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26 agosto 2024

Cesare Pavese, consumato dall’amore per l’amore stesso

 Cesare Pavese

Consumato dall’amore per l’amore stesso



Le sue pagine, di prosa e di poesia, trasudano umanità intensa e dolente e da esse affiora sofferta solitudine. Quella solitudine che gli fu compagna nella breve esistenza conclusa tragicamente a Torino in una camera d’albergo 74 anni fa, il 27 agosto 1950. È nell’albergo “Roma”, sotto i portici di piazza Carlo Felice, che Cesare Pavese – capostipite del Neorealismo letterario italiano – si toglie la vita con una potente dose di sonniferi.


Lasciando un messaggio che, per i richiami alla lettera d’addio di Majakovskij, tradisce il suo nutrirsi di letteratura:

 

«Perdono tutti e

a tutti chiedo

perdono.

Va bene?

Non fate troppi

pettegolezzi».

 


Non certo un gesto impulsivo, il suo suicidio, meditato da tempo e annunciato nelle ultime pagine (quelle del 17 e 18 agosto) del suo diario “Il mestiere di vivere”. Poco più di due mesi prima aveva ricevuto il Premio Strega col romanzo “La bella estate”.
 



Nato in un paesino delle Langhe nel Cuneese, Santo Stefano Belbo, la sua città è stata Torino. Lì frequenta il liceo con un docente d’eccezione, Augusto Monti, conosce Norberto Bobbio, Massimo Mila, Leone Ginzburg, Giulio Einaudi, si laurea con una tesi sulla poesia di Whitman senza ottenere i pieni voti per l’impostazione crociana non gradita dal regime fascista.

 


E a Torino s’innamora di molte donne, quasi sempre senza essere ricambiato. A cominciare, quando aveva 19 anni, da una soubrette di un caffè-concerto che attenderà invano per lunghe ore sotto la pioggia buscandosi una polmonite, come canta De Gregori in “Alice”:

 

«E Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerino».
Tra le donne di Pavese, la matematica comunista Tina Pizzardo, la cultrice di letteratura americana Fernanda Pivano, l’attrice Constance Dowling, uno dei suoi ultimi amori a cui dedica i versi struggenti di una delle sue più note poesie:


 

«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. / Sarà come smettere un vizio, /  come vedere nello specchio / riemergere un viso morto, / come ascoltare un labbro chiuso. / Scenderemo nel gorgo muti››.

 

Inoltre Bianca Garufi, romana discendente da una famiglia aristocratica messinese. Il loro legame sentimentale è alimentato da comuni interessi culturali. I due si conoscono nella metà degli anni Quaranta presso la redazione romana dell’Einaudi: lei è segretaria generale, lui consulente. Per Pavese non è un semplice colpo di fulmine: la Garufi è bella, ama scrivere e, psicanalista junghiana, è attratta dai miti.

 


Sotto il suo influsso, lo scrittore delle Langhe scriverà “I dialoghi con Leucò” ispirati ai miti greci e con un titolo che allude al nome di lei (leukòs, bianco). Scriveranno anche insieme un romanzo, “Fuoco grande”, pubblicato da Einaudi nove anni dopo la morte di Pavese. Tanta la corrispondenza tra i due. In una lettera del 21 ottobre 1945 Cesare scrive a Bianca: «Vorrei essere almeno la mano che ti protegge, una cosa che non ho mai saputo fare con nessuno e con te invece mi è naturale».
 

di Antonino Cangemi per “La Ragione

 

a cura di Stefano Superchi

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