Stone e poi si diffonde in tutto il mondo, suscitando grande cordoglio tra molti tra cui Iggy Pop, Ryan Adams, Lenny Kravitz e Maureen Tucker, gli attori Samuel L. Jackson, Ricky Gervais ed Elijah Wood, lo scrittore Salman Rushdie.
Fino ad un’ora prima di morire, secondo il suo fisiatra Charles Miller, Lou stava facendo i suoi esercizi di tai-chi, cercando di tenersi in forma per lottare contro la malattia.
Disse Laurie Anderson: «Non ho mai visto un’espressione così piena di stupore come quella di Lou quando è morto. Con le mani stava facendo la ventunesima forma di Tai Chi, che rappresenta lo scorrere dell’acqua. Aveva gli occhi spalancati. Stavo tenendo tra le mie braccia la persona che amavo di più al mondo, e gli parlavo mentre stava morendo. Il suo cuore si è fermato. Non aveva paura. Ero riuscita ad accompagnarlo fino alla fine del mondo. La vita – così splendida, dolorosa e abbagliante – non può andare meglio di così. E la morte? Io credo che lo scopo della morte sia la liberazione dell’amore.»
Le sue ultime parole furono: “Domani sarò fumo”. L’epitaffio migliore è forse quello tracciato da John Cale: “«Il mondo ha perso un compositore superbo e un poeta… Io ho perso il mio “compagno di scuola”». David Bowie disse semplicemente del suo vecchio amico: “Era un maestro”. Nel 2014 entrò come artista solista nella Rock and Roll Hall of Fame dove era già presente con i Velvet Underground e in suo onore fu chiamata Loureedia una specie di ragno (velvet spider) che vive nel sottosuolo (underground).
La sua eredità musicale è rintracciabile praticamente in chiunque abbia fatto musica dal 1967 in poi.
«Non ho mai avuto giovani che strillavano ai miei concerti. I ragazzi strillano per David Bowie, non per me. A me tirano siringhe sul palco.»
Esce il 31 ottobre al cinema “Berlinguer. La grande ambizione”, del regista Andrea Segre, che perlustra con profondità e delicatezza la figura di Enrico Berlinguer, leader del Partito Comunista Italiano negli anni Settanta, il più importante partito comunista occidentale con quasi due milioni di iscritti e più di 12 milioni di elettori.
La pellicola tratteggia il ritratto privato e pubblico del suo segretario carismatico. Da una parte c’è il Berlinguer uomo (interpretato da Elio Germano), padre di famiglia e marito; dall’altra il Berlinguer politico, impegnato nella difficile battaglia per realizzare un moderno socialismo in un’Italia divisa e ideologicamente incagliata nel passato.
Due mondi, quello intimo e quello collettivo, indissolubilmente legati fra loro, che dissolvono l’uno nell’altro così come visivamente succede alle toccanti immagini di repertorio documentaristico con quelle di finzione, con la fotografia straordinaria di Benoît Dervaux. La musica alchimistica del cantautore Iosonouncane si fonde nelle scene in modo naturale e consequenziale.
È il 1973, EnricoBerlinguer è a Sofia e sopravvive a un attentato dei servizi segreti bulgari. Un atto intimidatorio e mortale per uno dei passeggeri della sua auto. Il segretario fu sempre piuttosto reticente sull’incidente, pensando ad un attentato del KGB.
Il film parte da qui e diventa un viaggio in quel complicato decennio che ha ridefinito e cambiato il nostro Paese, tra campagne elettorali, relazioni contraddittorie con Mosca, copertine di riviste e le prime pagine dei giornali, fino al contrastato compromesso storico con la Democrazia Cristiana in conseguenza del rapimento del suo presidente Aldo Moro, nel 1978, da parte delle Brigate Rosse. Un compromesso che provoca insofferenze in molte delle basi del partito di Berlinguer, dagli operai in fabbrica agli studenti in aule e piazze (compresi i figli).
Tappe di un percorso che evidenziano la necessità di una faticosa indipendenza del Pci dall’orbita sovietica e un Berlinguer innovatore, riformista, in bilico fra pragmatismo, realpolitik e indipendenza. Questo cammino costò a Berlinguer una sorta di isolamento politico da parte di chi considerava compagno.
Tra i momenti più intensi del film c’è il periodo del sequestro Moro che, oltre a gettare lo Stato e le istituzioni in una profonda crisi, pone Berlinguer di fronte a un dilemma etico e morale. La decisione finale di non trattare con i terroristi, nel rispetto dei princìpi che lo guidano gli lascia forse un senso di colpa che Segre mette in scena con delicatezza. La stessa (eventuale) decisione di non trattare (come indicato esplicitamente da Berlinguer alla sua famiglia) l’avrebbe voluta anche per sé. Ma il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro segna un punto di non ritorno: non solo per la politica italiana, ma anche per il segretario comunista che ne esce profondamente segnato, tanto dal lato umano quanto da quello politico.
La narrazione cinematografica si chiude infatti emblematicamente e narrativamente qui, anche se alla fine, attraverso i titoli di coda, si rivivono i commoventi e partecipati funerali di Berlinguer che diventano simbolo di una morte più alta, quella di una speranza riformista spazzata via, di una mancata rivoluzione nell’alveo costituzionale, la cui interruzione ci avrebbe portato, negli anni a venire, su quel terreno viscido ed insidioso in cui il vecchio mondo era morto, mentre quello nuovo tardava a comparire. Ed in questa nebbiosa terra di mezzo sono nati i mostri politici che ci portiamo ancora attaccati alle caviglie e ci impediscono di prendere il volo verso l’utopia che avremmo voluto, ma non abbastanza per riuscirci.