ANDY WARHOL
ARTE, MUSICA E ALTRI FRUTTI
Il 22 febbraio 1987 muore Andy Warhol e se ne va lasciando al mondo un’eredità artistica infinita, lente di ingrandimento di una società che ancora oggi reitera quelle criticità di cui le opere dell’artista furono e sono tutt’ora icone indiscusse.
Padre della Pop Art, a suo parere “unico modo per amare le cose” si lega al concetto di riproducibilità e commercializzazione dell’opera d’arte e cattura la cultura di massa rivoluzionando e rompendo gli schemi artistici precedenti.
La sua è una lungimirante reazione a una società nascente destinata a diventare un’enorme supermercato stipato di merce in vendita, al divismo imposto dal cinema e dai brand della moda, all’omologazione culturale dei mass media. Nasce l’esigenza di coinvolgere l’uomo comune nell’arte che diventa il solo mezzo per salvarlo dall’ipnotico torpore del pensiero unico. Per questa ragione si rappresenta la realtà più visibile del mondo moderno, le cose di cui ossessivamente ci hanno circondato l’industria e la società dei consumi: il telefono, la bottiglia di coca cola, un sandwich, una macchina da scrivere, un ferro da stiro, il volto di una diva famosa, la scatola di un detersivo, la lattina di una zuppa, tutti soggetti a noi proposti in maniera compulsiva dall’advertising.
La Pop Art cambia quindi il mezzo e il modo di comunicare, si stacca da quelli dell’arte classica, (quadri, foto, sculture) e adotta gli stessi usati dai potenti mezzi di comunicazione, spesso riproducendo più copie di uno stesso soggetto proprio come accade nell’era dei consumi: queste opere furono denominate “multipli “cioè, copie identiche dell’opera stessa.
Warhol si muove in più ambiti dimostrando un eclettismo largo e intuitivo che lo porta ad abbracciare parecchie espressioni artistiche divenendo ben presto un idolo e un modello a cui ispirarsi. Una interessante contaminazione fu quella tra Warhol e la musica e di questo vogliamo qui, oggi, raccontarvi.
Il primo album dei Velvet Underground, la band di Lou Reed e John Cale porta in copertina la banana disegnata da Andy famosa in tutto il mondo. L’incontro avviene nel 1966 quando Warhol vede esibirsi la band e rimane colpito dalle sonorità sperimentali nelle quali ritrova in musica ciò che lui esprime con la grafica. La performance della band, che viene licenziata in tronco, non va per niente bene, lo spettacolo a giudizio degli organizzatori è stato eccessivamente volgare e sopra le righe. Warhol incontra i Velvet Underground al Cafè Bizarre, nel Greenwich Village a New York, incontro che segna l’inizio di anni di collaborazione durante i quali la Factory stessa, suo centro di produzione artistica, sarà sede delle prove dei Velvet. La copertina dell’album di debutto diviene ben presto una vera e propria icona, sostituendo il titolo del disco spesso chiamato “banana album”.
L’immagine nasce diversa da come la si conosce oggi: la buccia era adesiva e staccandola rivelava una polpa di colore rosa, chiara allusione sessuale, sottolineata anche dalla scritta “Peel slowly and see”. La Verve Records’ considera l’idea di Warhol geniale, acquista i diritti di distribuzione del disco, e investe moltissimo per una macchina capace di produrre ciò che l’artista aveva ideato. Il giochino della buccia che si toglie risulta però difficile da realizzare e allunga moltissimo i tempi di distribuzione, così negli anni torna ad essere semplicemente la banana gialla che tutti conosciamo e possiamo trovare in qualunque negozio di dischi. L’album contiene otto pezzi pazzeschi e intramontabili: Sunday Morning, I’m Waiting For The Man, Femme Fatale, Venus In Furs, Run Run Run, Heroin, There She Goes Again, I’ll Be Your Mirror, All Tomorrow’s Parties. Contrariamente a quanto si possa pensare, il disco non spacca, nei primi 5 anni la vendita non supera le 30.000 copie ma nella storia della musica rimane epocale.
Noi boomer ben sappiamo che quel disco aprì la strada al punk, alla new wave e a tutto il rock alternativo degli anni a seguire. Nel 2021 nella Galleria Restelliartco a Roma, all’interno della Mostra “Pop sounds good” fu esposto un rarissimo esemplare delle pochissime cover rimaste con la buccia adesiva, firmato da Warhol.
Il 22 febbraio 1987 lasciava questa terra il corpo di Andy Warhol, non certo il suo genio che continua a fare il giro del mondo nel volto di Marylin, nella latta di una zuppa, sotto la buccia di una banana e in tutti gli stereotipi di cui continuiamo ad essere schiavi.
“Ho un aspetto tremendo, e non bado a vestirmi bene o a essere attraente, perché non voglio che mi capiti di piacere a qualcuno. Minimizzo le mie qualità e metto in risalto i miei difetti. Eppure c’è lo stesso qualcuno a cui interesso. Ne faccio tesoro e mi chiedo: che cosa avrò sbagliato?”
Giovanna Anversa
LA VITA DI ANDY WARHOL
(dal sito "Storica" di National Geographic)
Andy Warhol, l'artista più iconico della Pop art
Controverso ed enigmatico, Andy Warhol fu uno degli artisti più importanti e carismatici del XX secolo. Nessuno come lui seppe plasmare lo spirito della Pop art e vendere la propria opera come un prodotto della società dei consumi che era il bersaglio della sua critica
«Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti». Queste parole, che nell'era di internet sono diventate premonitrici, furono pronunciate da Andy Warhol, senza dubbio l'artista più iconico della Pop art. Attraverso le sue opere, Warhol mosse una critica corrosiva alla superficialità della società consumistica nordamericana, in cui secondo lui l'immediatezza era effimera come la fama. Warhol ridefinì l'arte di un'intera generazione con opere come le famose lattine di zuppa Campbell's o serigrafando i volti delle più famose star del cinema del suo tempo. Un modo per simboleggiare il vuoto e l'essenza stessa del nulla, secondo le sue stesse parole. Fino alla sua morte, avvenuta il 22 febbraio 1987, l'opera di Warhol segnò un prima e un dopo nell'evoluzione della cultura artistica e pop del XX secolo, sia dai suoi inizi come grafico che con le sue singolari incursioni nella settima arte anni dopo.
Un bambino cagionevole e sensibile
Il 6 agosto 1928 nasceva in Pennsylvania Andrew Warhola, terzo figlio di una coppia di immigrati slovacchi. La sua infanzia fu segnata da una rara malattia neurologica chiamata corea di Syndeham, causata da un'infezione, che gli provocava convulsioni involontarie e strane macchie rosa sulla pelle. Questa rara condizione costrinse il piccolo Andy a trascorrere lunghi periodi in ospedale o in convalescenza a casa, dove iniziò a disegnare e a collezionare immagini dei protagonisti dei più famosi cortometraggi televisivi dell'epoca. La madre, che non imparò mai l'inglese, inculcò nel ragazzo il suo fervore religioso ortodosso, che influenzò notevolmente il talento artistico di Andy. A causa dei suoi molteplici problemi di salute, il giovane, estremamente sensibile, dovette affrontare l'incomprensione dei suoi compagni di classe, e a tal fine creò un mondo di fantasia in cui inventò pseudonimi, travestimenti e persino personaggi immaginari con cui avrebbe vissuto per il resto della vita.
Come racconta l'artista e storico dell'arte britannico Eric Victor Shanes, la Grande depressione rovinò la famiglia di Andy, ma l'ingegno del padre la tenne a galla. Nel 1934 questi ebbe la fortuna di trovare un lavoro ben retribuito come operaio edile, permettendo alla famiglia di trasferirsi in un quartiere migliore. Andy si diplomò alla Schenley High School nel 1945 e vinse lo Scholastic Art and Writing Award, un concorso che premiava i giovani talenti nel campo dell'arte e della narrazione. Così, nella mente di Andy germinò l'idea di diventare un insegnante d'arte. Voleva studiare educazione artistica all'Università di Pittsburgh, ma alla fine s'iscrisse alla Carnegie Mellon University, dove avrebbe studiato arte commerciale. Durante la permanenza nel campus Warhol entrò a far parte di due gruppi artistici, il Modern Dance Club e la Beaux Arts Society; fu anche direttore artistico della rivista studentesca Cano.
La creazione della "blotted line"
Con la sua laurea in Art Design sottobraccio, le offerte iniziarono a piovere per Andy Warhol, che iniziò a lavorare duramente per avere successo. Fiducioso nel proprio talento, decise di trasferirsi a New York, la Grande Mela, la città in cui avrebbe vissuto per tutta la vita. Lì si dedicò all'arte commerciale e alla pubblicità. Alla fine degli anni quaranta Warhol fu incaricato di disegnare scarpe per la rivista Glamour e negli anni cinquanta iniziò a lavorare come designer per la prestigiosa azienda di calzature Israel Miller. Della sua abilità nel disegnare le scarpe, il fotografo statunitense John Coplans ricordò che «nessuno disegnava le scarpe come Andy. In qualche modo dava a ogni scarpa un proprio temperamento, una sorta di raffinatezza sorniona alla Toulouse-Lautrec, ma la forma e lo stile erano trasmessi con precisione e la fibbia era sempre al posto giusto».
Durante queste incursioni di successo nell'industria calzaturiera, Warhol sviluppò la tecnica pittorica che lo avrebbe reso famoso, nota come "blotted line", uno stile che avrebbe definito la sua arte. La tecnica consisteva nell'applicare l'inchiostro sulla carta e nel farlo asciugare mentre era ancora umido (il processo era simile all'incisione, ma su scala più rudimentale). In questo modo, l'uso della carta da lucido e dell'inchiostro gli permetteva di ripetere un'immagine di base tutte le volte che voleva e di creare infinite variazioni sull'originale. Da quel momento in poi Andy Warhol divenne presto il designer più richiesto da grandi aziende come Columbia Records, Vogue e Tiffany & Co., per le quali creò vetrine e cartelloni pubblicitari spettacolari.
Nel 1952 la Hugo Gallery di New York organizzò la prima mostra di Andy Warhol, Quindici disegni basati sull'opera di Truman Capote, e negli anni successivi i suoi disegni subirono una profonda trasformazione grazie all'incorporazione di varie tecniche fotografiche che aveva scoperto durante il periodo trascorso nel mondo della pubblicità. Il talento artistico di Warhol non passò inosservato agli esperti del Museum of Modern Art di New York (MoMA), che decisero d'inserire un'opera dell'artista in una mostra collettiva.
La fabbrica di Warhol
La passione di Warhol per la pubblicità e il fatto che avesse fatto di New York la sua residenza permanente resero la città dei grattacieli uno degli epicentri della Pop art, una corrente artistica in cui si sono distinti anche altri nomi di spicco come il pittore e fotografo Richard Hamilton, l'artista Roy Lichtenstein e il pittore pop Tom Wesselmann. Dal canto suo, Warhol creava immagini astratte, ispirate all'ambiente circostante, in cui l'artista inseriva un forte senso sociale, e il suo obiettivo prioritario all'epoca fu quello di produrre arte nello stesso modo in cui una fabbrica produce oggetti in una catena di montaggio. Non sorprende quindi che Warhol abbia chiamato "The Factory" lo studio d'arte che aprì nel 1962 e che rimase in funzione fino al 1984. È qui che negli anni sessanta e settanta creò alcune delle sue opere più iconiche, come le Campbell's Soup Cans (trentadue tele), il Dittico di Marilyn (che contiene cinquanta immagini dell'attrice) e la sorprendente serie Stars, Death and Disasters.
Lo studio Factory, noto anche come The Silver Factory, in riferimento alla carta argentata che decorava le pareti e i soffitti dei locali, si trovava inizialmente al quinto piano del 231 East 47th Street di New York. Il musicista e compositore John Cale descrisse così la frenetica attività che vi si svolgeva: «Le serigrafie di Warhol venivano prodotte a catena. Mentre qualcuno realizzava una serigrafia, qualcun altro girava un film». Warhol fece anche qualche occasionale incursione nel mondo del cinema con la collaborazione del suo partner, il regista Paul Morrisey. Nel suo studio passarono anche cantanti famosi come David Bowie, Lou Reed e Mick Jagger, oltre ad alcune celebrità della cultura e della controcultura dell'epoca, come l'attrice e modella Edie Sedgwick, che sarebbe diventata la sua musa, la cantante Nico, l'artista Ultra Violet, la modella e attrice International Velvet... Tutti questi personaggi costituivano il gruppo noto come "Warhol Superstars".
Una morte improvvisa
Nel 1967 una donna di nome Valerie Solanas incrociò il cammino di Warhol per presentargli il copione di un'opera teatrale che aveva scritto. Sfortunatamente, l'artista perse il manoscritto tra la moltitudine di testi che doveva leggere, così, per scusarsi, le offrì un ruolo nel suo film I, a Man. Solanas inizialmente sembrò accettare, ma ben presto lanciò violente accuse e minacce all'artista. Furiosa con Warhol, il 3 giugno 1968 Solanas entrò nella Factory e dopo aver estratto una pistola sparò ripetutamente a Warhol e a Mario Amaya, un critico d'arte che si trovava lì in quel momento. Sebbene Warhol sopravvivesse alle gravi ferite causate dagli spari, che colpirono entrambi i polmoni, la milza e l'esofago, trascorse il resto della vita in grande sofferenza, sia fisica che mentale. A Solanas fu diagnosticata la schizofrenia e trascorse tre anni in prigione con l'accusa di aggressione.
Da quel momento in poi la salute di Warhol cominciò a peggiorare irrimediabilmente. Secondo il suo biografo Victor Bockris, nel 1973 l'artista soffrì di forti dolori causati da calcoli biliari, ma la paura di essere ricoverato in ospedale gli impedì di sottoporsi a qualsiasi trattamento. Alla fine del 1986 le sue condizioni di salute erano notevolmente peggiorate e nel febbraio 1987 gli esami confermarono che aveva la cistifellea gravemente danneggiata. I medici gli dissero che doveva essere rimossa, altrimenti sarebbe andata in cancrena e lo avrebbe portato alla morte. Dopo cinque lunghe ore di intervento chirurgico, sembrava che Warhol si sarebbe ripreso, ma improvvisamente ebbe un'aritmia che avrebbe posto fine alla sua vita il 22 febbraio 1987, all'età di cinquantotto anni. La famiglia di Warhol accusò l'ospedale di New York di negligenza e fece causa, anche se in via extragiudiziale riuscì a raggiungere un accordo di 8 milioni di dollari che avrebbe posto fine alla controversia. Il più famoso artista pop fu sepolto con la sua caratteristica parrucca argentata e gli occhiali da sole accanto ai suoi genitori nel cimitero cattolico bizantino di San Giovanni Battista a Pittsburgh.
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