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05 gennaio 2024

GAIA'S CORNER #1 - The Doors

Vi presentiamo la nuova rubrica GAIA'S CORNER, che racconta di dischi, ma è qualcosa di più di una semplice recensione musicale.
Chi ci racconta i dischi? Gaia Beranti, aka dj Gaius, una laurea in Biologia Molecolare, un lavoro che ha a che fare con la carne. Ma se la carne è debole, Gaia no, lei è "strong", ed ha una passione viscerale per la musica, che scoprirete poco alla volta. perchè comincia stasera la sua collaborazione con il nostro blog.

The Doors (1967)

Lasagne, sciamani e altre normalità



4 Gennaio. Tempo di dieta, di buoni propositi e sciocchezze varie.
Ma riesce meglio, a me personalmente, di pensare agli anniversari musicali, uno in particolare.

04/01/1967.
L’umanità può accedere ad un disco che le maggiori testate del settore considerano nella lista dei 100 (esageriamo, anche 50) dischi più influenti nella storia del Rock. Che béli ròbi.

Questo disco lo conoscono anche i sassi, si può dire qualsiasi cosa fantasmagorica a riguardo. Quindi non farò la storia della creazione perché poi annoio chi conosce e lascio interdetto chi non conosce.
Allora mi appello a voi, anime salve, che non conoscete. Sperando di non annoiare i dotti.
Ecco allora la domanda delle domande: perché ascoltare questo disco?

L’errore più grande che a mio avviso si può fare su una pietra miliare musicale di questa portata è affogare in un delirio di straordinarietà, attribuendo doti non pertinenti. Perché aggiungere tensione alla qualità? Jim Morrison, “il Dio del rock”…eh, e alùra?

Andrei più sul pratico, partirei dai singoli componenti della band. Già solo a presentarli sembra una barzelletta stile “c’è un italiano, un tedesco, un francese…”: c’è un organista classico, un batterista jazz, un chitarrista flamenco e uno scappato di casa con un taccuino. Da lì, si fa la storia.

I Doors sono come una lasagna: i singoli elementi dicono poco per quanto validi, ma il connubio, amici, è una bomba.
Quattro ragazzi che per congiunzione astrale si incontrano nella loro forma più giovane, energica e quindi strepitosa.
Morrison ha casualmente nel suo taccuino pezzi in rima dotati di una curiosa musicalità e suggestioni strane. Il tastierista Manzarek tesse armonie di organo e linee di basso, anch’esse a tastiera. Il chitarrista Krieger genera melodie sbilenche e sognanti che si sposano perfettamente con quelle strane suggestioni morrisoniane e scrive canzoni meno sognanti che però vestono la sensuale figura del futuro sexy Re Lucertola come una calza a rete irresistibile. Il batterista Densmore pasteggia facilmente con le improvvisazioni del jazz, che vuoi che sia percuotere enfatizzando le improvvisazioni di quel matto che canta e non sai cosa ti farà di lì a poco?

Se si considera l’insieme delle tracce, non tutte sono memorabili (se pur orecchiabili). In tre quarti del disco ci sono canzoni che potrebbero tranquillamente essere accostate ad altri artisti del momento: i Byrds, i Love, i Jeffersons Airplane.

Ritorniamo alla stessa domanda: e alùra?

Sempre per le fortunate congiunzioni astrali. Lo scappato di casa (vedi sopra) ha una curiosa predilezione per il West: storie di sciamani, di indiani, di peyote, che si fondono con la mitologia greca, le orgie dionisiache e ancora con la letteratura impregnata di assenzio di Rimbaud. In parole povere: disordine, caos, sangue, sesso, perdizione, incoscienza. E quale meraviglia il disordine in un anno dove l’estate dell’amore esploderà di lì a poco, nel già avviato sottobosco della controcultura americana della beat generation, del viaggio nelle lande desolate dell’America come dell’ignoto dell’anima, le porte (The Doors) della mente di Huxley che una volta aperte mostreranno tutto come realmente è, infinito.
La poetica di Morrison ha il colore nero, gli hippies no, ma in quell’anno e in quel momento della sua vita, la moda dell’epoca e la sua poetica perseguono  un binario parallelo e si fanno l’occhiolino: la rivolta e la distruzione dell’ordine conosciuto.

I Doors non vagano testualmente per continenti, pescano nella propria tradizione ma non solo, cantano “Alabama Song” e quindi reinterpretano Brecht musica da Weill, riesumano Willie Dixon in “Back Door Man” (l’originale è un blues del 1960). Cantano di quella graziosa signorina del Sunset Strip e di quella bettola favolosa dove si ciba l’anima (“Twentieth Century Fox” e “Soul Kitchen”), tutte cosine carine anche per la radio e innegabilmente di buona e moderna fattura.
“Light my fire”? L’ha scritta Krieger, sempre la calza a rete citata sopra, però Morrison ci mette sempre lo zampino: di qualunque esperienza si parli, o si fa “higher” o non se ne fa niente.

Nello stesso disco infine ti sparano otto minuti di delirio edipico, sciamani, lande desertiche di terrore; due minuti prima canticchiavi della bèla putèla e due minuti dopo ti cappotti dalla sedia.

Tutto molto strano. Tutto molto assurdo.
Tutto molto bello.

Quindi, perché provare questo album?

In dieci giorni di incisioni, cantando cose strane scritte su un taccuino condite con ingredienti semplici, a tratti tradizionali e un po’ bislacchi, si viene sparati a petardo nella profondità dell’anima senza meta né paracadute.

Su un autobus blu, e chissà l’autista dove ci porterà.

Gaia Beranti




 

2 commenti:

  1. No comment dopo aver letto questa recensione anche se non conosci i Doors non puoi passare oltre sei obbligato ad ascoltare e cercare di capire qualche brano, sarò un po’ di parte chi scrive condivide con me un legame di parentela qualche nozione di musica con la M maiuscola ho cercato di passare ma ahimè spesse l’alievo supera il maestro e questo è un caso lampante, vai Gaius ❤️

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  2. Grandi Doors e grande Gaius

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