Elsa Morante è stata una delle scrittrici più importanti del novecento, non solo italiano. Un club norvegese ha inserito un suo romanzo (“La Storia”) fra i 100 libri più importanti di sempre. È stata la prima donna a vincere il Premio Strega, nel 1957, con “L’Isola di Arturo”.
Elsa nasce a Roma nel 1912, prendendo il cognome Morante, che non era di suo padre ma del marito della madre. Lei e i suoi fratelli erano però figli naturali di un altro uomo, cosa che sapranno solo dopo qualche tempo. Comincia giovanissima a scrivere, pubblicando poesie e racconti per ragazzi. Prima di raccoglierli nel 1941 in un volume, uscirono su alcuni periodici, fra i quali il “Corriere dei Piccoli” e il settimanale “Oggi”, allora diretto da Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti.
Nel 1936 conosce Alberto Moravia, che diventa suo marito nel 1941. Nonostante le leggi razziali del fascismo (erano Ebrei) riuscirono per lungo tempo a svolgere una vita quasi normale, non avendo impieghi pubblici o incarichi accademici. Ma nel 1943 sono costretti a fuggire, dato che Roma è infestata da fascisti repubblichini e nazisti, intenti in rastrellamenti e deportazioni nei campi di concentramento. Fuggono in treno verso Napoli ma scendono a Fondi, dove si fermano. Quei luoghi diverranno l’ambientazione del romanzo “La ciociara” di Moravia, e lì Elsa Morante comincia la scrittura di “Menzogna e sortilegio”.
Al tempo stesso Elsa si dedica alla traduzione di libri americani, cosa che farà la fortuna di entrambi, visto che in questo modo si spalanca nel dopoguerra la strada per la traduzione dei loro libri in inglese, per il mercato americano e poi europeo. Nel frattempo si avvicina al cinema e scrive con Franco Zeffirelli i testi di film che però non saranno mai realizzati. Eppure sono di Morante le parole di una ballata (musicata da Nino Rota) in un film dello stesso Zeffirelli, mentre sarà spesso al fianco del regista Pier Paolo Pasolini, apparendo fuggevolmente nelle sue pellicole.
Il matrimonio con Moravia si logora presto, anche se i due dopo la separazione non divorziano. La vita sentimentale di Elsa è tormentata e la ferita più lacerante sarà la morte del pittore newyorchese Bill Morrow, cui si era legata. Da quel dolore nascono “Il mondo salvato dai ragazzini” (1968) e “La Storia” (1974), la sua opera più importante. Un libro nel quale ricompaiono i temi della sua produzione romanzesca, il vedere il mondo con gli occhi di un bambino, Useppe, il suo assistere agli orrori della guerra e il ripetere che non potevano che essere uno scherzo. In quelle pagine torna ad affacciarsi la sua esperienza di giovane donna ebrea in una guerra senza confini e senza civiltà, che grida al mondo la pazzia della storia. Un romanzo che prende vita da altri progetti narrativi che la scrittrice non era riuscita a completare.
Il suo ultimo libro sarà “Aracoeli”, pubblicato nel 1982. La rottura del femore l’aveva costretta a letto e la sua voglia di vivere andava esaurendosi. Tentò il suicidio, ma fu salvata in extremis. Suicida era stato il suo padre naturale, l’uomo che sua madre aveva amato. Poi il suo cuore cedette, per un infarto.
Il cuore di una donna che aveva dato molto alla letteratura. Elsa Morante morì nel 1985, nella Roma in cui aveva vissuto.
Niente preamboli, questo settembre è stato molto strano per la nostra comunità. Io oggi andrei dritta al punto, che poi cadono le foglie e anche qualcos’altro.
13 settembre 1982: vede la luce “New Gold Dream” dei SimpleMinds.
Vai, spariamo lì quello che per me è quasi esclusivamente il disco anni 80 per eccellenza e cerchiamo di risollevare un pochino il morale. Mi fregio di aver avuto la fortuna di conoscere queste sonorità nella tarda adolescenza, quasi in contemporanea all’età nella quale è esplosa nella tarda adolescenza dei miei genitori, l’82 appunto.
E sti cazzi? Sì, ve lo concedo. Detto così è veramente poco importante. Per il mio modesto parere però, ogni disco ha idealmente la sua età ideale nel quale essere scoperto, l’armonia della sua musica si sposa perfettamente con l’armonia di quell’età. Ci sono vibrazioni particolari che escono solo pizzicando determinate corde, per essere più poetici.
Se poi ci mettiamo le cassette del “Cosmic” di Lazise (e qui mi fermo perché ci vorrebbero altri venti articoli sull’argomento), scoperte ascoltate e studiate alla stessa età, chiudiamo il cerchio. Uscendo in ogni caso dalla sfera personale, questo lavoro è una perla dei primi anni 80, definisce perfettamente il vigoroso genere della New Wave, che ormai già girava in Europa da fine anni Settanta. Se questi anni appena citati sono gli anni del Punk, la New Wave è quel qualcosa che è Punk senza essere Punk (parte dal Post Punk), è elettrico ma non è abbastanza leggero da poterlo definire Pop.
Vogliamo testare sul campo queste differenze e farci un’idea? Ascoltiamo qualche traccia dei Joy Division (Post Punk), poi New Order (Synth Pop) poi fate partire questo disco dei SimpleMinds. Credo concorderemo facilmente che “New Gold Dream” sta esattamente nel mezzo.
La catarsi disperata dei primi, la più elettrica e leggera atmosfera dei secondi. Nel mezzo, una leggerezza non leggera, i suoni vivaci non scoppiano ma marciano, il basso è imponente ma non copre, le tastiere ipnotiche e creano melodie che trainano il tutto, la batteria è leggera ma non vuota. Jim Kerr pesca dalla tradizione inglese dei signori cantanti eleganti e profondi nel timbro con un tratto estremamente morbido e sensuale che scivola, è il Bowie di “Golden Years” e il BrianFerry di “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”. Il tutto senza strafare, con grazia e quel tocco di eco che entra e non esce più. Che dire delle tracce principali, tra le quali troviamo alcuni dei loro cavalli di battaglia, come “Glittering Prize” e “Promised you a miracle”, ottimo punto di partenza per familiarizzare con la band, se non lo avete già fatto.
E niente, uno inizia così, con questo ascolto e si ritrova a Mantova, il 04/07/2024, per sentire dal vivo se questi signori spaccano ancora.
In questi ultimi anni le rassegne di Mantova Summer Festival mi offrono opportunità fantastiche di sentire i miei beniamini. Cum magno gaudio, specie quest’estate di “attesa” con le dimensioni di uno Zeppelin e poco agio nel deambulare. Nome gradito e già sperimentato dal vivo in altra cornice (2018 in Piazza Duomo a Cremona), il 04/07 i Simple Minds incantano Mantova nella cornice caratteristica di Piazza Sordello. Uno show educato, elegante, che non delude. Jim Kerr non perde colpi e vocalmente va bello spedito, Charlie Burchill segue il suo compagno di avventure con la sua chitarra fedele. La formazione rinnovata non preclude fascino e non toglie nulla alle pietre miliari della band riproposte in una chiave fresca ma comunque fedele all’originale. Su tutte l’intensissima e portentosa “Belfast Child”, si attinge naturalmente anche da “New Gold Dream” a piene mani senza dimenticare altre meravigliose hit come “Don’t you forget about me” e “SanctifyYourself”.
I Simple Minds in sostanza non deludono affatto le aspettative, la mia piccola in gestazione ha saltato in pancia tutta notte e il giorno successivo, se non basta questa testimonianza vi consiglio comunque di approfittare della prossima occasione che vi si proporrà. Perché questi signori non hanno pare nessuna intenzione di mollare un colpo.
Rinascimento Giapponese L’ascesa vertiginosa fra cinema, tv, sport e arte
Premessa
GIAPPONE: INFLUENZE ARTISTICHE, STORICHE E CULTURALI NELL’EUROPA DEL XIX E XX SECOLO FINO AD OGGI
Nella seconda metà dell’800 fino a circa il 1920 la cultura e l’arte giapponese influenzano artisti, letterati, musicisti e architetti europei tanto da dare vita a quello che fu chiamato Japonisme, in italiano Giapponismo. L’attrazione per il Giappone è parecchio sentita dai pittori francesi ma anche nel resto dell’Europa grazie a ceramiche, stampe, ed arredi da giardino sopraggiunti in Europa tramite la Compagnia delle Indie. Tra il 1850 e il 1870 esplode la moda di collezionare opere d'arte giapponesi, in particolar modo le stampe ukiyo-e, che significa "immagine del mondo fluttuante", un genere di stampa artistica bidimensionale impressa su carta con matrici di legno.
Le prime xilografie si diffusero, dapprincipio, grazie al commercio di vasi e ceramiche, con cui questi venivano avvolti e impacchettati. I preziosi fogli erano spesso i celebri manga di Hokusai o altre brillantissime stampe di Utamaro e Hiroshige che tanta influenza ebbero sugli Impressionisti. E’ spesso la donna a rappresentare l’estetica giapponese in Occidente in quanto incarna gli ideali di bellezza ed eleganza, il lusso e talvolta la tristezza, la solitudine la fragilità. Possiamo dire che l’attrazione per questa terra, piena di fascino e cultura, trova spazio in molteplici forme d’arte: pittura, incisione, letteratura, arredamento, moda, design, fumettistica, tecnologia e tanto altro. Ancora oggi, quando si pensa al Giappone, lo si immagina magico e misterioso, “il mondo fluttuante” che continua ad influenzarci non solo tramite l’arte ma anche come stile di vita cosicché la religione, lo yoga, le arti marziali, il rito del te, gli origami, la filosofia zen e l’alta tecnologia sono entrati a far parte della vita occidentale.
STORIA: HIROSHIMA E NAGASAKI La storia purtroppo ci riconduce al terribile episodio dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki avvenuti rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945. Non mi soffermerò ad analizzare le dinamiche e le strategie belliche che hanno portato gli allora signori della guerra a questa scelta tremenda e tragica, piuttosto voglio analizzarne le conseguenze. Premesso che ritengo che ogni guerra sia aberrante, sono altresì convinta che la memoria sia fondamentale affinché certi errori non vengano ripetuti. Lo sgancio della bomba atomica sulle due città giapponesi non uccise solo circa 200.000 persone, per la maggior parte civili, ma lasciò segni pesanti sui sopravvissuti e sulle generazioni seguenti. Gli HIBAKUSHA, cioè i sopravvissuti, hanno subito conseguenze pesanti, le ustioni, le malattie dovute alle radiazioni, il trauma psicologico fino alle discriminazioni negli ambienti di lavoro, in quanto viene data loro la precedenza di assunzione e alla vita privata perché difficilmente chi è discendente di sopravvissuti rischia di mettere al mondo figli per paura che i danni delle radiazioni assorbite, come malformazioni o malattie gravi, si trasmettano ai nascituri.
La cosa più grave è che purtroppo si sta prestando sempre meno attenzione alla memoria, e le commemorazioni a ricordo sono sempre meno partecipate. Riporto di seguito alcune parole del discorso di BarackObama, il primo e unico presidente recatosi ad Hiroshima a rendere omaggio alle vittime.
“Veniamo a riflettere su una forza terribile scatenata in un passato non lontano. La morte cadde dal cielo e il mondo cambiò, dimostrando che l'umanità possedeva i mezzi per autodistruggersi. Dobbiamo avere il coraggio di uscire dalla logica della paura e cercare di realizzare un mondo senza armi nucleari. Ricordiamo tutti gli innocenti uccisi nel corso di quella terribile guerra. Abbiamo una responsabilità comune: guardare in faccia la storia. E per i Paesi nucleari, c'è in particolare la responsabilità di ridurre il rischio di catastrofi.”
(B. Obama)
INFLUENZE GIAPPONESI IN ITALIA: LA MODA Anche la moda come l’arte viene contagiata dalla passione per il Giappone. In Italia il settore dell’abbigliamento dimostra interesse per l’esotismo giapponese a partire dai primi del 1900 quando tra le signore delle classi sociali più elevate, si diffonde la moda del kimono. L’abito tradizionale giapponese viene apprezzato per la sua comodità e indossato quasi esclusivamente come veste da camera. Inizialmente i kimono giapponesi vengono importati in Italia tramite il mercato francese. Infatti su “La scena illustrata”, rivista quindicinale di Arte e Letteratura, compaiono le pubblicità dei kimono “Sada Yacco”, “eleganti vesti da camera” di cui si poteva fare richiesta, via posta, ai grandi magazzini “Mikado” di Parigi.
Ben presto si comincia a produrre i Kimono direttamente in Italia; sulle riviste femminili italiane di quegli anni vengono presentate vesti da camera di produzione nazionale che hanno il taglio e le decorazioni dei kimono. Il “Corriere delle Signore” nel 1913 propone una “vestaglia di broccato” dalla linea dritta, con lunghe maniche pendenti simili a quelle dei furisode (maniche svolazzanti) e dotata di un’alta cintura simile all’obi mentre il tessuto era decorato con le rondini, motivo iconografico tipicamente giapponese.
La passione per lo stile “Jappo” nella moda italiana si attenua dopo gli anni venti per poi riesplodere negli anni ’70 influenzando parecchi stilisti e perdura tutt’ora.
LO STILE GIAPPONESE NELL’ARREDO E NEL DESIGN Se dal 1850 al 1920 circa il Giapponismo ha influenzato in larga parte tutte le arti figurative fino ad essere da alcuni considerato parte importante della nascita dell’ impressionismo, dal secondo dopoguerra ai giorni nostri la passione per il paese del sol levante arriva a suggestionare il nostro stile di vita entrando dalla porta di casa nostra e spingendosi fino allo sport, alla religione, all’uso delle tecnologie e al cibo. Se all’inizio del ‘900 si amava decorare la casa con oggetti e vasellame in stile nipponico oggi parecchi interior designers vi si ispirano in toto progettando abitazioni con ampie zone giorno open space, arredamenti minimal dai colori neutri, finestre grandi con vista sul giardino verde, piccoli oggetti con fonti di acqua che generano un ambiente di tranquillità e tecnologia domotica. La natura è molto presente nella cultura giapponese: mobili con legno di diversi tipi, molte piante e oggetti per rendere omaggio all’elemento dell’acqua non possono mancare.
RELIGIONE, EDUCAZIONE FISICA E ALIMENTAZIONE: IL DIFFONDERSI DELLA CULTURA ZEN La nostra è una società ossessionata dalla velocità, dalla mancanza di tempo, dal fare sempre di più, siamo treni in corsa, troppo impegnati per vedere cosa ci passa accanto mentre viaggiamo alla massima velocità Nella salute, nel modo di mangiare, nel lavoro, nelle relazioni e nell’ambiente, stiamo correndo. E così stress, depressioni, problemi alimentari, sovrappeso, stanchezza già dal mattino sono i principali segnali che ci invitano a rallentare, a fermarci. Dall’esigenza di rimettere in equilibrio mente e corpo ecco che si è iniziato a rivolgersi al Giappone, la cui cultura, da millenni, pone molta attenzione a questo aspetto.
Karate, judo, tai-chi, yoga, meditazione, musica rilassante, cucina orientale priva di grassi, sushi, tisane, massaggi olistici, giardinaggio, letture zen sono diventati di gran moda. Per quanto siano aspetti di una cultura diversa dalla nostra, se praticati senza fanatismo, possono davvero aiutare ad abbassare il nostro livello di stress e aiutarci a smaltire tutta la tensione accumulata durante la giornata a causa dei ritmi impazziti. A volte basta davvero poco, un’oretta dedicata a una delle pratiche sopracitate e ci si sente meglio.
Giovanna Anversa
Rinascimento Giapponese
Un mese prima della clamorosa vittoria agli Emmy Awards della serie tv “Shogun”, il governo giapponese aveva istituito il comitato per la promozione dell’industria dell’intrattenimento. Uno strumento per aiutare la tendenza che ha portato il Giappone a un’ascesa vertiginosa fra le superpotenze dell’arte.
Cinema, tv, sport, arte: il Paese che da trent’anni viene dipinto come una nazione in declino, in crisi demografica, intristito dalla perdita di competitività internazionale (all’inizio di quest’anno è stato superato dalla Germania come terza economia mondiale ed è tallonato dall’India) vive ora una nuova stagione di grande ribalta culturale.
“Shogun”, la serie tv targata Disney+, ha vinto addirittura 18 premi agli ultimi Emmy Awards, tra cui quello come miglior dramma. Una vittoria che il governo di Tokyo non ha esitato a definire «culturale» ed emblematica della ritrovata rilevanza del Giappone sulla scena mondiale. Ambientato in un Giappone feudale animato da suggestioni mitologiche, intrecci politico-sentimentali, “Shogun” è recitato quasi interamente in lingua giapponese. «È un fatto abbastanza comune che episodi di inquietudine sociale ed economica possano incentivare una maggiore esigenza di espressione e creatività» spiega Giorgio Amitrano, professore ordinario di Lingua e letteratura giapponese all’Università degli Studi “L’Orientale” di Napoli nonché traduttore in italiano delle opere di Banana Yoshimoto e Haruki Murakami.
Il successo che critica e pubblico hanno tributato a “Shogun”, ma anche alla serie anime “Blue eye samurai” (premiata con un Emmy), sta proprio nel suo essere espressione autentica di linguaggio, narrazione e cultura giapponese. «La scelta di far recitare il cast in lingua originale è stata vincente: il giapponese ha sonorità singolari e spiccate e questo ha conferito unicità alla serie tv, oltre alla cura nell’ambientazione e alla precisione nei riferimenti geografici e storici» sottolinea Amitrano.
Questa rinascita sta riguardando anche lo sport: nel medagliere finale delle recenti Olimpiadi di Parigi il Giappone si è classificato terzo. Era già successo ai Giochi di Tokyo 2020, ma ovviamente in condizioni completamente diverse. Una conferma quindi, per un Paese che a Rio 2016 fu solo sesto e che nello sport trova una delle principali soddisfazioni alla dote condivisa dell’impegno: «Il successo a Parigi ha ribadito una presenza forte sul piano culturale nel senso più ampio. Lo sport in Giappone è disciplina, impegno e determinazione» osserva Amitrano.
I manga nuovamente sulla cresta dell’onda e gli anime sempre più diffusi, grazie anche alle piattaforme di streaming, completano una scena che conferma alcuni tratti caratteristici dell’influenza culturale giapponese: «Si tratta di narrazioni semplici e immediate dal punto di vista grafico, ma ricche di fantasia e sottotesti nelle trame» spiega Amitrano. «Il Giappone contemporaneo affascina perché appare ‘vicino’ allo stile occidentale per tanti aspetti, ma allo stesso tempo è diverso perché in grado di mantenere tradizioni e caratteristiche che lo rendono unico».
Raccontare (e decostruire) Milano dal punto di vista delle persone senza dimora
Luca Meola e due ricercatori sociali hanno documentato la quotidianità di quindici cittadini senza fissa dimora, protagonisti attivi e non semplici soggetti fotografici. Il risultato consiste in più di centosessanta scatti, esposti alla Fabbrica del Vaporedal 28 settembre al 6 ottobre
Da una parte, una città culturalmente frizzante, in perenne trasformazione e ricca di diversità. Dall’altra, una città sempre più escludente, inaccessibile e patinata. La Milano del “post-Expo”, e soprattutto del “post-Covid”, è come un adolescente prodigio che, sulla scia di qualche conoscenza sbagliata, inizia a prendere una brutta piega. Ma che ha ancora tempo per salvarsi. Per farlo, deve farsi aiutare e guardarsi dentro per capire chi vuole diventare.
Forse Milano deve smettere di alzare ostinatamente l’asticella, andando a riprendere per mano chi sta lasciando indietro e raccontando i margini dai margini, che è l’obiettivo di un nuovo progetto in programma alla Fabbrica del Vapore (salaColonne) dal 28 settembre al 6 ottobre. Il titolo è Milano senza dimora ed è un ibrido tra una mostra e uno spazio culturale. Attraverso centosessanta scatti del fotografo e sociologo Luca Meola, l’iniziativa vuole descrivere la città dal punto di vista delle persone senza fissa dimora, spesso invisibili agli occhi di una cittadinanza risucchiata dal vortice della quotidianità.
Stando ai dati comunali, raccolti a febbraio di quest’anno, a Milano ci sono più di duemilatrecento persone senza casa, costrette a dormire per strada, sotto i ponti o nelle strutture di accoglienza. Si tratta dello 0,17 per cento della popolazione cittadina. Meola – che è anche socio di Codici, una delle realtà promotrici del progetto assieme alla direzione Welfare e Salute del Comune di Milano e alla Rete grave marginalità adulta del terzo settore e volontariato cittadino – ha coinvolto quindici di queste persone, camminando per ore di fianco a loro e documentando tutto con la sua macchina fotografica. Parliamo, sotto alcuni aspetti, di una vera indagine sociologica.
«Ho raccolto immagini e storie per documentare la loro quotidianità, spesso fatta di attività e spostamenti ripetitivi, con uno sguardo di profonda vicinanza e condivisione. In un secondo momento, sono tornato da solo nei luoghi visitati per catturare l’ambiente urbano con un approccio più distaccato e analitico, mettendo in luce le contraddizioni di una città che da un lato offre risorse e servizi fondamentali, ma dall’altro alimenta dinamiche di esclusione», racconta Luca Meola, presente all’inaugurazione di sabato 28 settembre assieme a esponenti dell’amministrazione comunale, di Codici e del Centro Sammartini, spesso definito «la prima porta di accoglienza» per chi a Milano non ha una casa.
Ogni foto è il frammento di una giornata dei cittadini senza fissa dimora, ma non solo. È anche una testimonianza tangibile della straordinaria rete di accoglienza milanese: un sottovalutato ecosistema di dormitori, mense, luoghi di incontro e piccoli-grandi gesti di volontarie e volontari instancabili. È di lunedì 23 settembre la notizia dei 21,4 milioni di euro in cinque anni destinati ai servizi per i senza dimora di Milano: l’assegnazione del ministero del Lavoro ha premiato il capoluogo lombardo, che – da solo – otterrà il diciotto per cento dei centoventi milioni del Fondo sociale europeo Plus. Non è una casualità, perché i soldi vengono ripartiti in base alle virtuosità degli enti locali.
Tornando al progetto della Fabbrica del Vapore, le persone senza fissa dimora non sono state semplicemente soggetti fotografici, ma protagoniste attive. Il risultato è un racconto visivo che smonta i pregiudizi e mette sotto i riflettori una Milano che rifiuta le logiche esclusive ed elitarie su cui si basano le metropoli occidentali. Secondo Jacopo Lareno Faccini, uno dei ricercatori di Codici che si è occupato del progetto, «Milano senza dimora è uno strumento di riflessione condivisa su come Milano possa al tempo stesso accogliere o respingere, connettere o isolare. Queste immagini raccontano le condizioni di vita e di dignità delle persone che occupano le posizioni più marginali ed esposte, ma anche le possibilità di cambiamento». La speranza, conclude Jacopo Lareno Faccini, è quella di «aprire un dialogo tra il pubblico cittadino, le istituzioni e le reti di assistenza, per cercare soluzioni che puntino a un miglioramento delle condizioni di vita di chi è in situazioni di grave emarginazione. È una domanda aperta: “Quale futuro possiamo costruire per una Milano più inclusiva?”». Insomma, molto più di una mostra.
Ne è consapevole Lamberto Bertolé, assessore al Welfare e alla Salute, secondo cui l’iniziativa «non ha sottovalutato le contraddizioni e le difficoltà che caratterizzano Milano, come tutti i grandi centri urbani. L’impegno è quello di lavorare su risposte strutturali per sostenere le persone più vulnerabili in un percorso di riscatto sociale. La mostra e il palinsesto collegato hanno il merito di entrare in punta di piedi ma con determinazione in un mondo – quello di chi vive in strada – spesso chiuso e inaccessibile, per favorire lo sviluppo di un punto di vista consapevole su questo fenomeno così complesso».
Come anticipato, Milano senza dimora vuole consolidarsi come un vero e proprio contenitore culturale parallelo alle fotografie esposte alla Fabbrica del Vapore, in via Procaccini 4 (fermata “Monumentale” della linea M4 della metropolitana). Qualche esempio? Il 28 settembre alle 20, dopo il taglio del nastro, verrà proiettato – in collaborazione con Spazio Anteo – il film “Perfect Days” di Wim Wenders. Ma non solo: giovedì 3 ottobre, dalle 18 alle 19, il talk pubblico dal titolo “Cosa succede in città? Storie, dati e prospettive per leggere la città” creerà una discussione aperta a partire dalle storie, dai dati e dalle ultime ricerche sull’homelessness. Il calendario completo degli eventi è disponibile qui.
Volonté – L’uomo dai mille volti. Solo il 23-24-25 settembre al cinema.
Il 2024 segna il trentennale della morte di Gian Maria Volonté, uno dei
più importanti e amati attori della storia del cinema italiano.
Nel trentennale della sua morte, il documentario scritto e diretto da Francesco Zippel ne ricorda il percorso personale e artistico sottolineando quanto questo indimenticabile artista sia ancora oggi un riferimento assoluto per i più importanti interpreti contemporanei.
Saranno loro, insieme alla famiglia e agli amici, a raccontarne l’unicità e l’attualità, accompagnandoci a scoprire le tematiche che lo hanno definito nel suo cammino artistico e militante, in un viaggio impreziosito da immagini, clip e filmati inediti.
Nel film Giovanna Gravina Volonté, Fabrizio Gifuni, Valeria Golino, Valerio Mastandrea, Marco Bellocchio, Margarethe Von Trotta, Felice Laudadio, Daniele Vicari, Giuliano Montaldo, Angelica Ippolito, Mirko Capozzoli, Gianna Giachetti, Pierfrancesco Favino, Jean A. Gili, Toni Servillo, Fabio Ferzetti, Gianna Gissi.
Purtroppo lo potrete trovare nelle sale cinematografiche solo il 23, 24 e 25 settembre.
Dalle nostre parti sarà proiettato a Cremona (Anteo Spaziocinema), a Mantova (Ariston Multisala), a ReggioEmilia (Uci-Cinemas), a Piacenza (Nuovo Jolly), a Modena (Astra e Raffaello) e a Carpi (Eden). L'elenco completo delle sale qui.
Oggi compie gli anni Ivano Fossati, uno dei cantautori più pazzeschi del cantautorato italiano, Dio, non che gli altri non siano pazzeschi!
Lupo solitario ma aperto al nuovo, ombroso per nascondere una sensibilità impegnativa. Colto, polistrumentista, psicologo, sociologo, poeta, ermetico, ha composto pezzi sconvolgenti. Adatta la melodia al livello di intensità delle parole, un'unione il cui risultato è penetrante. L'amore, la sua terra, il viaggio, il mare, il tempo sono i principali temi che le sue opere affrontano, parole che danzano su un insieme di note e di numerosi stili musicali sortendone il suo, assolutamente unico.
Per capire meglio Ivano Fossati vi lasciamo l'intervista del 2014 di Andrea Scanzi, giornalista che dalla rivista musicale "Il Mucchio Selvaggio" in poi, ci ha regalato perle della sua profonda cultura musicale.
Giovanna Anversa
Se la curiosità unica è quella di sapere se ci ripenserà, la risposta non concede spazio al dubbio: no. Ivano Fossati non è né triste né pentito. Non sembra essere mai stato più sereno di così. Mai più dischi, mai più concerti. Lo ha promesso e non è tipo da contraddirsi, casomai uomo da smarcamenti. E’ nella sua casa di Leivi, adagiata sopra Chiavari. Suona ogni giorno, però privatamente. Il pianoforte, le chitarre. Per studio e per diletto. La “piccola bottega di canzoni artigianali” è ancora aperta: due o tre brani l’anno, da donare a chi gli somiglia poco.
Il Fossati burbero è sempre stata una mezza verità: lupo solitario, sì, ma a fasi alterne. Per nulla serioso, anzi imitatore insospettabile e dispensatore di aneddoti, che racconta senza sbrodolare in parentesi e rispettando pure lì una partitura sottile. Quella volta che rischiò la vita ad Harlem, quell’altra che conobbe Andy Warhol. E il ricordo di una sbornia monumentale: “A Mola di Bari nel 1971. Con i Delirium, in quei mesi labili di successo clamoroso. Mi stordii di Squinzano, rosso pesantissimo, e mi ritrovai svenuto nel bagno”.
I libri di Raffaele La Capria sul comodino, una recensione privata di Stoner (“Bello, ma non così bello come dicono”) e lo stupore lusingato per la stima dei colleghi (“Quando ho rivisto anni fa ClaudioBaglioni, mi ha dimostrato di conoscere molte mie canzoni. Temo anzi che le ricordi più di me”). Una bottiglia di Pigato sul tavolo, un pensiero al figlio batterista Claudio (“E’ felice, suona nei musical francesi”) e gli olivi sullo sfondo: “Io non li so curare. Per fortuna ci sono dei ragazzi albanesi meravigliosi che eccellono naturalmente in lavori che noi abbiamo dimenticato”.
Eppure anche lui aveva tentato di reinventarsi contadino: “Sul finire dei Novanta. Avevo un cascinale non distante da NoviLigure. Fabrizio (De André, NdA) sapeva lavorare la terra. Io proprio no”. Al suo fianco c’è la compagna Mercedes Martini, attrice e insegnante teatrale, conosciuta durante le registrazioni di Macramè. Da alcune settimane, edito da Einaudi, è in libreria Tretrecinque. Il suo primo romanzo. La storia di Vittorio Vicenti, o per meglio dire Vic Vincent. Un chitarrista giramondo: “Distaccato e sveglio, divertente e un po’ cinico. Uno a cui, alla fine, non puoi non volere bene”. Il libro si apre con una epigrafe che fotografa il Fossati attuale, per nulla cerebrale e ostinatamente leggero: “Musica pop è l’arte di suonare all’infinito cose che altri hanno fatto prima di te, ma con l’aria di inventarle al momento. Per questo si chiama pop, perché è democratica. Chiunque può metterci le mani, qualsiasi idiota ci può riuscire. Il fatto è che può trascinarti lontano”. Artista aduso a dare “aria a queste stanze” al punto da mutarne drasticamente architettura e scenari, Ivano Fossati è sempre stato un cantautore atipico e suo malgrado: prima la musica, poi – molto poi – i testi.
Nel 1991 avevi scritto Il Giullare. Un racconto piccolo piccolo, eppure te ne eri quasi scusato. Sottolineando che il musicista non deve fare anche lo scrittore. “Sapevo che, scrivendo Tretrecinque, mi sarei contraddetto. Einaudi mi ha chiesto di provarci. Ho cominciato controvoglia. Doveva essere 200 pagine, è divenuto più del doppio. Evidentemente lo avevo dentro da tempo. E poi adesso la situazione è diversa”.
Non canti più. “Non esercitando più il mestiere di “cantautore”, potevo scrivere il libro. Nessun doppio lavoro e nessuna pretesa di donare un capolavoro. Alla mia età lo capisci quando una canzone o un libro si reggono in piedi. Lo sai se sono decenti o fanno davvero schifo. L’obiettivo era quello: non farsi male, non naufragare. Scrivere un libro dignitoso”.
Quanto tempo ha richiesto? “Otto mesi di stesura, tanti viaggi in Inghilterra e StatiUniti per rispolverare luoghi e strade su cui ambientare parte del romanzo. E quattro mesi di ripulitura. Sin troppo meticolosa. Quando ho telefonato a Einaudi per la millesima volta e ho chiesto di spostare una virgola, mi hanno detto garbatamente: ‘Forse è il caso di chiudere il libro, signor Fossati’. Avevano ragione”.
Chi è Vic Vincent? “Un insieme di personaggi incontrati. Alcuni miei parenti suonavano nelle navi. C’era poi un batterista inglese: veniva dalla Cornovaglia, era con me nel ’73. Fu il primo a parlarmi di queste orchestre itineranti che si esibivano negli alberghi di tutto il mondo”.
Le presentazioni del libro ti divertono? “Incontrare le persone sì: non è da loro che mi sono allontanato. Invece il rito della presentazione mi ha già stancato. Chi entra in classifica arriva a farne 200 all’anno, io fatico a raggiungere la decina. L’editoria è davvero in crisi, per vendere devi essere il piazzista di te stesso e non è il mio mondo”.
La musica lo è. “La musica c’è come prima e nulla è cambiato. Ho solo deciso di non suonare né cantare più pubblicamente. Né dischi, né concerti. Mai più”.
“Solo”? Non è un cambiamento trascurabile. “Ho fatto la scelta giusta, né un anno prima né un anno dopo. Se mi chiedi se ci ho ripensato, ti rispondo di no. Fin da quando avevo 20 anni, la cosa che più ho amato è stata costruire un disco: stare davanti al mixer e in sala di registrazione. Anche tutto il giorno. Mi sono sempre trovato meglio con i musicisti che con i colleghi”.
E i live? Hai chiuso il 19 marzo 2012 allo Strehler di Milano. “L’ultimo tour è stato divertente, c’era aria di festa e nessuna malinconia. Spero negli anni di avere imparato il mestiere, ma non sono Gaber: degli spettacoli non ho mai avuto il mito. Non mi mancano i dischi, non mi mancano i live, non mi mancano le promozioni. La discografia è morta. E sono davvero felice di essermi tolto di torno certi personaggi”.
Ci sarà stato, almeno, un periodo lieto. “Un lungo periodo: quello che va da Pensiero Stupendo a Discanto, quando il mio lavoro mi ha trascinato in tutto il mondo. Dodici anni di scoperte e di meraviglia, in cui la mia vita ha somigliato un po’ a quella di Vic Vincent”.
Discanto è del 1990. E dopo? “Dopo tutto ha cominciato a farsi terribilmente serio”.
Però scrivi ancora. “Due-tre canzoni l’anno. Ho più richieste di prima. Rifiuto le proposte di chi vorrebbe che riproponessi i bolsi stilemi cantautorali. Accetto invece le richieste “poppissime”. Noemi e Mengoni, gli artisti migliori usciti dai talent. Pausini. Giorgia. E altri che farebbero inorridire i puristi: per loro la bottega è sempre aperta. Scrivo anzitutto per chi è lontano da me”.
La sensazione è che tu voglia quasi punirti del periodo più cerebrale, quello che ti attirò le critiche di Edmondo Berselli. Un po’ come fai con La mia banda suona il rock: più ti chiedono l’autorizzazione per cover tremebonde e più accetti. Giusto per fare ancora più male a una canzone che detesti. “Tra i Settanta e gli Ottanta abbiamo vissuto un’anomolia: una terribile tendenza museale. Preferisco il pop. Quell’idea anomala di cantautorato è morta. Se mi arriva una musica di un ventenne che prova a sembrare Conte o De Andrè, mi rattristo. Non è una cosa sana”.
Il pop è vivo? “Il pop è un limbo del divertimento: un limbo vivissimo in cui amo cullarmi, pieno di obbrobri assoluti ma anche di talenti autentici. Mi diverte seguire anche la musica brutta molto pop. Per esempio Lady Gaga, soprattutto quando suona da sola al piano: lì ti rendi conto che, tecnicamente, è bravissima”.
Gaber ti accusava bonariamente di essere bravissimo, ma di scrivere testi così criptici che arrivavi alla fine e non avevi capito nulla di quello che volevi dire. “(sorride) Non aveva tutti i torti. Paragonati alle parole durissime sue e di Sandro Luporini, i miei erano testi decisamente enigmatici. Gaber mi cercò per produrre gli ultimi dischi. Ero impegnato ne La disciplina della terra e Not one word, così gli suggerii di affidarsi alle mani di Beppe Quirici. Ottime mani”.
Quirici se n’è andato. Come Carlo Mazzacurati. “Con Carlo è sempre andato tutto bene. Era una persona divertente e meravigliosa: lo volevi vicino di casa, perché ti faceva stare bene. Scrissi tutti i temi de Il Toro prima che lui girasse anche solo una scena. Usai la sceneggiatura come fosse una partitura da mettere sopra il pianoforte. Poi Carlo mi fece vedere il film e non cambiammo una nota. Il Toro ha vinto tanti premi, ma né quella pellicola né tutta la sua opera sono state ancora sufficientemente apprezzate. Sapevo che era malato, ma non sei mai pronto a certe notizie”.
Sei stato uno dei primi ad apprezzare Paolo Sorrentino. “Mi colpì Le conseguenze dell’amore e ne scrissi su Repubblica. Lo preferisco quando fa film piccoli, rispetto a progetti forse troppo ambiziosi come This Must Be The Place e La Grande Bellezza”.
Hai visto Quando c’era Berlinguer? “Non ancora. Conosco Veltroni, ne ho stima. Mi ha chiesto di usare C’è tempo per la scena dei funerali di Berlinguer, ma ho dovuto dire di no. Non ce la facevo a legare quel brano, e in generale qualsiasi mio brano, a un momento così triste. Non avrei resistito a tanto dolore”.
Avevi promesso agli amici che, dopo il ritiro, avresti abbandonato l’Italia. “Lo confermo. Non ho più nessun motivo per stare qua. Potrei vivere a Guadalupe o ai Caraibi. Se resto in Italia, è perché ho una compagna più giovane che giustamente vuole realizzarsi nel suo paese. Ho una casa a Nizza dove vado appena posso, anche da solo. Nizza ha la capacità straordinaria di girarsi di spalle: non gliene frega niente dell’Italia, di Sanremo, dei canali Rai”.
Però anche la Francia ha i suoi miti cantautorali. “Sì, ma li ricordano senza retorica e sacralità museale. Quando parlano di Brel, Brassens e Gainsbourg, è come se per loro fossero ancora lì. Persone vive, non mausolei”.
E la politica? La militanza, la partecipazione? “Ho vissuto tutte quelle fasi, fino alla contrapposizione brutale e poi il riflusso. La non appartenenza”. I politici sono vecchi. Vecchissimi. Parlano di “sviluppo” e “cittadinoprotagonista”, usano terminologie sepolte. E’ gente che ancora fissa la telecamera mentre parla. Hanno letto manuali di comunicazione vecchi di trent’anni”.
Per curiosità. Oggi com’è la tua giornata tipo? “Suono, tutti i giorni. Sto con Merci. Leggo molto. Viaggio. Ecco: mi prendo il mio tempo”
Andrea Scanzi - (Il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2014)