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05 ottobre 2024

Luis Sepúlveda, l'indomabile sognatore

 Luis Sepúlveda

l'indomabile sognatore

 


il 4 ottobre 1949 nasceva in Cile Luis Sepúlveda


"Solo sognando e restando fedeli ai sogni riusciremo a essere migliori e, se noi saremo migliori, sarà migliore il mondo."

 

Uomo di grande levatura morale e di immenso talento scrittorio, ve lo raccontiamo con le sue parole.



Che scrittore è Luis Sepúlveda e quanto gioca l’ironia nei tuoi libri?

Mi considero uno scrittore di stampo cervantino, un ‘nipotino’ del grande Cervantes, colui che più di chiunque altro è stato un maestro nell’uso dello strumento dell’ironia, un’ironia intelligente e sensibile, al contrario del sarcasmo, che è sempre vigliacco e offensivo. Io cerco di scrivere dal punto di vista di una sana ironia fatta di amor y umor. In più sono cileno, e devo dire che una particolarità dell’uomo cileno è quella di ironizzare sempre soprattutto su se stesso, a differenza degli argentini. Se un argentino viene lasciato dalla moglie cercherà subito uno psicanalista e al massimo scriverà un tango tristissimo, un cileno invece darà una festa per gli amici per raccontare, trasformare l’abbandono cercando delle spiegazioni e ridere anche di questo.

Negli anni del carcere, che vi assicuro sono stati molto duri, non ci trattavano bene, ci torturavano e una delle torture più comuni era quella di strapparci le unghie dei piedi, ma anche lì quando tornavamo alle nostre celle con i piedi sanguinanti e dolenti non era raro sentire qualcuno che diceva “Sono stato dal podologo stamani, una vera bestia, ma non gli ho certo lasciato la mancia!”.


Che rapporto hai con la tecnologia?

Ho un rapporto normale con Internet, lo uso per leggere la posta, ho una pagina Facebook, lavoro come giornalista, partecipo spesso al mio blog su “Le monde diplomatique” e mi è sembrato interessante includere tutto questo mondo anche nel libro. Le informazioni che ci si scambiamo nelle mail sono sintetiche, scritte in modo riassuntivo, e questo genere di scrittura può generare malintesi, altre volte situazioni divertenti, è una forma di scrittura meno naturale della corrispondenza a cui eravamo abituati prima. 

 


Qual è il rapporto che hai con i tuoi personaggi?

Riesco ad iniziare a scrivere una nuova storia solo quando sento maturi i personaggi, quando sono sicuro di loro, quando oramai li amo, quando sono definiti e l’affetto che ho per loro li rende indipendenti. I romanzi non vengono scritti dall’autore ma dai personaggi, lo scrittore si limita a seguirli nel loro percorso. Nutro per ciascuno di loro un affetto particolare e quando termino di scrivere un libro è difficile per me lasciarli andare. In fondo per un certo periodo di tempo si vive in un mondo che è quello della finzione, in quel paese, in quella storia e quando tutto finisce è triste. Allora mi prendo una bottiglia di whisky - premetto non sono un alcolista né un bevitore - me la scolo e vado a letto. E quando mi risveglio ricomincio.
 


Cosa pensi dei giovani, delle nuove generazioni?

I giovani di oggi sono un caso a parte, quelli della mia generazione hanno ricevuto qualcosa da chi li ha preceduti, hanno ricevuto un testimone importante, noi invece li abbiamo delusi.

Anche tutto questo disinteresse e mancata partecipazione alla vita sociale che si attribuisce loro secondo me non è reale disinteresse, ma incomprensione. I giovani di oggi devono andare alla ricerca di nuove forme di comunicazione, si trovano a dover ricostruire tutto da zero.

Ho un figlio di ventidue anni e qualche tempo fa per telefono mi ha detto che voleva farmi sentire un rap tedesco e mi ha cantato la storia di Edward, un cane poliziotto che lavora all’aeroporto di Monaco di Baviera, un cane antidroga che annusava solo le valige delle persone ben vestite e trascurava i ragazzi vestiti male, trasandati con gli zaini in spalla. Un giorno un poliziotto nota il comportamento insolito del cane e ferma un ragazzo di ritorno da Amsterdam a cui il cane non aveva minimamente prestato attenzione. Nello zaino del ragazzo viene trovata della marijuana. Edward viene degradato, buttato fuori dalla polizia e relegato nel canile municipale. Dopo un po’ però viene adottato dalla comunità punk di monaco e ben presto diventa una mascotte perché il suo gran fiuto riesce ad anticipare l’arrivo dei poliziotti!
 

La Letteratura ha una missione etica o serve solo a raccontare storie?

Credo innanzitutto che uno scrittore debba narrare non da un punto di vista individuale ma collettivo: deve avere come punto di partenza un generoso ‘noi’. L’opera di uno scrittore trova la sua più profonda giustificazione etica non tanto nelle cose grandi, ma in quelle piccole nella forma e grandi nel contenuto.

Qualche anno fa uscivo da una libreria di Parigi e venni avvicinato da un ragazzo che avrà avuto vent’anni. Mi disse che aveva letto Un nome da torero, forse uno dei miei romanzi dove ho messo più di me stesso. Mi chiese se avevo un minuto da dedicargli e dal momento che ce l’avevo siamo andati a prendere un caffè. Vedevo che era molto emozionato, non riusciva a parlare così l’ho spronato a farlo.

Mi ha raccontato di essere il figlio di Perez, massimo dirigente del Mir, ucciso dalla dittatura. Mi ha raccontato dell’odio che provava per suo padre perché era sempre assente, perché non lo accompagnava alle partite di calcio, non lo andava a prendere a scuola come tutti i suoi compagni. Leggendo il mio libro aveva capito chi fosse stato realmente suo padre e per cosa si era battuto, per cosa era morto. E allora non solo aveva capito, ma lo aveva amato, rispettato e di lui era divenuto orgoglioso. Ho realizzato proprio in quel momento la carica etica profonda della letteratura, un dovere a cui non posso certo sottrarmi.


 

Un uomo da ammirare, uno scrittore da ringraziare.

a cura di Giovanna Anversa

 


 


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