Ivan Graziani
la chitarra rock della musica d’autore italiana
Era l'estate del 1978 e io rientravo dalle vacanze in Romagna, Gatteo Mare per l'esattezza. Avevo 14 anni l'età in cui cominciano le grandi cotte e in Romagna una bella cotta per un ragazzino tedesco, me la ero presa. Non si comunicava a parole ma a gesti sì; si è passato del bel tempo insieme in maniera molto innocente ma anche molto intensa di emozioni. Dopo i saluti carichi di pathos, dell'ultima sera, con la promessa di scriversi sempre, rientro a casa ovviamente con un po' di dispiacere. Poi ricomincia la routine quotidiana, rivedi gli amici, esci, la scuola che riparte e il biondino che veniva da un paese bavarese, dopo uno scambio di cartoline dei rispettivi paesi, lo si mette in un angolo. Il caso vuole che una mattina alla radio, ho sempre avuto la radio in bagno e ce l'ho tuttora, io sentissi per la prima volta Lugano addio, canzone che aveva già compiuto qualche mese ma che ancora non conoscevo, e tac..... ecco che con Lugano addio torna il biondino bavarese. Lugano addio, non solo mi ha fatto scoprire Ivan Graziani ma mi ha restituito un momento felice e carico di emozioni. Oggi ogni volta che la sento riappare Martin, il biondino bavarese che mi fece battere il cuore.
Giovanna Anversa
Ivan Graziani nasce il 6 ottobre 1945 e fin da bambino le sue passioni sono la chitarra e il disegno. Dalla provincia di Teramo la sua predisposizione artistica lo porta a iscriversi all'Istituto Statale d'Arte di Ascoli Piceno.
È un personaggio atipico Ivan Graziani, sintesi tra musica d’autore e spirito rock and roll, chitarrista virtuoso prestato alla canzone che impara lo strumento da autodidatta.
Verso la fine degli anni ’60 in Italia è tutto un brulicare di scuole cantautorali, a Genova fioriscono Lauzi, De Andrè, Tenco e Paoli, a Roma, attorno al Folkstudio, nascono De Gregori, Venditti e molti altri; poi c’è un gruppo di cani sciolti, artisti talentuosi originali, obliqui e singolari, che si muovono su terreni strani ed affascinanti, tra rock, folk e canzone d’autore come Rino Gaetano, Stefano Rosso, Eugenio Finardi e Ivan Graziani, appunto, “la chitarra rock della musica d’autore italiana”.
La vita artistica di Ivan Graziani comincia a muoversi con le prime onde del rock and roll d’oltreoceano, origliate alla radio, che lo spingono a prendere in mano la chitarra e a partire per la sua strada. Cominciano le prime serate nei locali, con i Modernist’s di Nino Dale, poi con Velio Gualazzi (padre di Raphael) alla batteria e Walter Monacchi al basso fonda la sua band, l’Anonima Sound, con cui comincia a farsi largo nel panorama musicale italiano.
Dopo anni di gavetta e improbabili nomi d’arte, nei primi anni ’70 arriva il primo album , “La città che io vorrei”, e i primi ingaggi in sala di incisione con mostri sacri come Venditti e Battisti , per il quale suona la chitarra in “Ancora tu”.
È con la band di Battisti, un cast di musicisti di primissimo piano come Lucio Fabbri, Walter Calloni (entrambi entreranno poi nella Premiata Forneria Marconi) e il cremonese Claudio Maioli, che nel 1976 Ivan registra “Ballata per quattro stagioni”, che ha tra le sue tracce la struggente “E sei così bella” che mette in luce la sua vocalità particolare, un falsetto che si arrampica e si piega in modulazioni virtuose.
Per l’amico Venditti suona nell’album “Ullallá” del 1976 e l’anno seguente Antonello ricambia il favore partecipando alla produzione de “I Lupi”, che contiene il capolavoro “Lugano addio”, ritratto di donna, musa di malinconie e ricordi. La chitarra di Ivan domina, il suo stile si affina e comincia a trovare un suo lessico personale. Arriva il successo, il singolo entra in classifica e riecheggia nei juke box d’Italia.
Nel 1978 sforna “Pigro”, dove si parla di inerzia, apatia, immobilità e paura, che ci legano a terra e ci impediscono di vivere in modo libero e profondo. Il disco contiene un pezzo dal ritmo in crescendo come “Monna Lisa”, rock essenziale ed asciutto, ma anche “Sabbia del deserto” che esplora il tema della solitudine della provincia, piccola e senza sbocchi. La sabbia dell’immobilità si insinua negli ingranaggi della vita di tutti i giorni fino a paralizzarti, tra feste comandate, parenti e mancanza di orizzonti.
E accanto alla caustica “Pigro” che dà il nome al disco, uno splendido e realistico ritratto di donna, “Paolina”, timida e impreparata alla vita, che non trova il coraggio di amare, condannandosi ad un’eterna e dignitosa solitudine.
Sfodera un disco all’anno il prolifico Ivan e nel 1979 esce “Agnese dolce Agnese”.
In “Taglia la testa al gallo” il rock profuma di folk per il testo legato alle usanze e ai costumi della provincia, l’amato blues di “Fame” racconta i momenti difficili, quando la fama era una chimera. Ma poi, una costante, l’ennesimo ritratto di donna, “Agnese” un testo intenso ed intimista sulla musica influenzata dal rondò della sonatina op.36 n.5 in Sol maggiore di Muzio Clementi, che ispirò anche “A groovy kind of love” di Phil Collins. Ulteriore curiosità di questo pezzo è il primo verso “se la mia chitarra piange dolcemente”, riferimento esplicito alla beatlesiana “While my guitar gently weeps", scritta da George Harrison.
Ivan trova il tempo di collaborare con una Loredana Bertè all’apice della fama nel disco “Bandabertè”, ma subito si ributta in sala d’incisione per “Viaggi e intemperie” del 1980 che contiene la celeberrima “Firenze (canzone triste)”, ricca di immagini indimenticabili e di malinconia. Anche in questo disco gli immancabili ritratti di donne “Isabella sul treno” e “Angelina”.
Con l’inizio degli ’80 tende ad esaurirsi la golden age di Ivan Graziani. Il meglio è alle spalle e i nuovi album faticano a reggere il confronto con i suoi dischi migliori, o almeno più conosciuti e amati. Ma qualche cartuccia da sparare c’è ancora, il rock blues autobiografico de “Il chitarrista” (1983), “Maledette malelingue” (1994), che racconta di pregiudizi provinciali che possono distruggere vite e persone.
Il suo ultimo lavoro nasce dalla collaborazione con l’amico Renato Zero. Il live “Fragili fiori” del 1995, contiene “Fuoco sulla collina”, a mio giudizio un ideale e sontuoso testamento che mette in risalto le sue enormi capacità chitarristiche.
Un disco davvero bello, che purtroppo è anche l’ultimo: una malattia fulminea ed aggressiva si porta via un artista unico, cristallino e talentuoso, che forse sentivamo più vicino perché un provinciale come noi, con le nostre claustrofobie, che meglio di ogni altro ha saputo dipingere le donne, al di fuori dai soliti stereotipi.
Stefano Superchi
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