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30 dicembre 2024

Marlene Kuntz, 30 anni di Catartica!

Marlene Kuntz,

30 anni di Catartica!

 



La mia scoperta personale dei Marlene Kuntz avvenne nel giugno 1994 attraverso una cassettina promozionale del Consorzio Produttori Indipendenti (CPI) allegata al periodico musicale Rockerilla (si, allora usava così, per fortuna) e fu come un fulmine che ti sorprende in una nottata serena: inaspettato e travolgente. Una botta di adrenalina che non mi capitava dai tempi di “Puta’s Fever” dei Mano Negra.

 





Lascia che ti vomiti un’onda di parole
MA-MA-MARLENE è la migliore!
Piegati a novanta, io monto la tendenza
fammi entrare nell’intellighenija

 

Nella prima metà degli anni 90 la nostra penisola era come sempre in differita rispetto ai movimenti musicali che arrivavano da USA e UK, e la scena indipendente viveva ancora di rendita con new wave e post-punk, tra Firenze e Bologna, sugli allori di Litfiba, Diaframma, Neon, Punkow e Moda. All’inizio del decennio successivo le etichette italiane cominciarono a captare le influenze di Nirvana, Pearl Jam e soci.
Era ora di scandagliare le cantine del nostro paese per andare a trovare i migliori gruppi della scena underground già orientati verso quelle scene.

 


A Cuneo, periferia dell’Impero, si muovevano già da un po’ i Marlene Kuntz. I Sonic Youth come punto di riferimento, ma con un pizzico di melodia per entrare in sintonia con il pubblico.
Nel 1994 avevano già alle spalle quasi 5 anni di gavetta, Cristiano Godano (frontman, chitarra e autore del gruppo), Ricardo Tesio (chitarra), Luca Bergia (batteria - prematuramente scomparso nel marzo 2023) e Luca Viano (basso) forgiavano assieme un sound che da lì in poi avrebbe fatto tendenza dalle nostre parti, e li portò a produrre una bomba di nome “Catartica”, un disco che aprirà una nuova era del rock italiano.

 




E certo un brivido averti qui con me
in volo libero sugli anni andati ormai
e non è facile, dovresti credermi,
sentirti qui con me perché tu non ci sei
Mi piacerebbe sai, sentirti piangere
anche una lacrima, per pochi attimi


Non fu facile arrivare alla produzione del disco, i soldi che giravano erano pochi e i Marlene provarono addirittura una sottoscrizione tra i fan chiedendo loro una quota di partecipazione di 13.000 Lire (praticamente un pagamento anticipato) per arrivare alla produzione di un Ep di tre pezzi. Non andò benissimo, ma dopo una recensione su Rockerilla del terzo Ep del gruppo, un anno di trattative e titubanze, “San” Gianni Maroccolo, all’epoca impegnato a lanciare l’etichetta C.P.I. (Consorzio Produttori Indipendenti) accettò di occuparsi della produzione esecutiva, delegando quella artistica a Marco Lega, importantissimo per indirizzare i Marlene verso quello che diventerà il sound che caratterizzerà la seconda metà degli anni 90.
 

Sound condensato mirabilmente in “Nuotando nell’aria”, dove si intrecciano rabbia e melodia nei cinque minuti che faranno la fortuna della band, con l’ordito musicale che sfocia in un crescendo finale ad altissimo contenuto emozionale. Un altro pezzo che entrerà dritto nella storia è “Sonica”, manifesto della band, un tripudio di rumore che sarà per anni l’acme dei loro live.

 

 
 
 Fragori nella mente, rumori, dolori
lampi, tuoni e saette, schianti di latte
fragori a albori universali, scontri letali, SONICA, …
 
Una mano ad uscire dal circuito ristretto dei loro adepti gliela darà Giovanni Lindo Ferretti suonando “Lieve” in alcune date dei Csi ed inserendo la propria versione nel disco “In quiete”, facendola così conoscere ad un numero maggiore di persone.
 
 



Trovare un pezzo di secondo piano in “Catartica” è effettivamente difficile, visto il susseguirsi di inni programmatici, partendo  da “M.K.”, dura invettiva contro il rap, che all’epoca pareva essere l’unico interesse delle major, oscurando tutto il resto.
 
 


E poi “Festa Mesta”, assalto sonico che entra nel cuore dei fan, così come “1° 2° 3°” e “Canzone di domani”. Nei testi esplode la poetica di Godano in  “Gioia che mi do” e “Giù giù giù” (“Gengiva nuota contro muco/ Gran liquame stilla dal buco/ Rossorosacarnoso ex muso coli bavoso”) e l’insofferenza per l’apatia della provincia in “Fuoco su di te” (“Noi stiamo per generare/ L’idea di vomitare/ Sui vostri piatti migliori/ E stiamo per eliminare/ Chi non si sporca le mani/ E dentro al Cuneo muore”).
 
 

 


Un album molto intenso “Catartica”, praticamente una greatest hits che segnò profondamente tutti coloro che in quegli anni lo ascoltarono. Una sequenza da togliere il fiato, dove anche pezzi meno noti come “Trasudamerica”, “Merry X-mas”, “Mala mela” e la strumentale “Non ti scorgo più”, risultano tutt’altro che semplici riempitivi. 
 
 



Un grande merito di Cristiano Godano, insieme ad uno sparuto gruppo di autori rock italiani, tra cui Manuel Agnelli degli Afterhours e Alberto Ferrari dei Verdena, fu quello di sdoganare la possibilità di cantare rock nella nostra lingua senza apparire fuori luogo.

 
 
Godano, per dare peso specifico alla propria scrittura, utilizzò termini inusuali e visionari, non risparmiando l’uso di figure retoriche che rimarranno scolpite nei solchi del vinile come il “rogo delle mie brame”, il “vociare di monete obsolete”, il “perdersi in fondo all’immobile” e “un grammo di gioia del tuo sorriso”. 
 
 

Catartica” si imporrà come disco-rivelazione del nuovo rock italiano e, a trent’anni di distanza, è ancora considerato uno dei lavori di riferimento dei ‘90, un lavoro che ha incoronato i Marlene Kuntz come band-guida, prendendo il testimone dalle mani di Cccp e Litfiba.



Stefano Superchi





 
 la video-recensione di VinilicaMente
 


28 dicembre 2024

FUMETTO, UN MIRACOLO A MILANO

FUMETTO, UN MIRACOLO A MILANO

Milano raccontata dai fumetti, da Paperino a Diabolik

19 ottobre 2024 – 19 gennaio 2025

 


WOW SPAZIO FUMETTO
Museo del Fumetto, dell’Illustrazione e dell’Immagine animata
Viale Campania 12, Milano


Orari: da martedì a venerdì, ore 15-19; sabato e domenica, ore 14-19; chiuso il lunedì

La città di Milano è stata rappresentata innumerevoli volte nelle storie a fumetti, facendo da sfondo ad avventure dei personaggi più amati, da Paperino ai Puffi, oppure diventando vera e propria protagonista di storie dove sono le sue peculiarità a giocare un ruolo fondamentale.
WOW Spazio FumettoMuseo del Fumetto di Milano presenta la mostra “Fumetto, un miracolo a Milano”, a cura di Luigi F. Bona, Luca Bertuzzi e Gian Luca Margheriti, che intende rivelare l’affascinante storia del modo in cui gli autori del Fumetto hanno saputo, nel corso di oltre cento anni, raccontare il territorio, gli abitanti, i luoghi, la storia di Milano e del suo intorno.

 

La città è stata incubatrice della Nona Arte, il Fumetto, accentrando capacità creative eccezionali e restituendo al mondo autori, prodotti e progetti culturali di assoluta eccellenza.
Attraverso il Fumetto vengono rivisitati i luoghi della città con gli occhi e il segno di sceneggiatori e artisti di questa arte, che nel corso del tempo non hanno soltanto “fotografato” ma vissuto e raccontato la vita, i sogni, i protagonisti della varietà culturale di Milano.
Le immagini disegnate da grandi artisti, che hanno raccontato la Milano di ieri e di oggi, sono affiancate da approfondimenti sulla sua storia, per rivelare la Milano che è stata e non c’è più, con il legame tra l’espressione culturale e i luoghi, la vita e il lavoro. Ingrandimenti scenografici, pubblicazioni d’epoca, manifesti cinematografici e tante sorprese alzano il velo su percorsi inediti in una Milano che non può e non deve essere dimenticata, per una Milano da sperare ancora.
Realizzata con il contributo di Regione Lombardia, la mostra “Fumetto, un miracolo a Milano” rende omaggio nel titolo a un capolavoro del cinema italiano distribuito nel 1951, il film “Miracolo a Milano” diretto da Vittorio De Sica (nel cinquantesimo anno dalla scomparsa) su soggetto di Cesare Zavattini. Quest’ultimo è stato una figura fondamentale della cultura del Novecento e ha svolto un ruolo rilevante nell’editoria a fumetti da quando, già direttore editoriale dei periodici Mondadori, è stato convinto da Federico Pedrocchi a scrivere il soggetto per “Saturno contro la Terra”, la prima saga di fantascienza italiana, con i disegni di Giovanni Scolari.

 



È partendo da questa connessione, particolarmente evocativa di tutto ciò che la mostra intende raccontare, e dalla vicinanza dei luoghi dove il film venne girato, che inizia la mostra “Fumetto, un miracolo a Milano”, sottolineata dalla suggestiva illustrazione disegnata da Luca Salvagno appositamente per la locandina della mostra. L’illustrazione evoca la storia del Fumetto che ha avuto la città come sua capitale editoriale, traendo ispirazione dalla scena più celebre del film “Miracolo a Milano” e dal manifesto dell’epoca.
Accanto ai bozzetti preparatori e all’illustrazione originale di Salvagno, sarà esposta una serie di foto di scena dietro le quinte del film, grazie all’Archivio Storico Intesa Sanpaolo-Archivio Publifoto, e altro materiale d’epoca, insieme a una selezione di libri e pubblicazioni che portano la firma di Cesare Zavattini e una preziosa tavola originale tratta da “Saturno contro la Terra”.

 

Un aspetto importante del rapporto tra Milano e il Fumetto è dato dai tanti editori che, nel tempo, hanno operato a Milano, quelli che, nella mostra inaugurale di WOW Spazio Fumetto nel 2011, abbiamo definito “Editori coraggiosi”.
Radici si trovavano già durante l’Esposizione Universale del 1906, e a Milano nasce il mitico Corriere dei Piccoli (1908). A Milano dal 1935 si trasferisce Topolino, nel 1948 nasce Tex, nel 1957 nasce il Giorno dei Ragazzi e,
nel 1962, di fronte alla stazione delle Ferrovie Nord, nasce Diabolik. A Milano nascono la rivista Linus (1965) e i personaggi Alan Ford (1969), Lupo Alberto (1974), Dylan Dog (1986), solo per citarne alcuni tra più di mille, per oltre duecento editori. E tutto perché proprio a Milano questi personaggi, i loro editori e i loro autori hanno trovato quel clima culturale e imprenditoriale adatto per essere concepiti, diventare migliaia di pubblicazioni nelle edicole, crescere e vivere talvolta per decenni, rendendo il mercato fumettistico italiano uno dei primi al mondo per quantità e varietà.

 



I “giornalini” hanno avuto una diffusione capillare e un successo straordinario sul territorio nazionale, diventando appuntamento fisso e irrinunciabile, ogni settimana e ogni mese, per milioni di ragazzi e di adulti. Il fumetto, fondamentale per l’infanzia e l’adolescenza, vede svilupparsi a Milano una quantità di pubblicazioni settimanali, dal Monello e l’Intrepido a un Corriere dei piccoli più moderno, da Topolino in formato libretto a Cucciolo e Tiramolla, con prime rare e formidabili autrici donne (come Lina Buffolente e Grazia Nidasio) e qualche altro centinaio di professionisti.
 


In mostra, grazie agli archivi della Fondazione Franco Fossati, numeri uno come quelli del Corriere dei Piccoli (1908) e di Topolino in formato libretto (1949) insieme a tante altre pubblicazioni dagli inizi fino agli anni Ottanta, per poter ricordare molti protagonisti di quell’incredibile MIRACOLO A MILANO che è stato il fumetto, grazie a editori, autori, agenzie, le categorie dei tipografi, degli edicolanti, dei librai.
Dopo il doveroso riconoscimento al periodo fondante dell’editoria fumettistica milanese, si apre la parte centrale della mostra, dedicata a come Milano è stata rappresentata nel fumetto, narrata storicamente ma anche nella sua anima, nella sua vivacità culturale, nei suoi artisti.


 

Opere originali e pagine a fumetti che si ambientano nei periodi e nei luoghi più conosciuti della città sono accompagnati da pannelli di grande formato che raccontano storia e curiosità del Duomo, della Milano napoleonica, di quella del primo Novecento, di Chinatown e della Fiera Campionaria, ora CityLife, ma anche della città del boom economico e della contestazione, dell’immigrazione e delle periferie, dei tram e della metropolitana, delle fabbriche e dei negozi, della mala, della nebbia, dei bar e delle osterie, dei navigli (che ci riportano a Martin Mystère di Alfredo Castelli), della musica, del teatro e del cinema (anche quello di Dario Fo e Franca Rame, fin dai tempi de “Lo svitato” e poi della televisione, per arrivare alla Palazzina Liberty).


 

La Milano rinascimentale è raccontata in una storia della serie “La contea di Colbrino” di Adriano Carnevali, creatore dei Ronfi, e nelle tavole della storia disegnata da Giuseppe Palumbo su testi di Giovanni EccherLe cose portate dall’acqua” (nella pubblicazione di Comics & Science in collaborazione con MM Spa che ha per protagonista Leonardo Da Vinci, alle prese con un misterioso delitto davanti alla Basilica di Sant’Eustorgio).



La storia d’amore al centro del graphic novel “Le tende bianche” di Cecilia Latella si svolge al momento dell’arrivo di Napoleone Bonaparte nella città, dove lascerà segni tangibili del suo impero. In anteprima anche una tavola originale dal volume di prossima uscita “Tutto accadde in una notte romana” scritto da Gianluca Piredda e disegnato da Nicole Marucchi per Editoriale Aurea (una storia dedicata alle leggende romane e ai fantasmi della città, tra cui quello del poeta Percy Bysshe Shelley, che passò anche da Milano nei suoi viaggi in Italia).

 


La Milano del primo Novecento è la suggestiva ambientazione del romanzo a fumetti BonelliGli occhi e il buio” di Gigi Simeoni, in mostra con alcune tavole che ci mostrano tra gli altri i Navigli e la vecchia Stazione Centrale.

 


La comunità cinese è la prima a stabilirsi nella città agli inizi del Novecento, come raccontato nei volumi “Chinamen” e “Primavere e autunni” di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, e la sua presenza a Milano è raccontata anche nella serie “Long Wei”, in mostra con le tavole originali disegnate da Luca Genovese. Ma anche l’immigrazione dal Sud dell’Italia ha un suo grande interprete e narratore in Vincenzo Jannuzzi, dalla fine degli anni Sessanta (“Ancillotto l’emigrante”) a più mature riflessioni e più approfondite testimonianze (“Mal’aria di città” e altro).

 


 

Long Wey

Mal'aria di città


Il modernissimo quartiere di CityLife è stato per decenni sede della Fiera Campionaria, un appuntamento annuale per milioni di persone, tra cui Don Camillo, Peppone e la famiglia di Giovanni Guareschi, come raccontano le storie disegnate da Roberto Meli, Adriano Fruch e Tommaso Arzeno per ReNoir Comics, tratte dalle opere letterarie di Guareschi.
 



Tra i maggiori interpreti a fumetti della città di Milano c’è Paolo Bacilieri, in mostra con due recenti opere dedicate alla vita dell’artista Piero Manzoni (“Piero Manzoni – BACGLSP”) e all’adattamento a fumetti del romanzo “Venere privata” di Giorgio Scerbanenco.




Nel giro di pochi anni la città cambia radicalmente, così come il clima politico e l’umore della società; gli anni pieni di speranza e fiducia del boom economico lasciano spazio alla contestazione
del Sessantotto e agli anni di piombo.


 


Gli anni della contestazione sono al centro della miniserie Cani sciolti (Sergio Bonelli Editore) in mostra con le tavole digitali di Roberto Rinaldi ambientate durante uno dei momenti più tragici della storia recente della città, la bomba in Piazza Fontana, lo stesso episodio rievocato già nella storia “Un fascio di bombe” di Alfredo Castelli, Mario Gomboli e Milo Manara.


Gli anni Settanta sono invece lo sfondo temporale del Commissario Spada (episodi pubblicati per anni dal Giornalino), scritto da Gianluigi Gonano e disegnato da Gianni De Luca, un artista straordinario che ha tra l’altro ha saputo rendere la nebbia milanese, la “scighera”, quasi tangibile anche nel fumetto nella storia “Il mondo di Sgrinfia”.



Milano è protagonista di molte storie ambientate ai giorni nostri, come nelle opere di Sergio Gerasi (“In inverno le mie mani sapevano di mandarino”), “Un romantico a Milano”, Vincenzo Filosa (“Italo”), Teresa Radice e Stefano Turconi (“Non stancarti di andare”).
 



Non manca poi uno spazio dedicato a tre grandi artisti che hanno dato lustro alla città: il regista Giorgio Strehler (nelle tavole di Alessandro Ambrosoni su testi di Davide Barzi e Claudio Riva), i cantanti Giorgio Gaber (in (“G&G” di Sergio Gerasi, su testi di Davide Barzi) ed Enzo Jannacci (che ispira, con una delle sue canzoni più famose, il volume “Unico indizio le scarpe da tennis” disegnato da Marco Villa, ancora su testi di Barzi).
 



Uno spazio speciale è poi dedicato alle tante apparizioni degli eroi dei fumetti a Milano: gli eroi Disney come Topolino e Paperino, i Puffi, Diabolik, Michel Vaillant, l’Uomo Mascherato e tanti altri, con uno sguardo affettuoso a quelli che sono “passati a visitare” WOW Spazio Fumetto, come Lupo Alberto, Dylan Dog e Tex Willer.



 

Oltre alla Milano di ieri e di oggi c’è anche uno spazio per quella fantastica e distopica, sorvegliata dal supereroe Milanoman della serie “Guardiani italiani” oppure attaccata da mostri in “Sindrome 75” di Francesco G. Lugli, Gian Luca Margheriti con i disegni di Alberto Locatelli.
 


L’esposizione è completata dal corredo di giornali e albi stampati, che approfondiscono ulteriormente il percorso della mostra. Le opere sono esposte in cornici museali Cquadro, per consentirne una visione perfetta. Come di consueto sarà utilizzata la speciale webapp del museo per ampliare l’informazione a corredo della mostra, in collaborazione con GlobalMedia: si attiva solo temporaneamente su smartphone o tablet personale, senza costi, e funziona geolocalizzata all’interno del museo. Nel corso della mostra saranno organizzati incontri, eventi e attività didattiche sulle diverse tematiche.

a cura di Stefano Superchi

 

25 dicembre 2024

La fiaba di Natale di Shane

 La fiaba di Natale di Shane



Forzando la mano potremmo dire che “Fairytale of New York” sta ai Pogues come “Bohemian Rhapsody” sta ai Queen.
La canzone di Natale della band folk-punk irlandese, una ballata struggente ambientata nella Grande Mela il giorno della Vigilia di Natale, dopo una tormentata preparazione di circa due anni, uscì come singolo il 23 novembre 1987, per poi essere inclusa in seguito nel glorioso album “If I Should Fall from Grace with God” (1988).



Scritta da Jem Finer e Shane MacGowan, registrata in un leggendario duetto con lo stesso MacGowan e Kirsty MacColl, “Fairytale of New York” è considerata secondo vari sondaggi giornalistici e televisivi come la più bella canzone natalizia di sempre, tenera e rozza al tempo stesso. Tre milioni e mezzo di copie vendute e 6 dischi di platino nel Regno Unito, per quel che può contare.
MacGowan decise di chiamare il pezzo come il romanzo del 1973  “A Fairy Tale of New York” di James Patrick Donleavy, che Finer stava leggendo in quel momento e che aveva lasciato in giro nello studio di registrazione.

 


L’incipit al pianoforte, malinconico e venato di lirismo, richiama la colonna sonora di Ennio Morricone in “C’era una volta in America”:

«It was Christmas Eve babe / In the drunk tank / An old man said to me, won’t see another one» («Era la Vigilia di Natale, tesoro, / nella cella degli ubriachi / un vecchio mi ha detto “Non ne vedrai un’ altra”»).

 

Poi la melodia evolve nelle strofe centrali, in un riff decisamente irish che dà il sapore di una storia in rapido avvicendarsi.
La voce di MacGowan, un po’ malconcia, non sempre intonata ma piena di sentimento («I’ve got a feeling»), è perfetta per questa nenia natalizia.
Epico l’arrangiamento dei Pogues con archi, arpe e corni a rotta di collo. Nessuno, ancorché tecnicamente impeccabile, avrebbe mai potuto raggiungere quel miscuglio di raucedine e ardore che sfoggia la band irlandese.

 



A proposito dell’interpretazione di Kirsty MacColl, Shane disse: «Kirsty conosceva esattamente la giusta misura di cattiveria, femminilità e romanticismo da mettere dentro e aveva un carattere molto forte e si è manifestato in modo grandioso... Nell’opera, se hai una doppia aria, è ciò che fa la donna a contare davvero. L’uomo mente, la donna dice la verità».

 

 

(la versione live nel programma DOC della Rai, nel 1988)

 

Nel corso della canzone due amanti, ex star irlandesi-americane di Broadway, litigano ferocemente sul loro destino così differente dalle loro speranze. Sullo sfondo di stordimento alcolico e sogni, di autenticità e sconforto, di affetto e insulti reciproci, corre il ritornello che dipinge gli anni passati insieme:

«I ragazzi del coro della polizia di New York / cantavano “Galway Bay” / e le campane risuonavano / per il giorno di Natale».

Malgrado tutto, nell’ultima strofa, i due tornano ai loro desideri e alla speranza tipicamente natalizia di rinascita, di un nuovo inizio.

«Ti sei preso i miei sogni / la prima volta che ci incontrammo. / Li ho tenuti con me, tesoro, / li ho messi assieme ai miei... / Non posso farcela da solo. / I miei sogni li ho costruiti intorno a te».
  

 

Una versione di “Fairytale of New York” è stata eseguita da Glen Hansard e Lisa O’Neill nel corso del funerale di Shane MacGowan, morto poco più di un anno fa all’età di 65 anni, nella St. Mary of the Rosary Church di Nenagh, nella Contea di Tipperary.

Stefano Superchi



24 dicembre 2024

Erri De Luca su Fabrizio De André

 Erri De Luca su

Fabrizio De André

 


Noi oggi, noi piccole serpi di Officina Coolturale, non vogliamo, su queste parole gigantesche rivolte ad un enorme paroliere, poeta e musico, fare un cappello, perché nessun cappello sarebbe eloquente e pulito. Pertanto vi regaliamo questa perla, questo lingotto d'oro nella speranza che i giganti continuino ad avere influenza su di noi lillipuziani e babbani, sulla società e soprattutto sulle coscienze, diversamente non c'è salvezza.

Giovanna Anversa 




 “Lui è chi ha cantato Cristo in croce e ha dato i dieci comandamenti al commento di Tito, uno dei ladroni appesi.
Lui ha messo in musica un prigioniero che non voleva respirare la stessa aria dei secondini.

 


 
Lui cantava con voce di pozzo l'amore dei giorni perduti a rincorrere il vento.

 


 
Lui è chi ha tradotto Leonard Cohen, Georges Brassens, Bob Dylan in quell'impossibile, perfetta versione di "Avventura a Durango", capolavoro di trasferimento da una lingua a un'altra.
 


 

Lui è chi ha scritto che a morire di maggio ci vuole troppo coraggio, ha dato musica alla cattiva strada, ha squagliato la cioccolata dei dialetti, il genovese, il sardo, il napoletano dentro le ballate.
 


Lui è chi è stato legato a un palo dell'Hotel Supramonte dove ha visto la neve sopra un corpo di donna amato, addolcito di fame e ha ascoltato i racconti dei banditi e ha conosciuto una loro cura che nessun detenuto di questo Paese ha provato.
 


 

Lui è chi ha perdonato con gratitudine.
Lui è chi ha visto al collo di Teresa una lametta vecchia di cent'anni, lui sa che il dolore di Franziska taglia più di un coltello di Spagna.

 


E sa il bosco dove Sally arrivò con il tamburello e sa il bisturi che corregge il sesso di Princèsa, e la ragazza che si versa un cucchiaio di mimosa nell'imbuto di un polsino slacciato.
 


 

Lui è chi ha dato cantico ai drogati perché chiedessero: "e chi, chi sarà mai / il buttafuori del sole / chi lo spinge ogni giorno / sulla scena alla prime ore".
 


 

Lui è chi ha suonato i pensieri dei suicidi, il nasone di Carlo Martello, le fregole di un vecchio professore e la più concreta offerta di un paradiso, in vendita a via del Campo.

 

 

Lui è chi ha messo un giudice nelle mani esageratamente affettuose di un gorilla e ha lasciato che un pescatore sfamasse un assassino, e tacesse ai carabinieri.
Lui è chi cantò le lapidi di Spoon River dove Jones il suonatore mai rivolse pensiero al denaro, all'amore, al cielo.
 


Lui è chi ha voluto bene ai cuccioli del maggio che poi avrebbero azzannato i garretti dei potenti e avrebbero stabilito il record di carcere di una generazione italiana. Invano avvertiva gli altri: "per quanto voi vi crediate assolti / siete lo stesso coinvolti". 

 


Invano, perché gli altri si sono sempre assolti, da soli e definitivamente. Coinvolti restano solo lui, i caduti e i prigionieri senza fine. Sì, è stato il più grande, non solo per iscritto e in canto, ma per carattere, per dirittura d'urto contro la macchina luccicante di successo e carriera.


Lui solfeggiava con gli sconfitti, sbriciolava il loro pane ai passeri. Dopo di lui la specie dei selvatici si è estinta. C'è il gran bazar degli ammansiti.


Non l'ho nominato, solo enumerato. Chi ha bisogno di guardare il suo nome, ha perso tempo a leggere fin qua".

 

Erri De Luca 

 

 

23 dicembre 2024

Litfiba: 17 Re e le vedove inconsolabili della Trilogia

 Litfiba: 17 Re e le vedove inconsolabili della Trilogia

 


 Nel dicembre 1986, quando “17 Re” arriva nei negozi di dischi, i Litfiba non sono già più una cult band per pochi eletti. Non sono certo famosissimi, in quel periodo la testa delle classifiche se la giocano Europe, Duran Duran e Spandau Ballet, ma si sono comunque consolidati una robusta base di adepti nel circuito alternativo.
Nati nel 1980, hanno già vinto qualche festival rock italiano, hanno inciso il 45 giri Luna / La Preda con la Fonit Cetra (1982) e composto la colonna sonora teatrale per l’Eneide messa in scena dalla compagnia fiorentina Krypton. Si sono già fatti conoscere in tour per l’Italia e anche all’estero, soprattutto in Francia con la quale c’è un certo feeling.
Nel 1985 attirano l’attenzione degli addetti ai lavori con il primo album “Desaparecido”, che sarà proclamato “Disco dell’anno” dai lettori di Rockerilla.

 

Provengono da quel pentolone fiorentino dei primi ‘80 che ribolle di punk rock e new wave dal quale usciranno anche bands come Diaframma, Neon e Moda in un momento speciale e favorevole a incontri artistici e creativi. Vicino a Ponte Vecchio, in una grande cantina affittata in via De’ Bardi, il chitarrista Ghigo Renzulli aveva approntato una sala prove aperta, dove nascevano jam session improvvisate e dove nasce la storia dei Litfiba.
Renzulli, in uscita dai Cafè Caracas dove suonava con Raf, incontra il bassista Gianni Maroccolo, il vero Re Mida del rock italiano, ed intorno ai due si aggregheranno poi i futuri membri della band.



Le esperienze e le preferenze musicali dei due sono differenti, ma ciò non ostacola il progetto, anzi, le fonde arricchendolo. Renzulli predilige il classic rock, mentre il più giovane Maroccolo ama prog e new wave. Ognuno dei nuovi arrivati porta nel gruppo il proprio stile, il tastierista Antonio Aiazzi ha un’impostazione classica, mentre il cantante Piero Pelù, ultimo arrivato, è stregato dal punk. All’inizio si alternano diversi batteristi, ma dal 1983 il ruolo è affidato al talentuoso Ringo De Palma.
 


Il gruppo trova presto la strada e il suo stile, che parte dalla new wave ma si contagia con il rock e dei testi visionari in italiano. I primi concerti non passano inosservati, per la chimica che unisce i componenti del gruppo e per la presenza magnetica del frontman Piero Pelù che domina il palco con la sua voce e con le sue movenze da sciamano carismatico.
Ma se Pelù appaga l’occhio e attira l’attenzione, è l’amalgama del gruppo che fila come un treno a convincere il pubblico.
Come racconta Ghigo Renzulli nell’autobiografia dei Litfiba ”Utilizzavamo un sistema molto democratico di lavoro: si cominciava a suonare e ognuno faceva un po’ quel cazzo che gli pareva e piaceva finché, improvvisando, non si arrivava a qualcosa di interessante. A quel punto ci si fermava e si cominciava a sviluppare tutti insieme quell’idea. Il trio compositivo strumentale era normalmente formato da Antonio, Gianni e me, su cui Piero cantava in perfetta autonomia costruendoci sopra le sue melodie vocali e le sue liriche.”



Desaparecido è il primo tassello della band che ha già personalità da vendere e sa accoppiare sapientemente new wave e melodia, ma è solo il punto di partenza: il gruppo è consapevole dei propri mezzi ma sa che può ancora progredire.
Nel 1986 arriva “17 Re”, il punto più alto dello zenit dei Litfiba, un disco dove ogni cosa è al posto giusto e il livello di ispirazione è altissimo.
Ricorda Gianni Maroccolo, intervistato da Federico Guglielmi: 17 Re è stato la massima espressione libera dei Litfiba, nel senso che tutti e cinque siamo riusciti a inserirci ciò che volevamo: per noi questa cosa, che non è mai successa né prima né dopo, era il vero punto di forza del disco”.

 


Il risultato è un disco maestoso, sedici brani che fotografano l'entità dei Litfiba di allora.

Apre l’album la folgorante “Resta”, dedicata alla tragedia nucleare di Černobyl, tre minuti densi con i quali la band fiorentina sembra aprirsi a una nuova vita, pronta a scavalcare le atmosfere di Desaparecido e collocarsi in uno spazio più ampio e aperto a influenze diverse, senza snaturare il proprio percorso.



La trama ondulata del basso su cui si basa la successiva “Re del silenzio” si muove proprio in questa direzione, avvicinandosi al sound delle origini ma con le armonie di un rock dal respiro europeo.



È un attacco che mette subito in chiaro che, pur in continuità con il percorso della band, 17 Re è un disco che rompe con il passato, compiendo un salto in avanti. Sei anni di esperienza insieme, concerti e alchimie, consentono ai Litfiba di poter osare senza più il rischio di venire travisati, di sperimentare e permettersi sconfinamenti in territori inesplorati, giocando con la musica, i suoni, le melodie. Sperimentazioni che si sentono tutte in “Café, Mexcal e Rosita”.


Nel pezzo successivo ,“Vendetta”, si sterza e si cambia ancora direzione, iniziando con i lampi che covano sotto la cenere, passando per un ritornello ipnotico e un finale esplosivo con un assolo di chitarra infinito.


“Pierrot e la luna”, ispirata al Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg e all’opera di Albert Giraud, è vera e propria poesia, che trasporta e coinvolge, grazie a un testo immaginifico e ad un’orchestrazione d'insieme intensa.


Se “Tango” è un pezzo dichiaratamente antimilitarista, tema sempre presente nella storia dei Litfiba, “Come un Dio” è un dipinto visionario e liberatorio che passa dal cupo alla luce in poche battute, scivolando verso la fine (“l’energia corre via / l’energia si trasformerà”).

 

“Febbre” percorre strade allucinate in continuo crescendo in un vortice dove si rimane storditi (“ferma la mia sete / bevi la mia febbre”).

Alle prime note di “Apapaia” si rimane rapiti dal pezzo che si può ben definire un inno generazionale, un classico irrinunciabile per ogni discepolo “indie” che si rispetti. Un salmo profondo e impegnativo, tecnicamente perfetto. Quando si arriva a questo punto del disco si ha la consapevolezza di avere in mano un album davvero imponente.



Toccato l’apice del disco, si comincia ad addentrarsi in territori sempre più audaci, come a marcare la potenza e le possibilità di un gruppo all’apice della creatività. Il girotondo ipnotico di “Univers” prende al cuore (stringi forte la mano con la mia / ti porterò lontano”) e ti porta nello spazio, poi si torna “Sulla terra”, facendo sentire ancora una volta forte e chiaro il messaggio pacifista, attraverso cui i Litfiba si confrontano con la musica d’autore di qualità. 


“Ballata” è l’ennesima perla luminosa prima che il disco prenda la direzione più cupa e dissonante di “Gira nel mio cerchio”, la ruvidezza corrosiva di “Cane” e le suggestioni orientaleggianti di “Oro nero” (“sono diviso in tre / Islam, Allah e Me”).
Il disco si chiude con le coraggiose innovazioni di “Ferito”, un manifesto delle potenzialità dei Litfiba.


 


66 minuti di musica dalle visioni teatrali, di tante cose diverse e complementari, l’apogeo creativo di un’esperienza unica.


Piero Pelù racconterà che “Il disco è stato un "legante". Non è un caso che si ponga tra Desaparecido, l’album più new wave, dal punto di vista artistico e musicale, e Litfiba 3, la porta che si è aperta verso i nostri anni '90 e verso la virata più rock. Dentro 17 Re c’è tutto: dalla psichedelica al punk, passando per la new wave, le canzoni più cantautorali e anche le ballate più melodiche […] davvero tanto stile, soprattutto del periodo artistico che stavamo vivendo. Dal 1983 avevamo cominciato a girare in tour in Francia. Il fatto di suonare all’estero è stato davvero un valore aggiunto, avevamo la fortuna di partecipare ai festival, soprattutto in quelli dove ci potevamo confrontare con musicisti provenienti da tutta Europa e dal mondo. Questo significa che tutte queste influenze sono confluite per la prima volta in un nostro album che abbiamo composto, tra l’altro, in un periodo relativamente molto breve. Componemmo la bellezza di molto di più di quelle canzoni, 16, che poi finirono sulle quattro facciate del disco, ognuna con la propria ragione di esistere”.

 


Tra i pezzi esclusi dalla scaletta finale c’è proprio la title track, “17 Re”. Del brano parla Maroccolo: “abbiamo registrato a livello di "demo" due o tre versioni di 17 Re. Durante la composizione del disco, registravo i provini su un 8 tracce a nastro e ricordo bene che alla fine fermammo una versione niente male. Ma anche quella alla fine non convinceva tutti e quindi lasciammo perdere. A mio avviso, a risentirla, non era così poi malaccio, anzi, direi che era proprio bella”.

Il nucleo storico dei Litfiba durerà ancora fino alla fine degli anni Ottanta, quando incompatibilità artistiche porteranno all’uscita di Maroccolo e Aiazzi, anche se il tastierista continuerà a collaborare a lungo. Un epilogo segnato dalla prematura scomparsa di Ringo De Palma, da cui nasceranno dei Litfiba nuovi guidati dai soli Renzulli e Pelù, che ne modificheranno la fisionomia raccogliendo vasti consensi di un nuovo pubblico, ma perdendo per strada chi, come me, rimane legato imprendiscibilmente al periodo irripetibile della trilogia “Desaparecido” – “17 Re” – “Litfiba 3”.

Stefano Superchi







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