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29 gennaio 2024

GAIA'S CORNER #4 - Blackstar (2016) - David Bowie

Quarta puntata di GAIA'S CORNER, puntata col botto, roba forte quella di stasera. Gaia Beranti ci parla dell'ultimo gioiello del Duca Bianco David Bowie, un gioiello oscuro, da interpretare. 

Blackstar (2016)

Dipartite, digestives e navicelle di latta

 

Gennaio, il mese più lungo dell’anno, al fnès mai.
Musicalmente parlando, come disse il calzolaio al millepiedi, non si sa da che parte cominciare: un sacco di ricorrenze dove pescare.
La scelta è ricaduta su un artista che in gennaio di ricorrenze ne ha a bizzeffe: dischi fondamentali della sua carriera tra i quali l’ultimo, il suo compleanno e come i più grandi colpi di teatro mai visti, perfino la sua morte.


David Bowie.

Questi sono artisti che spaventano, è un attimo spararne una grossa e far la figura del cioccolatino, tanto ci ha lasciato su questa terra questo marziano bislacco che non basterebbe una vita per raccontare tutto. Artista che amo alla follia, talmente tanto che ho vinto la stretta allo stomaco che sento ogni volta che ascolto il disco e ho deciso di parlare del più complesso dei suoi lavori: Blackstar (2016).



Era un anonimo freddo 11 Gennaio, un lunedì mattina, già questo è un racconto tragico di per sé. Mi alzo e leggo l’Hollywood Reporter che diffonde la notizia accaduta nella notte. È una bufala dai, non può essere. Nel mentre la rileggo circa otto volte. Poi però la conferma, il Duca Bianco ha lasciato questa valle di lacrime. Ci ho messo circa una settimana ad elaborare la cosa. Della serie che vai al bar e mentre bevi il caffè realizzi che Bowie non c’è più. Fai benzina, scruti l’infinito e Bowie non c’è più. Sbatti il mignolo contro il mobile, ti incazzi e poi ci ripensi: David Bowie non è più di questa terra.


Esagerato? Sì, un po’ sì.
Ma Bowie è come un Earl Grey coi Digestives, è un’abitudine senza tempo, è un mobilio che ti accompagna da sempre (specie se lo hai scoperto e adorato dalle superiori come la sottoscritta), una confortevole certezza. Che non svanisce con il corpo, certamente. Però, era meglio se fosse rimasto ancora un po’.



Il giorno dopo, sul mercato esce “Blackstar”.
Il magone regna sovrano. Ma bisogna sentirlo, il prima possibile! Ci ho messo tot minuti ad ascoltarlo, anni per capirlo. E poi forse non ho capito niente, ma quanto basta a dire che è di rara bellezza.


Il disco gode della riverenza tipica dei testamenti musicali, come “Innuendo” dei Queen. Artisti meravigliosi che spremono quello che resta del corpo per rendere giustizia allo spirito e al loro genio creativo.
Il buon David non si adagia sugli allori dell’autocommiserazione e cerca qualcosa di nuovo, sperimenta. Cambia la band degli ultimi dischi, vira verso qualcosa di vagamente jazz, con i suoi fiati e i suoi guizzi improvvisi.
Realizza video oscuri di un moderno Lazzaro impazzito, con due bottoni neri sugli occhi, in preda all’isteria, oppure paesaggi ultraterreni oscuri e movenze nervose. Bowie gioca con l’idea della morte e della sofferenza, ne fa un linguaggio del corpo, quel corpo affusolato che aveva esercitato nell’arte del mimo da giovane e che ora forse riprende, se pur affaticato dalla malattia, con rinnovata linfa vitale per celebrare degnamente la sua morte.
Un paradosso che solo Bowie poteva concepire.


Tante le teorie su questo album oscuro, che forse si è divertito a creare senza lasciare chiavi interpretative. Perfino il titolo non si sa cosa significhi. Navigando in rete (vi invito a leggere un interessante articolo sul The Guardian del 2016 in merito), si legge di un possibile collegamento con una poco conosciuta canzone di Presley (idolo di Bowie, nato lo stesso giorno), dove la Blackstar si intende come presagio della fine della propria vita. L’ha reso il più strano possibile già dalla copertina, graficamente non vi ha messo nessun riferimento di immagine della sua persona (fatto per ogni suo disco), troneggia una stella nera con un alfabeto grafico che potrebbe stare per “Bowie” ma anche per altro. Boh.


Curioso a mio avviso la citazione del cadavere di un astronauta su un pianeta alieno: una citazione puntiforme di una storia circolare, questo quello che ci ho visto. Forse è appunto quel Major Tom di “Space Oddity” che non rispondeva più al Ground Control, che ha fluttuato nella sua navicella di latta per anni, poi è uscito a suonare  con gli Spiders From Mars. Quell’uomo delle stelle che si vede brillare dalla Terra e che potrebbe farti impazzire se scendesse, che ad una certa cade sulla Terra, che si aliena negli abissi della cocaina e della pochezza umana per risorgere poi maturando verso lidi più sereni di una terza età nella tranquillità della famiglia. Che però non dimentica la tensione verso l’esterno, che ogni tanto lo spinge a fluttuare. Per poi sparire di nuovo, in una oscura supernova, senza spiegazioni.

Nel mezzo, cinquant’anni di trasformazioni, maschere, sperimentazioni, perennemente in evoluzione ma sempre uguale a se stesso.

A chilometri dalla terra.

 


Gaia Beranti

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