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29 febbraio 2024

COLLEZIONE MARAMOTTI, ARTE MODERNA, MAX MARA E I LEGAMI CON CASALMAGGIORE

COLLEZIONE MARAMOTTI, ARTE MODERNA, MAX MARA E I LEGAMI CON CASALMAGGIORE

 

 

Max Mara e Casalmaggiore possono vantare un legame storico.

Per molti di noi è un nome familiare, non solo come marchio della casa di moda di livello internazionale, ma perché tante persone che abbiamo conosciuto hanno lavorato (o lavorano tuttora) nello stabilimento di Casalmaggiore.
L’azienda di moda fondata a Reggio Emilia nel 1951 da Achille Maramotti, tra i primi a proporre in Italia il prêt-à-porter e a puntare su ricerca, marketing e comunicazione, ha una manifattura di produzione tessile a Casalmaggiore dal 1974.
La prima curiosità riguarda il contesto del mondo del lavoro. 

 

Negli archivi della Camera del Lavoro di Reggio Emilia si può trovare la foto di una manifestazione dei lavoratori dello stabilimento di Casalmaggiore nei primi anni ’70, anni di dure vertenze tra il patron Maramotti che non riconosceva le organizzazioni sindacali e i contratti nazionali di lavoro del settore (ed aveva la fama di uno col pugno di ferro) ed i lavoratori che contestavano le condizioni di salute e sicurezza in fabbrica, i ritmi di lavoro ed il cottimo.
Una seconda curiosità: il progetto architettonico delle sedi Max Mara di Napoli e Casalmaggiore fu affidato allo Studio di Gae Aulenti, che non ha certo bisogno di presentazioni (fonte: enciclopedia Treccani).
Ed è proprio sull’aspetto dell'arte che vogliamo focalizzare il nostro sguardo, in particolar modo sulla passione di Maramotti per l’arte contemporanea e su una preziosa eredità che ha lasciato perché tutti gli appassionati ne possano fruire: la Collezione Maramotti.




COLLEZIONE MARAMOTTI

Risale agli anni Settanta il proposito di Achille Maramotti di costituire una raccolta d’arte contemporanea che diventasse un luogo di fruizione estetica e intellettuale, aperto a un pubblico di appassionati. Fino al 2000 un certo numero delle opere acquistate erano esposte negli spazi di passaggio dello stabilimento Max Mara di via Fratelli Cervi per promuovere una quotidiana, stimolante convivenza fra creatività artistica e disegno industriale. Non è perciò un caso che questo edificio, sia ora divenuto la sede permanente  della Collezione Maramotti.



Progetti e mostre

Fin dal 2008, poco dopo l’apertura al pubblico, a fianco della collezione permanente si susseguono, con una programmazione sistematica, mostre e progetti commissionati ad artisti, negli spazi dell’edificio adibiti alle iniziative temporanee. La Collezione guarda al futuro dell’arte senza soluzione di continuità e con coerenza rispetto alla fisionomia di questa raccolta, con un’immutata attenzione all’evoluzione dei nuovi linguaggi artistici, in particolare alla pittura e all’interrogazione critica sullo statuto dell’opera d’arte.

Inoltre, grazie a collaborazioni condotte nel corso degli anni, sono stati organizzati e presentati concerti, spettacoli di danza contemporanea, conversazioni a tema e incontri connessi ai progetti di arte visiva.


ongoing - mostre temporanee

Giulia Andreani
L'IMPRODUTTIVA
29 ottobre 2023 - 10 marzo 2024



Per la sua prima mostra personale istituzionale in Italia, Giulia Andreani presenta L’improduttiva, progetto composto da un corpus organico di nuovi dipinti, tra cui alcuni grandi formati, e di acquerelli concepiti per la Sala Sud della Collezione Maramotti.

Il lavoro di Andreani origina dall’elaborazione di memorie collettive, da frammenti di storia che rischiano di essere perduti, che l’artista recupera e trasforma in articolate composizioni pittoriche, in collage visivi costruiti per corrispondenze.

Sua fonte primaria di ricerca e ispirazione sono gli archivi, e in particolare gli oggetti dell’era analogica che essi racchiudono: lettere sbiadite, documenti ormai ingialliti e soprattutto stampe fotografiche in bianco e nero che l’artista seleziona, raccoglie e filtra in modo non lineare, restituendone gli elementi essenziali.
Guidato da un approccio di ricerca non ortodosso – in cui le immagini del passato sono metabolizzate attraverso la soggettività dell’artista – il lavoro di Andreani è teso a far riemergere persone invisibili e fatti dimenticati, luoghi e momenti spesso indissolubilmente legati all’esperienza storica, sociale e culturale del genere femminile. In molte delle sue opere Andreani, che si definisce una pittrice-ricercatrice femminista, si e ci interroga analizzando i modi in cui le donne sono state considerate e rappresentate in epoche diverse, evidenziandone le dinamiche di potere sottese e giungendo a scardinare stereotipi di genere.
Il suo “fare pittura con la fotografia” è alimentato da un rimpasto di tensioni latenti e di figure passate che, riattivate, diventano sentinelle del presente.

Le figure convocate sulle tele, insieme agli scenari e ai titoli che le collocano in contesti dai toni surreali, proiettano l’osservatore non solamente davanti a una serie di effigi, ma all’interno di un inedito e perturbante confronto con la Storia.

Facendo propria la tecnica del fotomontaggio e trasponendola in espressione pittorica, Andreani giustappone elementi estratti da immagini reali e dettagli di fantasia, per poi riconciliarli in una nuova unità iconografica all’interno della stessa opera.
I soggetti affiorano sulla superficie della tela grazie alla stesura di sottili strati di un unico colore, il grigio di Payne, una tonalità grigio-bluastra che evoca le ombre lontane del crepuscolo e rimanda a momenti passati dell’esperienza visiva, dalla cianotipia alle stampe vintage.
 


Punto di partenza concettuale per L’improduttiva sono stati i materiali iconografici contenuti in alcuni archivi di Reggio Emilia, attraverso i quali Andreani ha indagato il contesto storico e socio-politico della città, focalizzandosi sulle nozioni di confino e di prigionia, strettamente connesse alla storia delle donne.
Elementi del periodo intorno alla seconda guerra mondiale sono stati approfonditi attraverso il patrimonio documentale della Biblioteca Panizzi e di Istoreco – Istituto per la Storia delle Resistenza e della Società contemporanea; mentre un archivio privato e i materiali dell’Ex Ospedale Psichiatrico San Lazzaro, conservati presso la biblioteca scientifica Carlo Livi, hanno offerto all’artista la possibilità di una immersione nell’esperienza di vita (nascosta) delle internate dalla fine dell’Ottocento al secondo Novecento, restituite da Andreani alla storia attraverso una serie di sette ritratti (le “Sette Sante”).

La prima opera realizzata, che dà significativamente il titolo all’intera esposizione, è ispirata a una fotografia dell’inizio degli anni Quaranta che ritrae le allieve della scuola di taglio e confezioni istituita a Reggio Emilia da Giulia Maramotti, madre del fondatore della casa di moda Max Mara – azienda la cui prima sede originale era l’edificio di via Fratelli Cervi che oggi ospita la Collezione.
Lo sguardo di una delle sarte, beffardamente puntato verso l’obiettivo del fotografo, è il dettaglio fatale, il punctum che agisce come detonatore e trafigge lo spettatore – seguendo il pensiero del critico e semiologo Roland Barthes – che Andreani rileva ed enfatizza come nodo centrale per espandere il discorso, in cui chi osserva è chiamato direttamente in causa. L’interferenza dell’immagine corrisponde al luogo in cui l’artista trova il suo punto di ancoraggio per una riflessione sull’emancipazione femminile e il potere della divergenza.

In occasione della mostra sarà realizzato un libro con contributi di Lucrezia Calabrò Visconti, curatrice presso la Pinacoteca Agnelli di Torino, e del filosofo Emanuele Coccia.

 29 ottobre 2023 - 10 marzo 2024

Visita con ingresso libero negli orari di apertura della collezione permanente.
Giovedì e venerdì 14.30 – 18.30
Sabato e domenica 10.30 – 18.30



upcoming - mostre temporanee

Manuele Cerutti
QUEM GENUIT ADORAVIT
10 marzo – 28 luglio 2024
 


Manuele Cerutti, pittore torinese, presenta presso la Pattern Room della Collezione Maramotti QUEM GENUIT ADORAVIT, nuovo corpus di dipinti e opere su carta specificamente sviluppato in una dimensione progettuale originale.

Partendo da esperienze autobiografiche semplici quanto intense – la propria paternità e i primi anni di vita del figlio – Cerutti si è focalizzato sulla creazione di un’entità destinata ad assumere, inaspettatamente, sembianze infantili: una creazione inconsapevole, quasi involontaria, che attinge largamente al vissuto vegetativo delle piante e, nella tradizione alchemica, dei minerali.

Per anni l’artista ha infuso forma pittorica e presenza performativa a oggetti comuni – a volte mutili o frammentari, sempre privati della loro funzione primaria – che popolano il suo studio: una vecchia caffettiera, tubi e bastoni ritorti, scarti di plastica, ossi di pollo, sgabelli, palette, secchi e vasi multiformi divengono protagonisti di nature vive in cui i dettagli del quotidiano, attraverso nuove composizioni, si fanno interpreti di un tempo sospeso, originario, a tratti sacrale.
Tema iconografico ricorrente della nuova mostra è un telo per pacciamatura di plastica nera annodato intorno alla gamba dell’attante umano raffigurato nelle opere. Naturale estensione del suo corpo, questo involucro rimanda alla tecnica della margotta, che consente di ottenere nuove piante inducendo la nascita di radici a partire da un punto del fusto o di un ramo della pianta madre.

Questo metodo di riproduzione agamica, che avviene cioè mediante separazione di una parte qualsiasi del corpo dell'individuo genitore, si lega per consonanza all’esplorazione allegorica e mitologica dell’artista sulla partenogenesi, un tipo di riproduzione in cui la cellula-uovo è slegata dall’atto fecondativo.
Sullo sfondo della memoria di nascite straordinarie, al limite mostruose, nella mitologia antica, l’individuo al centro del racconto-per-immagini di Cerutti porta su di sé le sembianze dell’artista che, sottoposte a un costante processo di verifica e di moltiplicazione, debordano in soggetto universale.
Il soggetto di queste opere è afflitto da un’inestinguibile ferita alla gamba: una parte di sé che delicatamente avvolge con il telo, una ferita feconda di cui si prende costante cura, un’inaspettata materia germinativa che si dà come insorgenza di altre vite e direzioni. Questa figura archetipica sfugge alla definizione di eroe contemporaneo. Essa incarna piuttosto una difformità rispetto al canone, un’interruzione dello sviluppo lineare, suggerendo un sentimento di inadeguatezza e di fragilità. Elemento fuori equilibrio – spesso inserito e sospeso in rappresentazioni tanto articolate e dettagliate da apparire reali –, egli tenta, attraverso una serie di azioni, di assimilare la forma di conoscenza del bambino, riconoscendo nel movimento e nel procedere asimmetrico una via di possibilità.



Il territorio in cui si muove, oltre l’interno dello studio, è il paesaggio ai margini di Torino, quei luoghi familiari all’artista percorsi dall’entropia in cui la città inizia a ibridarsi con la campagna, dove i fiumi scorrono sotto ai cavalcavia, le rovine industriali si mischiano alle terre incolte e un sottopasso di cemento può magicamente trasformarsi in un monumentale portale atterrato da un racconto di fantascienza.
Ma il territorio di esplorazione è per Cerutti, in primo luogo, la pittura stessa, che egli definisce “impronta continua del fare”.
Che sia il soggetto a convocare la propria nitida apparizione sulla tela o il processo pittorico, con i suoi strati, le velature e le cancellazioni, a dare passo e sostegno alla composizione, la ininterrotta ricerca nel linguaggio pittorico riecheggia nell’andare del protagonista di queste opere, tra partecipazione e distacco, meriti e colpe, tentativi di recupero e rinunce: verso l’emergere di un attaccamento inesprimibile (a cui fa riferimento il titolo della mostra, “Adorò colui che generò”), è possibile inciampare nello stupore, creando nuove relazioni con il proprio stare nel mondo.

In occasione della mostra sarà realizzato un libro con contributi del sociologo Gian Antonio Gilli, del poeta e scrittore Valerio Magrelli e di Elena Volpato, curatrice e conservatrice presso la GAM - Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea di Torino.
 
10 marzo - 28 luglio 2024

Visita con ingresso libero negli orari di apertura della collezione permanente.
Giovedì e venerdì 14.30 – 18.30
Sabato e domenica 10.30 – 18.30

Chiuso: 25 aprile, 1° maggio



La collezione permanente

Alex Katz - January V

La Collezione comprende diverse centinaia di opere d'arte realizzate dal 1945 a oggi, di cui oltre duecento in esposizione permanente, che rappresentano alcune delle principali tendenze artistiche italiane e internazionali della seconda metà del XX secolo. È fondamentalmente costituita da dipinti, ma sono presenti anche sculture e installazioni. Gli artisti sono rappresentati con opere significative soprattutto nel periodo della loro apparizione sulla scena artistica, quando cioè il loro lavoro introduceva elementi di sostanziale novità nella ricerca contemporanea.

La collezione permanente inizia con alcuni importanti quadri europei, indicativi delle tendenze espressioniste e astratte degli anni Cinquanta generalmente definite “informali”, e un gruppo di opere protoconcettuali italiane. Presenta poi un nucleo importante di dipinti della cosiddetta Pop art romana, seguito da un numero consistente di opere di Arte Povera.
A questi movimenti succedono nella Collezione opere fondamentali neoespressioniste italiane (Transavanguardia), significativi esempi di neo-espressionismo tedesco e americano e un gruppo considerevole di opere della New Geometry americana degli anni Ottanta-Novanta. Nel 2019, in occasione di Rehang, le ultime sale del secondo piano dell'esposizione permanente sono state riallestite per accogliere alcuni dei progetti presentati nei primi dieci anni di apertura della Collezione.

Mimmo Paladino - Cimento


Alle opere del XXI secolo, che per la maggior parte non sono incluse nell’esposizione permanente, sono dedicate mostre tematiche negli spazi del piano terra. La Collezione costituisce dunque essa stessa un “work in progress”, poiché intende continuare ad accogliere e testimoniare i nuovi percorsi che l’arte di oggi va mano a mano esprimendo.


Opere permanenti

 

Eva Jospin   
Microclima (2022)

Modalità di visita: flagship store di Max Mara Milano Ingresso di Corso Vittorio Emanuele, Milano. L’opera è visibile anche all’esterno da Piazza del Liberty.
Orari di apertura del negozio
lunedì - sabato 10.30-20.00
domenica 11.00-20.00


Margherita Moscardini   
The Fountains of Za’atari - Mahallat el-Ghouta94, Block 8, District 4 (2019)

Modalità di visita: Parco Alcide Cervi, Reggio Emilia
Ingressi da Piazza Fiume e da via Gazzata
Orari di apertura del parco:
1 maggio – 30 settembre dalle 7.00 alle 24.00
1 ottobre – 30 aprile dalle 7.00 alle 20.00
(Il getto della fontana si aziona la domenica in questi orari:
da maggio a settembre dalle 11.00 alle 11.30 e dalle 18.00 alle 18.30
da ottobre ad aprile dalle 11.00 alle 11.30 e dalle 16.00 alle 16.30)

 
Jason Dodge   
A permanently open window (2013)

Modalità di visita: Via Fratelli Cervi 61, Reggio Emilia
L’installazione è visitabile su richiesta nelle giornate di sabato e domenica nei seguenti orari:
- da aprile a settembre dalle 17.00 alle 18.30
- da ottobre a marzo dalle 13.00 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 15.00


IL LUOGO

Un luogo per l'arte contemporanea
 
 
Il vecchio edificio
In via Fratelli Cervi 66 era originariamente situato lo stabilimento della casa di moda Max Mara, che aveva iniziato la sua attività nel 1951. L’edificio, commissionato nel 1957, fu progettato dagli architetti Antonio Pastorini ed Eugenio Salvarani e venne poi due volte ampliato dalla Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia nei successivi dieci anni. Si trattava di un disegno radicalmente innovativo per la sua epoca, incentrato com’era sulla piena valorizzazione di una ventilazione e di un’illuminazione naturali, con la collocazione degli elementi di servizio all’esterno del corpo centrale, allo scopo di creare uno spazio totalmente versatile.
Nel 2003 l’azienda, che nel frattempo si era notevolmente ampliata, si trasferì in una nuova sede generale edificata alla periferia di Reggio Emilia e gli spazi dell’edificio originale vennero destinati a ospitare la collezione d’arte contemporanea del fondatore di Max Mara, Achille Maramotti.


Il nuovo edificio
Per la conversione della struttura in spazio espositivo, l’architetto inglese Andrew Hapgood ha scelto un approccio trasparente e rispettoso, conservando la cruda essenzialità della costruzione e conformandosi alla logica del progetto originale che la concepiva come struttura adattabile a molteplici scopi e capace di trasformarsi secondo diverse necessità.
Tre sono stati i nuovi e salienti interventi che hanno connotato tale conversione. Un primo intervento chiave modifica la percezione dell’edificio nel suo contesto, attraverso un nuovo orientamento del suo ingresso principale e un ripensamento del suo aspetto fondamentalmente industriale, evidenziato dall’architettura e dall’entrata principale: è stato realizzato un nuovo “taglio”, parallelo a via Fratelli Cervi, creando ampie entrate sulle facciate est e ovest che accompagnano il visitatore al centro della nuova galleria. Al pianterreno sono disposte la reception, le sale espositive per mostre temporanee, la biblioteca/archivio e gli uffici.

Sono stati poi creati due nuovi volumi all’interno del corpo di fabbrica, che lasciano filtrare la luce naturale nel cuore del pianterreno. Uno spazio alto tre piani è stato collocato sopra l’ingresso principale e al centro della collezione permanente e a esso si ritorna più volte nel corso della visita. Tale spazio, insieme a un altro ambiente alto due piani che ospita i dipinti di maggiori dimensioni, è illuminato da tre nuovi lucernari lineari, nascosti sopra la struttura primaria in calcestruzzo. La distribuzione della luce solare avviene qui attraverso riflettori interni ai lucernari verticali: viene mantenuto in tal modo un contatto con l’ambiente esterno e con la natura mutevole della luce.

I primi due piani dell’edificio sono dedicati alla collezione permanente. Le gallerie sono ampiamente illuminate a giorno dalla vetrata perimetrica originale, coi gradi di esposizione solare e i livelli luminosi controllati dalla tettoia solare esterna installata negli anni Settanta e in seguito ristrutturata.

Il contesto paesaggistico è stato progettato secondo gli stessi principi della conversione dell’edificio, utilizzando cioè specie vegetali e soluzioni ornamentali tipiche della zona, allo scopo di rafforzare l’idea di una ricolonizzazione del luogo come paesaggio post-industriale.

LO SPAZIO

Percorso di visita della collezione permanente
Le opere dell’attuale esposizione permanente si susseguono in quarantatre sale, distribuite sui due piani dell’edificio con un criterio flessibile basato di volta in volta sulla successione cronologica delle opere, sulla loro omogeneità all’interno delle varie tendenze artistiche e sulle specificità nazionali degli artisti, consentendo in tal modo un molteplice livello di lettura dell’arte dopo la Seconda Guerra Mondiale. Mentre il primo piano ospita dipinti e sculture italiani ed europei dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Ottanta, il secondo piano propone opere americane ed europee dai primi anni Ottanta all’inizio degli anni Duemila.
 


In ciascuno dei due piani uno spazio aperto accoglie installazioni e sculture dagli anni Settanta a oggi.

Due opere occupano un posto particolare: l’installazione Caspar David Friedrich di Claudio Parmiggiani, allestita nel cavedio che si sviluppa tra i due piani del corpo di fabbrica, e l’audio installazione di Vito Acconci Due o tre strutture che s’aggancino a una stanza per sostenere un boomerang politico, per la cui presentazione è stato integralmente ricostruito lo spazio che l’aveva originariamente ospitata nel 1978.


BIBLIOTECA

L’Archivio d’Arte e la Biblioteca della Collezione Maramotti raccolgono il patrimonio documentario e bibliografico relativo alla collezione d’arte contemporanea, quale testimonianza della sua memoria, della sua storia e della sua identità.
 

Collocati al piano terra della Collezione, l’Archivio conserva la documentazione in formato sia cartaceo sia digitale riguardante gli artisti e le opere della Collezione e la Biblioteca ne custodisce i libri e i cataloghi. Quest’ultima si caratterizza inoltre per le sezioni dedicate ai libri d’artista, alla poesia visuale e concreta e alle riviste d’arte d’avanguardia degli anni Sessanta e Settanta.

L’attività di digitalizzazione dei materiali si sviluppa insieme a un costante aggiornamento, in un sistema di dialogo fra documenti d’archivio, libri e opere d’arte, teso alla valorizzazione del patrimonio artistico mediante una continua ricerca. Per tale motivo, sia l’Archivio sia la Biblioteca sono aperti su appuntamento a studenti, ricercatori e appassionati d’arte.

Le parte più cospicua della Biblioteca è dedicata alle pubblicazioni sugli artisti della Collezione e ai testi di arte contemporanea, come saggi, monografie di artisti, cataloghi di mostre, di biennali e di fiere d’arte, a cui si affianca un’ampia collezione di libri d’artista.

L’Archivio è costituito da tutta la documentazione relativa alle opere e agli artisti della Collezione Maramotti dagli anni Sessanta ai giorni nostri ed è in continuo accrescimento con i materiali sui progetti e sulle mostre della Collezione dalla sua apertura nel 2007 ad oggi, in previsione di una loro futura storicizzazione.

Nel corso degli anni sono state organizzate iniziative di promozione delle risorse librarie e archivistiche grazie a mostre come Il Corpo figurato (2015), Rehang : Archives (2019), Show Case (2021) e Studio Visit (2021-2022).

Attraverso l’ordinamento sistematico del materiale inerente le opere e gli autori, l’Archivio e la Biblioteca aspirano a diventare sempre più un luogo per esplorare e per conoscere nuove possibilità di ricerca legate al mondo dell’arte contemporanea.




Per informazioni e appuntamenti:
biblioteca@collezionemaramotti.org
Tel. 0522 382484



Il Premio

Max Mara Art Prize for Women, in collaborazione con Whitechapel Gallery

Giunto alla sua nona edizione, il Max Mara Art Prize for Women, è un prestigioso premio biennale per artiste emergenti che si identificano nel genere femminile, istituito nel 2005 da una collaborazione tra Max Mara Fashion Group e Whitechapel Gallery. La Collezione Maramotti si è unita come ulteriore partner nel 2007.
 
È l’unico premio per le arti visive dedicato ad artiste emergenti del Regno Unito, con la finalità di promuoverle e valorizzarle in una fase cruciale del loro percorso attraverso una maggiore visibilità e le risorse necessarie a sviluppare un nuovo e ambizioso progetto mediante un sostegno creativo e professionale essenziale in termini di tempo e spazio. Il premio è rivolto ad artiste (incluse persone cisgender, transgender e/o non-binarie) di qualunque età che vivono e lavorano nel Regno Unito che non hanno ancora esposto le proprie opere in una mostra personale. A ogni edizione una giuria composta da una gallerista, una critica d’arte, un’artista e una collezionista, e presieduta dalla direttrice di Whitechapel Gallery, seleziona un gruppo di artiste dal quale sceglie una rosa di cinque finaliste. Alla vincitrice, selezionata in virtù del valore della proposta presentata, è offerto un periodo di residenza in Italia della durata di sei mesi organizzato dalla Collezione Maramotti e completato da un’esposizione conclusiva. La residenza, sviluppata sulla base delle esigenze e degli interessi particolari dell’artista e della proposta presentata, offre in particolare le risorse e lo spazio necessari a realizzare un nuovo progetto, destinato a rappresentare il fulcro di una grande personale allestita presso Whitechapel Gallery di Londra e alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia. Quest’ultima poi acquisisce l’opera, che diventa parte della sua prestigiosa collezione artistica in modo da assicurare all’artista sostegno e riconoscimento anche al di là del biennio coperto dal premio.
 
 
La specificità ed eccezionalità con cui il Max Mara Art Prize for Women riconosce e sostiene il processo creativo sono all’origine del British Council Arts & Business International Award conferito nel 2007.
 
a cura di Stefano Superchi
 
 
 
 
Orari di apertura

La visita alla collezione permanente è accompagnata, su prenotazione e riservata a un massimo di 25 visitatori per volta.
Ingresso gratuito.

Orari di inizio visita della collezione permanente: giovedì e venerdì ore 15.00; sabato e domenica ore 10.30 e ore 15.00.
Per gruppi di almeno 15 persone è possibile organizzare una visita accompagnata su richiesta scrivendo a info@collezionemaramotti.org.

L’accesso alle mostre temporanee è libero giovedì e venerdì dalle 14.30 alle 18.30; sabato e domenica dalle 10.30 alle 18.30.

Tutto il percorso espositivo è accessibile a persone con difficoltà motorie.

L’accesso di animali – anche di piccola taglia – all’interno degli spazi espositivi non è consentito.

Chiuso: 1 e 6 gennaio, 25 aprile, 1° maggio, dall’1 al 25 agosto, 1° novembre, 25 e 26 dicembre.

L'installazione permanente di Jason Dodge, A permanently open window, è visitabile su richiesta nelle giornate di sabato e domenica nei seguenti orari: da aprile a settembre dalle 17.00 alle 18.30; da ottobre a marzo dalle 13.00 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 15.00.


 
(le informazioni sulla Collezione Maramotti sono tratte dal sito https://www.collezionemaramotti.org/it/home)
 








24 febbraio 2024

GAIA'S CORNER #5 - Harvest (1972) - Neil Young

Quinta puntata di GAIA'S CORNER. Gaia Beranti ci parla di un disco maestoso come Harvest di Neil Young, il canadese solitario che esordì con il country ma è passato attraverso tanti "generi musicali" fino ad essere considerato il padrino del grunge. Imbolsito ma sempre dannatamente attuale.

Harvest (1972)

Lambrusco, frascöm e suggestioni 

 



Studiando al liceo classico si riflette molto sul concetto di “classico” (eh beh, se mia lè, indùa!?). Questa parola è inflazionatissima in tanti campi, ma nella musica mi sentirei di dire ben più di tutti gli altri.

Si potrebbe dire che è qualcosa di così esemplificativo di un concetto o di altro elemento da considerarsi modello, nello spazio e nel tempo. Riprenderemo poi.

01/02/1972

Un giovane sbarbatello in camicia di flanella pubblica un disco senza tempo e senza confini. Si chiama Harvest e lo sbarbatello in questione è il caro Neil Young.


Come ogni essere umano, il buon Neil incappa in un acciacco importante alla schiena oltre ad altre sfighe (la fine di un matrimonio per esempio) e, affranto nel corpo e nello spirito, decide che la campagna è quello che gli serve per tirarsi su e lavorare sereno ad un nuovo progetto (ha già fatto il botto con l’album “After the Gold Rush”).
Tutt’altro che scarico di idee, decide che si può provare qualcosa di diverso dal suo repertorio.


Abbandona la collaborazione con la band dei Crazy Horses e cerca impronte più country, assembla una nuova band di accompagnamento che battezza “Stray Gators” che, in generale, rinforzano una nuova impronta country al disco.



Costretto ad un busto ortopedico, registra tracce acustiche per prime, per poi completare le parti elettriche in convalescenza una volta tolto. Le prime in studio a Nashville in sessioni corte, le seconde in uno studio improvvisato nel fienile del suo ranch (lo troverete ritratto nel retro copertina). Le prime compongono il lato A, nel complesso più morbido, contemplativo e campagnolo; le seconde il lato B più grezzo e aggressivo. Una chicca: il banjo della meravigliosa “Old Man”, una delle tracce più famose dell’album e dell’intero repertorio di Neil Young, è suonato da James Taylor. Tranquilli, se non lo conoscete parleremo anche di lui prossimamente.


Ah, e intanto che c’era, assieme a Linda Rondstadt, dopo una serata insieme al Johnny Cash Show, il trio finisce la serata a registrare i cori di “Old Man” e “Heart of Gold” (la seconda perla dell’album). Allo stesso show, il produttore discografico Elliot Mazer aveva fermato Neil per proporlgli di usare i suoi nuovissimi Quadrafonic Sound Studio: Neil accetta e chiede allo stesso Mazer i nomi di quelli che poi saranno i futuri membri degli “Stray Gators”.


Insomma, questo va a un’ospitata televisiva e in una sera imposta band, coristi e location di registrazione, il materiale da registrare era già pronto. Una delle cose belle di questi artisti: la velocità riproduttiva di idee e realizzazione delle stesse, roba che neanche i conigli.

I temi di dividono anch’essi in due: nel lato A, la parte più contemplativa, domina la riflessione sull’amore e la ricerca della felicità; nel lato B, si riflette sul razzismo, la perdita di senso di alcune atmosfere hippie e l’eroina. Piccola nota di rilievo: i Lynyrd Skynyrd non hanno gradito particolarmente la critica al razzismo di “Alabama” e hanno inserito un dissing in “Sweet Home Alabama” dicendo che il buon Neil può starsene pure a casa sua se non comprende il paese.
Una prerogativa che accompagnerà il buon Neil per tutta la vita: non è esattamente una personcina apolemica.



Quello che amo di questo disco è la contemplazione del suo lato country: è in un ranch in America ma sa di lambrusco, di frascöm del fiume, di giri sull’argine. Trascende il tempo e lo spazio e regala suggestioni immortali che chiunque può adattare al proprio personale concetto di campagna e natura, non invecchia e non muore.

Trascende il tempo… trascende lo spazio. E scorre, per citare il buon Neil di un altro disco, “down by the river”.

Gaia Beranti

 

Old Man

 

Heart of Gold 



 

a cura di Stefano Superchi


VOCI DALLA BASSA! Segnalazioni

 VOCI DALLA BASSA!

Vi segnaliamo qualche evento che si svolgerà in questo weekend e nei prossimi giorni in questo fertile lembo di terra.

Cominciamo con il NARRATOUR2024 di Gianluca "Foglia" FOGLIAZZA, autore e narratore teatrale, illustratore, fumettista, blogger per Il Fatto Quotidiano, vignettista e autore satirico, da anni impegnato nel Teatro Civile con progetti sulla memoria e in particolare sulla Resistenza.


Sarà stasera 24 febbraio alle 21 a Cadelbosco Sopra - RE - (L'Altro Teatro) con lo spettacolo "Nel ventre della balera", narrazione con musica e disegno dal vivo - atto unico. La musica (originale) dal vivo è eseguita dal poliedrico Emanuele Cappa (chitarra, fisarmonica, clarinetto e kazoo).

"Scoprire la storia del “liscio” è capire la nostalgia di un tempo che faceva del ballo un atto di ribellione, del talento autodidatta di contadini poveri per nascita e talentuosi per vocazione. Il paese immaginario di Castelmauro, crocevia di destinazioni, ha visto passare i più grandi, quelli che avrebbero fatto la Storia. Lo stesso Giuseppe Verdi, bambino, assediato da note ambulanti di violinisti e organetti ne sarebbe rimasto folgorato. Come Gerundio, testimone protagonista nel mondo piccolo di Castelmauro, dove balera fa rima con primavera e come lei non si può fermare."

Il 1 e 2 marzo Fogliazza sarà a Parma (Teatro del Tempo) con RIBELLI COME IL SOLE – 100 di queste Barricate, narrazione con musica e disegno dal vivo dedicata alle Barricate Antifasciste di Parma del 1922.

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La seconda segnalazione riguarda un format che prende inizio da domani, domenica 25 febbraio, al Birrificio MadOne di Casalmaggiore:

MAD ONE TRA STORIE E RACCONTI

5 pomeriggi all’insegna dell’arte, della storia e della letteratura in compagnia della nostra gente!
Dalle ore 16:30 per 5 domeniche potrete ascoltare esperienze e racconti accompagnati da bevande calde e dolci artigianali
Il primo appuntamento è con Giuseppe Giupi Boles che racconterà i segreti di Casalmaggiore in una storia inedita, accompagnato alla chitarra da Angelo Angiolini


Questo è il programma completo:


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Last but not least, martedì 27 febbraio (ore 21,15), alla Antica Osteria del Fico di Cremona (via Guido Grandi 12):

"Le storie dei mondiali, le storie delle dittature, Brasile 1950"

 

Il teatro racconta il secolo breve.
A cura di Gianfranco D’Avico

 

a cura di Stefano Superchi





23 febbraio 2024

NUOVE USCITE: KOOMARI - "MOVIMENTO" (EP)

 NUOVE USCITE: KOOMARI - "MOVIMENTO" (EP)

 


Come vi avevamo anticipato, esce oggi MOVIMENTO (per Risorgiva Dischi e distribuito da The Orchard) , il nuovo EP della band casalasca dei KOOMARI.

I nuovi pezzi, oltre a "Magico" e "Pietà" che vi avevamo già presentato, si potranno quindi ascoltare da oggi, ma saranno anche presentati "live" venerdì 8 marzo al Caffè Centrale di Casalmaggiore, il 13 aprile al Circolo Arci Primo Maggio di San Benedetto Po (all'interno della rassegna Rockcrazia) e il 30 marzo al Kafféklubben Libri di Guastalla.

 

a cura di Stefano Superchi

informazioni tratte dall'articolo "Koomari, sei corpi mossi dal funk" di Fabio Guerreschi - La Provincia di Cremona

22 febbraio 2024

ANDY WARHOL, ARTE, MUSICA E ALTRI FRUTTI

 ANDY WARHOL

ARTE, MUSICA E ALTRI FRUTTI

 

Il 22 febbraio 1987 muore Andy Warhol e se ne va lasciando al mondo un’eredità artistica infinita, lente di ingrandimento di una società che ancora oggi reitera quelle criticità di cui le opere dell’artista furono e sono tutt’ora icone indiscusse.
Padre della Pop Art, a suo parere “unico modo per amare le cose” si lega al concetto di riproducibilità e commercializzazione dell’opera d’arte e cattura la cultura di massa rivoluzionando e rompendo gli schemi artistici precedenti.

 

La sua è una lungimirante reazione a una società nascente destinata a diventare un’enorme supermercato stipato di merce in vendita, al divismo imposto dal cinema e dai brand della moda, all’omologazione culturale dei mass media. Nasce l’esigenza di coinvolgere l’uomo comune nell’arte che diventa il solo mezzo per salvarlo dall’ipnotico torpore del pensiero unico. Per questa ragione si rappresenta la realtà più visibile del mondo moderno, le cose di cui ossessivamente ci hanno circondato l’industria e la società dei consumi: il telefono, la bottiglia di coca cola, un sandwich, una macchina da scrivere, un ferro da stiro, il volto di una diva famosa, la scatola di un detersivo, la lattina di una zuppa, tutti soggetti a noi proposti in maniera compulsiva dall’advertising.

La Pop Art cambia quindi il mezzo e il modo di comunicare, si stacca da quelli dell’arte classica, (quadri, foto, sculture) e adotta gli stessi usati dai potenti mezzi di comunicazione, spesso riproducendo più copie di uno stesso soggetto proprio come accade nell’era dei consumi: queste opere furono denominate “multipli “cioè, copie identiche dell’opera stessa.
Warhol si muove in più ambiti dimostrando un eclettismo largo e intuitivo che lo porta ad abbracciare parecchie espressioni artistiche divenendo ben presto un idolo e un modello a cui ispirarsi. Una interessante contaminazione fu quella tra Warhol e la musica e di questo vogliamo qui, oggi, raccontarvi.


Il primo album dei Velvet Underground, la band di Lou Reed e John Cale porta in copertina la banana disegnata da Andy famosa in tutto il mondo. L’incontro avviene nel 1966 quando Warhol vede esibirsi la band e rimane colpito dalle sonorità sperimentali nelle quali ritrova in musica ciò che lui esprime con la grafica. La performance della band, che viene licenziata in tronco, non va per niente bene, lo spettacolo a giudizio degli organizzatori è stato eccessivamente volgare e sopra le righe. Warhol incontra i Velvet Underground al Cafè Bizarre, nel Greenwich Village a New York, incontro che segna l’inizio di anni di collaborazione durante i quali la Factory stessa, suo centro di produzione artistica, sarà sede delle prove dei Velvet. La copertina dell’album di debutto diviene ben presto una vera e propria icona, sostituendo il titolo del disco spesso chiamato “banana album”.


 

L’immagine nasce diversa da come la si conosce oggi: la buccia era adesiva e staccandola rivelava una polpa di colore rosa, chiara allusione sessuale, sottolineata anche dalla scritta “Peel slowly and see”. La Verve Records’ considera l’idea di Warhol geniale, acquista i diritti di distribuzione del disco, e investe moltissimo per una macchina capace di produrre ciò che l’artista aveva ideato. Il giochino della buccia che si toglie risulta però difficile da realizzare e allunga moltissimo i tempi di distribuzione, così negli anni torna ad essere semplicemente la banana gialla che tutti conosciamo e possiamo trovare in qualunque negozio di dischi. L’album contiene otto pezzi pazzeschi e intramontabili: Sunday Morning, I’m Waiting For The Man, Femme Fatale, Venus In Furs, Run Run Run, Heroin, There She Goes Again, I’ll Be Your Mirror, All Tomorrow’s Parties. Contrariamente a quanto si possa pensare, il disco non spacca, nei primi 5 anni la vendita non supera le 30.000 copie ma nella storia della musica rimane epocale.

Noi boomer ben sappiamo che quel disco aprì la strada al punk, alla new wave e a tutto il rock alternativo degli anni a seguire. Nel 2021 nella Galleria Restelliartco a Roma, all’interno della Mostra “Pop sounds good” fu esposto un rarissimo esemplare delle pochissime cover rimaste con la buccia adesiva, firmato da Warhol.


Il 22 febbraio 1987 lasciava questa terra il corpo di Andy Warhol, non certo il suo genio che continua a fare il giro del mondo nel volto di Marylin, nella latta di una zuppa, sotto la buccia di una banana e in tutti gli stereotipi di cui continuiamo ad essere schiavi.
Ho un aspetto tremendo, e non bado a vestirmi bene o a essere attraente, perché non voglio che mi capiti di piacere a qualcuno. Minimizzo le mie qualità e metto in risalto i miei difetti. Eppure c’è lo stesso qualcuno a cui interesso. Ne faccio tesoro e mi chiedo: che cosa avrò sbagliato?

Giovanna Anversa




LA VITA DI ANDY WARHOL

(dal sito "Storica" di National Geographic)

Andy Warhol, l'artista più iconico della Pop art

Controverso ed enigmatico, Andy Warhol fu uno degli artisti più importanti e carismatici del XX secolo. Nessuno come lui seppe plasmare lo spirito della Pop art e vendere la propria opera come un prodotto della società dei consumi che era il bersaglio della sua critica


«Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti». Queste parole, che nell'era di internet sono diventate premonitrici, furono pronunciate da Andy Warhol, senza dubbio l'artista più iconico della Pop art. Attraverso le sue opere, Warhol mosse una critica corrosiva alla superficialità della società consumistica nordamericana, in cui secondo lui l'immediatezza era effimera come la fama. Warhol ridefinì l'arte di un'intera generazione con opere come le famose lattine di zuppa Campbell's o serigrafando i volti delle più famose star del cinema del suo tempo. Un modo per simboleggiare il vuoto e l'essenza stessa del nulla, secondo le sue stesse parole. Fino alla sua morte, avvenuta il 22 febbraio 1987, l'opera di Warhol segnò un prima e un dopo nell'evoluzione della cultura artistica e pop del XX secolo, sia dai suoi inizi come grafico che con le sue singolari incursioni nella settima arte anni dopo.


Un bambino cagionevole e sensibile

Il 6 agosto 1928 nasceva in Pennsylvania Andrew Warhola, terzo figlio di una coppia di immigrati slovacchi. La sua infanzia fu segnata da una rara malattia neurologica chiamata corea di Syndeham, causata da un'infezione, che gli provocava convulsioni involontarie e strane macchie rosa sulla pelle. Questa rara condizione costrinse il piccolo Andy a trascorrere lunghi periodi in ospedale o in convalescenza a casa, dove iniziò a disegnare e a collezionare immagini dei protagonisti dei più famosi cortometraggi televisivi dell'epoca. La madre, che non imparò mai l'inglese, inculcò nel ragazzo il suo fervore religioso ortodosso, che influenzò notevolmente il talento artistico di Andy. A causa dei suoi molteplici problemi di salute, il giovane, estremamente sensibile, dovette affrontare l'incomprensione dei suoi compagni di classe, e a tal fine creò un mondo di fantasia in cui inventò pseudonimi, travestimenti e persino personaggi immaginari con cui avrebbe vissuto per il resto della vita.



Come racconta l'artista e storico dell'arte britannico Eric Victor Shanes, la Grande depressione rovinò la famiglia di Andy, ma l'ingegno del padre la tenne a galla. Nel 1934 questi ebbe la fortuna di trovare un lavoro ben retribuito come operaio edile, permettendo alla famiglia di trasferirsi in un quartiere migliore. Andy si diplomò alla Schenley High School nel 1945 e vinse lo Scholastic Art and Writing Award, un concorso che premiava i giovani talenti nel campo dell'arte e della narrazione. Così, nella mente di Andy germinò l'idea di diventare un insegnante d'arte. Voleva studiare educazione artistica all'Università di Pittsburgh, ma alla fine s'iscrisse alla Carnegie Mellon University, dove avrebbe studiato arte commerciale. Durante la permanenza nel campus Warhol entrò a far parte di due gruppi artistici, il Modern Dance Club e la Beaux Arts Society; fu anche direttore artistico della rivista studentesca Cano.


La creazione della "blotted line"

Con la sua laurea in Art Design sottobraccio, le offerte iniziarono a piovere per Andy Warhol, che iniziò a lavorare duramente per avere successo. Fiducioso nel proprio talento, decise di trasferirsi a New York, la Grande Mela, la città in cui avrebbe vissuto per tutta la vita. Lì si dedicò all'arte commerciale e alla pubblicità. Alla fine degli anni quaranta Warhol fu incaricato di disegnare scarpe per la rivista Glamour e negli anni cinquanta iniziò a lavorare come designer per la prestigiosa azienda di calzature Israel Miller. Della sua abilità nel disegnare le scarpe, il fotografo statunitense John Coplans ricordò che «nessuno disegnava le scarpe come Andy. In qualche modo dava a ogni scarpa un proprio temperamento, una sorta di raffinatezza sorniona alla Toulouse-Lautrec, ma la forma e lo stile erano trasmessi con precisione e la fibbia era sempre al posto giusto».

Durante queste incursioni di successo nell'industria calzaturiera, Warhol sviluppò la tecnica pittorica che lo avrebbe reso famoso, nota come "blotted line", uno stile che avrebbe definito la sua arte. La tecnica consisteva nell'applicare l'inchiostro sulla carta e nel farlo asciugare mentre era ancora umido (il processo era simile all'incisione, ma su scala più rudimentale). In questo modo, l'uso della carta da lucido e dell'inchiostro gli permetteva di ripetere un'immagine di base tutte le volte che voleva e di creare infinite variazioni sull'originale. Da quel momento in poi Andy Warhol divenne presto il designer più richiesto da grandi aziende come Columbia Records, Vogue e Tiffany & Co., per le quali creò vetrine e cartelloni pubblicitari spettacolari.


Nel 1952 la Hugo Gallery di New York organizzò la prima mostra di Andy Warhol, Quindici disegni basati sull'opera di Truman Capote, e negli anni successivi i suoi disegni subirono una profonda trasformazione grazie all'incorporazione di varie tecniche fotografiche che aveva scoperto durante il periodo trascorso nel mondo della pubblicità. Il talento artistico di Warhol non passò inosservato agli esperti del Museum of Modern Art di New York (MoMA), che decisero d'inserire un'opera dell'artista in una mostra collettiva.


La fabbrica di Warhol

La passione di Warhol per la pubblicità e il fatto che avesse fatto di New York la sua residenza permanente resero la città dei grattacieli uno degli epicentri della Pop art, una corrente artistica in cui si sono distinti anche altri nomi di spicco come il pittore e fotografo Richard Hamilton, l'artista Roy Lichtenstein e il pittore pop Tom Wesselmann. Dal canto suo, Warhol creava immagini astratte, ispirate all'ambiente circostante, in cui l'artista inseriva un forte senso sociale, e il suo obiettivo prioritario all'epoca fu quello di produrre arte nello stesso modo in cui una fabbrica produce oggetti in una catena di montaggio. Non sorprende quindi che Warhol abbia chiamato "The Factory" lo studio d'arte che aprì nel 1962 e che rimase in funzione fino al 1984. È qui che negli anni sessanta e settanta creò alcune delle sue opere più iconiche, come le Campbell's Soup Cans (trentadue tele), il Dittico di Marilyn (che contiene cinquanta immagini dell'attrice) e la sorprendente serie Stars, Death and Disasters.


 

Lo studio Factory, noto anche come The Silver Factory, in riferimento alla carta argentata che decorava le pareti e i soffitti dei locali, si trovava inizialmente al quinto piano del 231 East 47th Street di New York. Il musicista e compositore John Cale descrisse così la frenetica attività che vi si svolgeva: «Le serigrafie di Warhol venivano prodotte a catena. Mentre qualcuno realizzava una serigrafia, qualcun altro girava un film». Warhol fece anche qualche occasionale incursione nel mondo del cinema con la collaborazione del suo partner, il regista Paul Morrisey. Nel suo studio passarono anche cantanti famosi come David Bowie, Lou Reed e Mick Jagger, oltre ad alcune celebrità della cultura e della controcultura dell'epoca, come l'attrice e modella Edie Sedgwick, che sarebbe diventata la sua musa, la cantante Nico, l'artista Ultra Violet, la modella e attrice International Velvet... Tutti questi personaggi costituivano il gruppo noto come "Warhol Superstars".


Una morte improvvisa

Nel 1967 una donna di nome Valerie Solanas incrociò il cammino di Warhol per presentargli il copione di un'opera teatrale che aveva scritto. Sfortunatamente, l'artista perse il manoscritto tra la moltitudine di testi che doveva leggere, così, per scusarsi, le offrì un ruolo nel suo film I, a Man. Solanas inizialmente sembrò accettare, ma ben presto lanciò violente accuse e minacce all'artista. Furiosa con Warhol, il 3 giugno 1968 Solanas entrò nella Factory e dopo aver estratto una pistola sparò ripetutamente a Warhol e a Mario Amaya, un critico d'arte che si trovava lì in quel momento. Sebbene Warhol sopravvivesse alle gravi ferite causate dagli spari, che colpirono entrambi i polmoni, la milza e l'esofago, trascorse il resto della vita in grande sofferenza, sia fisica che mentale. A Solanas fu diagnosticata la schizofrenia e trascorse tre anni in prigione con l'accusa di aggressione.



Da quel momento in poi la salute di Warhol cominciò a peggiorare irrimediabilmente. Secondo il suo biografo Victor Bockris, nel 1973 l'artista soffrì di forti dolori causati da calcoli biliari, ma la paura di essere ricoverato in ospedale gli impedì di sottoporsi a qualsiasi trattamento. Alla fine del 1986 le sue condizioni di salute erano notevolmente peggiorate e nel febbraio 1987 gli esami confermarono che aveva la cistifellea gravemente danneggiata. I medici gli dissero che doveva essere rimossa, altrimenti sarebbe andata in cancrena e lo avrebbe portato alla morte. Dopo cinque lunghe ore di intervento chirurgico, sembrava che Warhol si sarebbe ripreso, ma improvvisamente ebbe un'aritmia che avrebbe posto fine alla sua vita il 22 febbraio 1987, all'età di cinquantotto anni. La famiglia di Warhol accusò l'ospedale di New York di negligenza e fece causa, anche se in via extragiudiziale riuscì a raggiungere un accordo di 8 milioni di dollari che avrebbe posto fine alla controversia. Il più famoso artista pop fu sepolto con la sua caratteristica parrucca argentata e gli occhiali da sole accanto ai suoi genitori nel cimitero cattolico bizantino di San Giovanni Battista a Pittsburgh.


 

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