Quinta puntata di GAIA'S CORNER. Gaia Beranti ci parla di un disco maestoso come Harvest di Neil Young, il canadese solitario che esordì con il country ma è passato attraverso tanti "generi musicali" fino ad essere considerato il padrino del grunge. Imbolsito ma sempre dannatamente attuale.
Harvest (1972)
Lambrusco, frascöm e suggestioni
Studiando al liceo classico si riflette molto sul concetto di “classico” (eh beh, se mia lè, indùa!?). Questa parola è inflazionatissima in tanti campi, ma nella musica mi sentirei di dire ben più di tutti gli altri.
Si potrebbe dire che è qualcosa di così esemplificativo di un concetto o di altro elemento da considerarsi modello, nello spazio e nel tempo. Riprenderemo poi.
01/02/1972
Un giovane sbarbatello in camicia di flanella pubblica un disco senza tempo e senza confini. Si chiama Harvest e lo sbarbatello in questione è il caro Neil Young.
Come ogni essere umano, il buon Neil incappa in un acciacco importante alla schiena oltre ad altre sfighe (la fine di un matrimonio per esempio) e, affranto nel corpo e nello spirito, decide che la campagna è quello che gli serve per tirarsi su e lavorare sereno ad un nuovo progetto (ha già fatto il botto con l’album “After the Gold Rush”). Tutt’altro che scarico di idee, decide che si può provare qualcosa di diverso dal suo repertorio.
Abbandona la collaborazione con la band dei Crazy Horses e cerca impronte più country, assembla una nuova band di accompagnamento che battezza “Stray Gators” che, in generale, rinforzano una nuova impronta country al disco.
Costretto ad un busto ortopedico, registra tracce acustiche per prime, per poi completare le parti elettriche in convalescenza una volta tolto. Le prime in studio a Nashville in sessioni corte, le seconde in uno studio improvvisato nel fienile del suo ranch (lo troverete ritratto nel retro copertina). Le prime compongono il lato A, nel complesso più morbido, contemplativo e campagnolo; le seconde il lato B più grezzo e aggressivo. Una chicca: il banjo della meravigliosa “Old Man”, una delle tracce più famose dell’album e dell’intero repertorio di Neil Young, è suonato da James Taylor. Tranquilli, se non lo conoscete parleremo anche di lui prossimamente.
Ah, e intanto che c’era, assieme a Linda Rondstadt, dopo una serata insieme al Johnny Cash Show, il trio finisce la serata a registrare i cori di “Old Man” e “Heart of Gold” (la seconda perla dell’album). Allo stesso show, il produttore discografico Elliot Mazer aveva fermato Neil per proporlgli di usare i suoi nuovissimi Quadrafonic Sound Studio: Neil accetta e chiede allo stesso Mazer i nomi di quelli che poi saranno i futuri membri degli “Stray Gators”.
Insomma, questo va a un’ospitata televisiva e in una sera imposta band, coristi e location di registrazione, il materiale da registrare era già pronto. Una delle cose belle di questi artisti: la velocità riproduttiva di idee e realizzazione delle stesse, roba che neanche i conigli.
I temi di dividono anch’essi in due: nel lato A, la parte più contemplativa, domina la riflessione sull’amore e la ricerca della felicità; nel lato B, si riflette sul razzismo, la perdita di senso di alcune atmosfere hippie e l’eroina. Piccola nota di rilievo: i Lynyrd Skynyrd non hanno gradito particolarmente la critica al razzismo di “Alabama” e hanno inserito un dissing in “Sweet Home Alabama” dicendo che il buon Neil può starsene pure a casa sua se non comprende il paese. Una prerogativa che accompagnerà il buon Neil per tutta la vita: non è esattamente una personcina apolemica.
Quello che amo di questo disco è la contemplazione del suo lato country: è in un ranch in America ma sa di lambrusco, di frascöm del fiume, di giri sull’argine. Trascende il tempo e lo spazio e regala suggestioni immortali che chiunque può adattare al proprio personale concetto di campagna e natura, non invecchia e non muore.
Trascende il tempo… trascende lo spazio. E scorre, per citare il buon Neil di un altro disco, “down by the river”.
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