Il blues non viene dal Mississippi?
Il sangue dei nativi americani nelle vene del rock-blues
Fermi tutti! La storia è da riscrivere, la rotta da cambiare. Le strade del blues e del rock non sono quelle che abbiamo sempre pigramente immaginato, che dal Mali portano al Mississippi. Non fraintendiamo, l’origine si dipana dal Continente africano, con il suo carico di dolore e tragedia, con i suoi suoni, i suoi canti e le sue percussioni. Ma è il primo approdo che è diverso: non il delta del grande fiume americano, ma una sterminata prateria brulicante di tepee pellerossa.
L’incontro fra gli africani e i nativi americani, lo scambio di canti modulati su scale a cinque toni fa scoccare la scintilla da cui deriveranno prima il blues e poi il rock.
È una tesi suggestiva, in apparenza un po’ stiracchiata ma che rivela indizi che meritano la dovuta attenzione. Quello che è indubitabile è che le due etnie si mescolarono, molte famiglie americane ancora oggi sono un misto di sangue africano e nativo.
Quando l’etnomusicologo Alan Lomax documentò la presenza del blues lungo il delta del Mississippi, non poteva sapere che il sangue pellerossa era già presente nei villaggi, nei locali nati per suonare, bere e ballare chiamati Juke joint, nei campi di cotone, e che già scandiva il linguaggio delle dodici battute.
Ed ecco allora gli indizi di cui si diceva. Il primo è che a creare l’originale autentico suono rock non furono i "bianchi" Carl Perkins, Buddy Holly o Bill Haley e neanche Re Elvis, ma un pellerossa autentico: il chitarrista Link Wray. Il suono distorto con cui generazioni di chitarristi, da Jimmy Page a Pete Townshend a Eric Clapton hanno costruito i loro muri sonori, le ritmiche e gli assoli travolgenti, è figlio di un padre pellerossa.
Sembra incredibile, eppure tutti gli indizi convergono (intrigante, a tal proposito il documentario “Rumble”): quando la chitarra lancinante di Link Wray irruppe alla radio nel 1958 con i suoi suoni vibranti e acuminati, fu una autentica rivoluzione. La strada era segnata, da allora il rock scelse la strada definitiva della distorsione.
Altro capitolo: il blues. La fonte che ha dissetato milioni di appassionati e nutrito altrettanti musicisti, ha tre padri putativi riconosciuti: Robert Johnson, Muddy Waters e un pellerossa, Charlie Patton. Patton è il musicista blues più amato e ispiratore, il compositore più prolifico, il chitarrista più originale (suonava la sua chitarra percuotendola spesso come un tamburo). Intere generazioni di bluesmen e rocker gli sono debitrici, per la sua scrittura, i testi, i fraseggi che hanno guarnito il linguaggio e la sensualità di quel genere musicale.
Anche il Signore degli apostoli della chitarra elettrica, sua Maestà Jimi Hendrix, l’inventore del power blues, colui che fece ululare le chitarre e scrisse pagine indispensabili della storia del rock, aveva nelle vene puro sangue cherokee (da parte di mamma).
E che dire di Robbie Robertson, un altro pellerossa che con la sua The Band creò il suono di Bob Dylan e insaporì il rock con essenze folk e gospel?
L’elenco potrebbe continuare, arrivando fino all’heavy metal e all’hip hop. Musicisti, autori, cantanti, tutti nativi americani. Se il blues arriva dall’Africa, come sempre è stato detto, lo spirito di Manitù e i canti della sua gente hanno partecipato al coro, dando un grande contributo al mondo unificante che è la canzone popolare.
Stefano Superchi
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