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28 ottobre 2024

Lou Reed: il poeta rock delle solitudini urbane, artista completo e sperimentatore

 Lou Reed: il poeta rock delle solitudini urbane, artista completo e sperimentatore

 


 Il 27 ottobre 2013 lasciava questa terra il grande Lou Reed. Artista , musicista, paroliere, poeta.... bestiale. Lascia ai posteri pezzi meravigliosi, in musica, in parole, che che hanno fatto storia. Ma più di tutto lascia ricordi, lascia momenti, lascia quella "cosa" che tanti di noi boomer, riconoscono come identità.

Giovanna Anversa

 

 

 Con Lou Reed il rumore diventa poesia. Già dai tempi dei Velvet Underground aveva preso il rock and roll trasformandolo in materia eccitante, perversa, trampolino di lancio per liriche di solitudine e rabbia metropolitana, vita di bassifondi. Da solista perfeziona la formula, abbracciando generi diversi, scrivendo album concept su storie d’amore e tossicodipendenza, l’urlo metropolitano e angosciato che diventa racconto noir, sesso, droga e trasgressione e poi, sempre scandagliando le profondità dell’animo umano, romanzo popolare, visione disincantata del quotidiano, elettricità delle passioni.

Lou Reed ha segnato indelebilmente la storia del rock, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila andandosene, inaspettatamente anziano dopo aver attraversato inferni personali, il 27 ottobre 2013, da artista e uomo pacificato, tra le braccia di Laurie Anderson. Sono passati undici anni.

 


Già la stessa storia di Lou Reed sarebbe materia per un romanzo. Gioventù inquieta avvolta nel velluto sotterraneo tessuto da Andy Warhol, in bilico tra le tendenze sessuali da gender fluid ante litteram. Cade nella tossicodipendenza e risorge, sposa prima un travestito, Rachel e poi, nella maturità, due donne vere, Sylvia Morales e Laurie. Firma album che rappresentano pietre miliari nel cammino del rock, scrive testi ispirati da Delmore Schwartz ed Edgar Allan Poe, Leopold Von Sacher Masoch e Bob Dylan, compare come attore in film importanti e sul finire collabora perfino con i Metallica.

 


Lewis Allan Reed nasce a New York il 2 marzo 1942, figlio del contabile Sydney Joseph Reed (nato Rabinowicz) e della casalinga Toby Futterman. E’ la radio a trasmettergli la passione della musica (come racconterà in Rock and Roll) ed ascoltandola impara a strimpellare r’n’r e r&b con la chitarra. Nel 1956 viene sottoposto ad elettroshock, secondo i genitori per “curare” la sua bisessualità e sulla esperienza traumatizzante, anni dopo, nel 1974 scriverà Kill Your Sons. In seguito si definì sempre pansessuale. Secondo la sorella, il trattamento sarebbe stato effettuato per la depressione, l’ansia e i “comportamenti irresponsabili” manifestatisi dopo un esaurimento nervoso. Comunque sia, le scosse elettriche lo segnarono profondamente.

Il giovane Lewis era irrequieto e borderline. Fece le prime esperienze di droga nel 1958, sedicenne, ma aveva una mente sveglia. Iniziò a studiare giornalismo, regia cinematografica e scrittura creativa alla Syracuse University nel 1960 e un anno dopo conduceva un programma radiofonico notturno su WAER dal titolo Excursions on a Wobbly Rail, dal titolo di un brano del pianista Cecil Taylor, in cui mescolava doo woop, r&b e free jazz. Le sue tecniche chitarristiche si rifacevano al sassofonista Ornette Coleman e nel 1964 prese la laurea.

 


Risale a quel periodo l’incontro con Delmore Schwartz, scrittore e poeta che fu suo insegnante alla Syracuse, già malato e alcolizzato che prese in simpatia quel “ragazzo disorientato di New York”. Alla sua morte, nel 1966, Reed gli avrebbe dedicato European Son sul primo album dei Velvet. Riferimenti a Schwartz sono anche in My House su The Blue Mask del 1982: “Delmore I miss all your funny ways”. Lou voleva “portare la sensibilità della letteratura nella musica rock” superando i testi adolescenziali delle canzoni rock del periodo e in Schwartz che li detestava, vedeva il suo mentore.

 


Nel 1964 Lewis inizia a lavorare a NY presso la piccola etichetta Pickwick come compositore e scrive The Ostrich, parodia delle musiche ballabili dell’epoca. Il brano colpisce l’attenzione dei produttori che, per inciderlo, mettono insieme in fretta una band, The Primitives, in cui figura anche John Cale che in città studiava musica classica e suonava la viola nell’ensemble d’avanguardia del compositore La Monte Young e del violinista Tony Conrad. Cale e Conrad scoprono che nella struttura del brano Reed aveva accordato la chitarra su una nota sola ripetuta, con effetto simile alle sperimentazioni di Young. Gli chiedono se ha altri brani e Reed gli fa ascoltare loro una primitiva versione di Heroin.

 


Erano praticamente nati i Velvet Underground. Reed e Cale chiamano con loro il chitarrista Sterling Morrison e, alla batteria, prima Angus McLise e poi una donna, Maureen Tucker. Nel frattempo Lewis ha adottato il diminutivo Lou che unito al cognome suona come “lurid”. Il disco d’esordio è prodotto da Andy Warhol che disegna anche la copertina, la famosa banana sbucciabile. Vende pochissimo, ma contiene pezzi che diventeranno immortali come Sunday Morning, Waiting for My Man, Femme Fatale, Venus in Furs e naturalmente Heroin. Al canto c’e la tedesca Nico, stella della Factory e il lavoro viene promosso nell’Exploding Plastic Inevitable Show, spettacolo itinerante di Warhol che gira gli Usa e il Canada con i consensi della critica.



I Velvet colpivano l’attenzione perché parlavano di argomenti tabù come la droga, le devianze sessuali e la bellezza del male, esplorando le pieghe di una sottocultura “malata” in netto contrasto con il peace and love della West Coast. Erano metropolitani e cinici, perversi e romantici. Durarono quattro album, con il progressivo abbandono di Nico (assente sul secondo, White Light White Heat, 1968), Cale (licenziato dopo il terzo, The Velvet Underground, 1969). Reed, Morrison e Tucker rimasero, con l’altro chitarrista Doug Youle, per Loaded che nel 1970 segnava la fine del gruppo ma contiene classici come Sweet Jane e Rock and Roll. I Velvet dal vivo sono documentati in due album, pubblicati postumi: Live at Max’s Kansas City (1972) e 1969: Velvet Underground Live with Lou Reed (1974).

 

Reed non si perde d’animo, da tempo coltivava ambizioni soliste e nel 1972 incide il primo album omonimo, ma è un fiasco. La sua carriera si trova ad un punto morto, ma è l’amico David Bowie ad offrirgli l’occasione della vita. Insieme a Mick Ronson, gli produce il secondo disco, Transformer che esce nello stesso anno e sfonda grazie a pezzi come Walk On The Wild Side (una descrizione della nightlife di New York con il basso memorabile di Herbie Flowers), Vicious, Perfect Day e Satellite of Love

 


Incoraggiato dal successo, Reed scrive e pubblica nel 1973 Berlin, concept di amore, droga e morte ambientato sotto il Muro che parla del fallimento del matrimonio di due tossicodipendenti. Lou vorrebbe fosse un doppio album, ma la casa discografica RCA opta per un singolo, prodotto da Bob Ezrin. Il disco vende poco, ma nel tempo sarà rivalutato come un capolavoro letterario.

 


Per rilanciarlo, la RCA gli fa pubblicare tre album in due anni, i live Rock and Roll Animal (1974) e Lou Reed Live (1975) che in realtà dovevano essere un unico lavoro doppio, con la band spettacolare di Alice Cooper in cui spiccano i chitarristi Steve Hunter e Dick Wagner e infuocate versioni di Sweet Jane, Rock and Roll e Heroin. In mezzo, l’album di studio Sally Can’t Dance (1974). In questo periodo praticamente Reed è ostaggio della casa discografica, in preda alla dipendenza da eroina e comunque i dischi che escono sono di ottimo livello.



«Lou Reed ha resuscitato la sua carriera solista spacciandosi per il depravato più sfatto in circolazione. E non era tutta scena, proprio per niente.» annoterà Lester Bangs.



E allora, quasi per reazione, ecco il disco di rottura. Metal Machine Music (1975) è un doppio album di puro rumore e feedback che anticipa le sonorità metal a venire. Nelle note di copertina Lou scrive che “chi riuscirà ad ascoltarlo per intero è più pazzo di me”.

Arriva a suonare anche in Italia, a Milano e Roma, ma sale sul palco fatto di eroina, dimentica le parole, viene spesso contestato. Solo a Torino il concerto si svolge in maniera regolare. Questa volta la carriera di Lou Reed sembra finita, per davvero.


 

Ma lui, inaspettatamente, risorge. Nel 1976 pubblica Coney Island Baby, disco tra i migliori, rivisitazione della gioventù e del periodo Velvet con pezzi memorabili e finalmente può lasciare la RCA per l’Arista. Con l’etichetta pubblica Rock and Roll Heart (1976), lavoro discontinuo che non colpisce granché in piena era punk, ma nel 1978 arrivano Street Hassle, con la title-track racconto metropolitano di amori diversi e violenza che ne ribadisce la statura artistica e letteraria e il live Take No Prisoners in cui stravolge i testi delle canzoni famose rendendole irriconoscibili. The Bells (1979) con Nils Lofgren e Don Cherry e Growing Up in Public (1980) sono meno riusciti, ma lo tengono comunque nelle classifiche.

 


Segue un periodo di silenzio discografico, in cui Reed si accapiglia spesso con i colleghi. Definisce “dolcissimo ma stupidissimo” Iggy Pop e si becca con Frank Zappa che lo considerava “la persona con meno talento che io abbia mai sentito nella vita. È un accademico presuntuoso, e non sa suonare rock & roll perché è un perdente”. Ma poi sarà Reed a indurlo nella Rock and Roll Hall of Fame, nel 1995. Litiga anche con Johnny Rotten, che lo accusa del suicidio di Sid Vicious: ”A rovinarlo è stato il fatto che non è mai riuscito a incontrare Lou Reed e capire in cosa si stava mettendo. Non avrebbe mai pasticciato con l’eroina se avesse visto che vanitoso grasso pagliaccio è realmente Reed”. Se la prende anche con Jim Morrison (“non era proprio un granché”) e i Doors, mentre elogia i Duran Duran per la loro versione di Perfect Day. Ma non sarà stato tutto abilmente orchestrato?

 


I problemi seri a Lou li dà la droga pesante, con cui tronca, ma riuscirà a liberarsene definitivamente solo nel 2000. Segue un metodo curioso: “Ho provato a smettere di drogarmi bevendo”. Ciò non gli impedisce, comunque, di sfoderare prove di alto livello. Nel 1982 The Blue Mask che richiama anche in copertina Transformer, è un disco di rumore e poesia ben assortiti, con cui inizia la collaborazione con il chitarrista Robert Quine che sarà decisivo nel suono loureediano. Lui, però, riesce a metterlo in secondo piano nel successivo Legendary Hearts che è fiacco quanto il predecessore era dirompente. New Sensations (1984) è un disco riuscito a metà, in cui scrive un pezzo con l’attore e commediografo Sam Shepard, tra elettronica e pop, storie più divertenti che malate. Mistrial (1986) è un capitolo dimenticabile.


Ci vuole la morte di Andy Warhol nel 1987, che lo fa gettare nel lavoro a esorcizzare la perdita, per un’altra rinascita artistica. Esce New York (1989) in cui ritrova la sua spontaneità di strada parlando di crimine e Aids, diritti civili e religione, in un ritratto della sua città preferita. Segue a breve distanza Songs for Drella (1990), insieme a John Cale, dedicato all’amico scomparso, la loro versione dei Diari di Pat Hackett usciti in quel periodo e che non rendono giustizia a Warhol. Il terzo tassello della “trilogia del dolore” è Magic and Loss (1992), che documenta il senso, appunto, di magia e di perdita che gli ha fatto comunque ritrovare la via dell’ispirazione maestra.

 


Nello stesso anno, ad una commemorazione ebraica della Notte dei Cristalli, a Berlino, incontra Laurie Anderson, musicista e performer d’avanguardia. Nasce un’intesa artistica e sentimentale e nel 1996, dopo una estemporanea reunion dei Velvet Underground sopravvissuti con relativa induzione nella Rock and Roll Hall of Fame, le dedica l’album Set The Twilight Reeling che contiene la bellissima NYC Man, altro atto d’amore verso New York.



Il Lou Reed che negli anni settanta si dichiarava gay, adottava comportamenti trasgressivi ed aveva una relazione con il transgender Rachel, oggi si confessa felicemente etero, vive con Laurie e ne trae nuova linfa artistica. Sempre nel 1996 contribuisce con alcuni canzoni al musical d’avanguardia Time Rocker del regista canadese Robert Wilson, ispirato a La Macchina del Tempo di H.G. Wells.



A sorpresa, l’”eretico” Reed nel 2000 si esibisce al cospetto del Papa per il Giubileo, in quell’anno ha pubblicato Ecstasy ma dichiara, in riferimento al titolo: «Non ho intenzione di farmi di ecstasy. Ho fatto tutto, non mi interessa più niente. Non voglio che la mia mente si espanda. Sto ancora cercando di recuperarne un po’.» . E ’un album pieno di tensione, ma domata da un uomo maturo, forse l’ultimo lavoro pienamente riuscito.

Ispirato ai racconti di Poe, nel 2003 ecco The Raven, doppio album che rivisita la vita di un poeta dark di altri tempi, con musicisti di prim’ordine ed ospiti illustri: David Bowie, Ornette Coleman e Willem Dafoe.

 


Nell’aprile di quell’anno Lou, che negli ultimi tempi si è avvicinato al buddismo tibetano, va in tour con la violoncellista Jane Scarpantoni e il cantante Antony Hegarty dalla voce suggestiva e melodiosa. Sul palco movimenti del suo maestro personale di tai-chi si intervallano alla musica. Dalle esibizioni viene tratto un live atipico come Animal Serenade che riprende tante vecchie canzoni dei Velvet in versione allucinata. Reed interpreta se stesso in due film di Wim Wenders, da sempre suo fan, Così lontano, così vicino (1993) e Palermo Shooting (2008). In precedenza aveva recitato anche in Blue in the Face di Wayne Wang.




E’il 2008 quando sposa Laurie, in una cerimonia privatissima e fonda il Metal Machine Trio con Ulrich Krieger e Sarth Calhoun, suonando improvvisazioni tra rock, free jazz, musica minimale, elettronica e ambient. Con loro incide l’album “non commerciale” dal vivo The Creation of the Universe. E’ in qualche modo il preludio a Lulu, registrato nel 2011 insieme ai Metallica in sole due settimane. L’album divide pubblico e critica, sembra un ritorno al rumorismo di Metal Machine Music ma, come sempre, Lou fa quello che gli pare.

 


Gli eccessi giovanili chiedono il conto. Nel maggio del 2013 Lou Reed, che dagli anni Settanta soffriva di epatite C dovuta ad aghi infetti, viene sottoposto ad un trapianto di fegato. L’intervento sembra riuscito, ma il 30 giugno sopravviene una crisi di disidratazione che richiede un nuovo ricovero. Poi altre complicazioni, su un fisico minato. E ad ottobre i medici lo rimandano a casa sua dove spira il 27 ottobre a 71 anni. La notizia viene data dal sito web di Rolling Stone e poi si diffonde in tutto il mondo, suscitando grande cordoglio tra molti tra cui Iggy Pop, Ryan Adams, Lenny Kravitz e Maureen Tucker, gli attori Samuel L. Jackson, Ricky Gervais ed Elijah Wood, lo scrittore Salman Rushdie.

Fino ad un’ora prima di morire, secondo il suo fisiatra Charles Miller, Lou stava facendo i suoi esercizi di tai-chi, cercando di tenersi in forma per lottare contro la malattia.



Disse Laurie Anderson: «Non ho mai visto un’espressione così piena di stupore come quella di Lou quando è morto. Con le mani stava facendo la ventunesima forma di Tai Chi, che rappresenta lo scorrere dell’acqua. Aveva gli occhi spalancati. Stavo tenendo tra le mie braccia la persona che amavo di più al mondo, e gli parlavo mentre stava morendo. Il suo cuore si è fermato. Non aveva paura. Ero riuscita ad accompagnarlo fino alla fine del mondo. La vita – così splendida, dolorosa e abbagliante – non può andare meglio di così. E la morte? Io credo che lo scopo della morte sia la liberazione dell’amore.»

Le sue ultime parole furono: “Domani sarò fumo”. L’epitaffio migliore è forse quello tracciato da John Cale: “«Il mondo ha perso un compositore superbo e un poeta… Io ho perso il mio “compagno di scuola”». David Bowie disse semplicemente del suo vecchio amico: “Era un maestro”. Nel 2014 entrò come artista solista nella Rock and Roll Hall of Fame dove era già presente con i Velvet Underground e in suo onore fu chiamata Loureedia una specie di ragno (velvet spider) che vive nel sottosuolo (underground).



La sua eredità musicale è rintracciabile praticamente in chiunque abbia fatto musica dal 1967 in poi.

«Non ho mai avuto giovani che strillavano ai miei concerti. I ragazzi strillano per David Bowie, non per me. A me tirano siringhe sul palco.»

 

Paolo Redaelli per Musiclike.it

 

 


 


 

 

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