Sonny Boy
l’autobiografia di Al Pacino
Al Pacino si racconta mettendosi a nudo nell’autobiografia “Sonny Boy” (edita da La nave di Teseo), che ripercorre la storia della sua vita dall’infanzia nel South Bronx di New York. Ricorda che la mamma lo portava al cinema già a quattro anni: «Non sapeva che mi stava dando un futuro. La sala cinematografica era un posto in cui mia madre poteva nascondersi nell’oscurità e non condividere il suo figlioletto con nessuno».
Nel libro si parla del nonno materno, che fu la sua prima, vera figura paterna, che «sembrava uscito da un libro di Dickens». Quello paterno, Alfred Pacino, era un ubriacone con imprevedibili sbalzi d’umore. Si parla della nonna che cucinava cibo italiano e, mentre lo imboccava, gli raccontava storie scombinate di cui era il protagonista.
Poi c’è la vita “da strada” con la “banda” di amici di cui faceva parte, con i quali si sentiva protetto (“In quel quartiere sembrava che sfidassi la morte ogni giorno”), la squadra di baseball del quartiere dove giocava il giovane Pacino, gli anni in cui avrebbe potuto prendere la cattiva strada della delinquenza e della droga che ha ucciso quasi tutti i suoi amici. E qui ritorna la figura centrale della madre, Rose Gelardi, che lo salvò dallo stesso destino dei suoi amici.
Rose Gelardi |
La prima svolta arrivò ai tempi della scuola, quando la sua insegnante gli consigliò di recitare, dopo aver capito che quel ragazzino aveva un gran talento. Ma il mondo dello spettacolo, agli inizi, non fu certo rose e fiori, erano anni di povertà, quelli dell’amicizia con Martin Sheen con il quale condivideva un piccolo appartamento. Ma appena dopo i vent’anni la vita gli presenta tragicamente il primo conto: sua madre si toglie la vita.
Lei che per prima lo aveva acompagnato a Broadway, lei che per prima gli aveva fatto conoscere il genio di Tennessee Williams, lei che lui avrebbe fatto di tutto per salvare.
In questa storia c’è il coraggio di mettersi a nudo, di buttare sul piatto tanto privato, il coraggio di un uomo che avrebbe di che vivere di rendita con la sua sfolgorante carriera pubblica.
Ma c’è anche un bel pezzo di storia del cinema, quando la ‘nuova era’ aveva imposto un orizzonte rivoluzionario in cui «James Dean era un sonetto e Marlon Brando un poema epico». Un’epoca che «non si limitava a prenderti alle viscere. Ti aggrediva».
C’è il racconto di come conobbe Francis Ford Coppola, quello della telefonata con il regista de “Il padrino” che gli cambiò la vita affidandogli la parte di Michael Corleone, quello dell’Oscar vinto nel 1993 per “Scent of a Woman - Profumo di donna”.
Il libro è pieno della vita straordinaria che un personaggio del genere non poteva che avere.
E come in un film, la voce di Pacino si sente, le persone della sua vita si vedono, tutti i personaggi che ha interpretato sembrano emergere da una dissolvenza, animati dal più grande attore vivente. E fra le pagine si compie la magia, perché «le parole possono farti volare. Possono prendere vita».
C’è un filo rosso che sembra tenere insieme tutti i capitoli del libro: si ha la precisa sensazione che Al Pacino non abbia mai smesso, nemmeno quando ha raggiunto i punti più bassi della sua esistenza, quando la fame o la disperazione avrebbero fatto desistere chiunque, di credere che ce l’avrebbe fatta, di sentire che il suo miraggio era la via giusta. A un amico che gli chiese «Com’è che tu ce l’hai fatta e io no? Eppure, l’ho sempre voluto», Al Pacino rispose «Tu volevi. Io dovevo».
Stefano Superchi
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